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 2019  novembre 01 Venerdì calendario

Il Tribunale del Bene, un pericolo da evitare

Davanti alle provocazioni di alcune anime perdute, ispirate all’antisemitismo più volgare, la reazione della politica è stata, ancora una volta, ispirata a un verbosa e burocratica iniziativa con la quale si auspica la creazione di una Commissione di controllo e indirizzo con il vasto ed evanescente programma di contrastare il razzismo in genere e l’antisemitismo in specie. 
Il rispetto che nutriamo per la sua prima firmataria, e tutto ciò che rappresenta, non ci esime da alcune considerazioni critiche di ordine giuridico e politico. Giuridicamente parlando, infatti, gli strumenti per reprimere l’incitazione all’odio razziale esistono già, ed anzi si accavallano in una proliferazione normativa che ne rende persino difficile l’applicazione. 
Alcuni comportamenti discriminatori offensivi o violenti costituiscono sia reati autonomi sia circostanze aggravanti di altri delitti, cosicché l’interprete deve dipanare questa ingarbugliata matassa con decisioni spesso controverse e riformate dai giudici superiori. 
A queste difficoltà tecniche si aggiunge il paradosso che le pene sono comminate in base a un codice che reca ancora la firma di Benito Mussolini e di Vittorio Emanuele III, autori, come è noto, delle famigerate leggi razziali.
Il nostro legislatore non ha infatti saputo liberarsi di un codice del 1930, ma continua imperterrito a sfornare norme antifasciste. Una dissociazione schizofrenica che non ha uguali in altri Paesi. 
E ora la considerazione politica. L’utilità, o l’inutilità, delle commissioni parlamentari di inchiesta, è stata lamentata dagli intelletti più illustri, a cominciare da Benedetto Croce, ed è stata certifica dall’esperienza. Ma l’aspetto più controverso è che di questa Commissione non si comprendono né i mezzi né i fini. Se sia consultiva, o se debba convertirsi in organo investigativo. Se possa operare con i poteri dell’autorità giudiziaria, escutere testi e disporre acquisizioni documentali, e magari sollecitare incriminazioni. O se debba limitarsi a esprimere giudizi etici, storici o culturali, nel qual caso, per uno dei tanti paradossi della storia, rischierebbe di trasformarsi in una sorta di mostro censorio autorizzato a limitare, a propria discrezionalità, le manifestazioni del pensiero dissidente. 
Perché la genericità della formulazione del suo indirizzo, la molteplicità dei riferimenti giuridici internazionali cui si riporta, e la stessa vastità dei suoi propositi e della sua ipotetica struttura ne rendono la funzione incerta, ai limiti dell’ambiguità. Quanto ai risultati, nessuna persona di buon senso può illudersi che un simile organismo possa servire ad attenuare le pulsioni maligne di chi offende le vittime dell’Olocausto. 
Al contrario, la Commissione potrà (o intenderà) etichettare chi non si adeguerà alle sue aspirazioni velleitarie come insensibile qualunquista o addirittura nostalgico sansepolcrino. Con il risultato di sollevare le legittime reazioni di chi è contrario a questa iniziativa non per simpatie squadriste ma semplicemente in nome della tolleranza liberale. 
E con il rischio di suscitare nuove polemiche sterili e di perdere di vista il problema vero: quello di arginare con strumenti idonei la marea di falsità, di idiozie e di contumelie che fanno della Rete una sentina di ciarlatanerie. 
Concludo. L’odio, l’ignoranza e soprattutto la stupidità vanno combattuti con la cultura e la saggezza, e non con le leggi penali, tanto meno con le commissioni parlamentari.