Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  ottobre 13 Domenica calendario

Intervista a Antonio Moresco

E così anche uno dei più letterari tra gli scrittori italiani contemporanei ha ceduto al romanzo poliziesco. Com’è successo? «Ma perché è sbagliato coltivare questa separatezza. Non lo facevano i grandi autori ottocenteschi. L’idea della torre d’avorio non ha senso».
Intorno, semplici librerie bianche; un tavolino completamente sgombro, davanti alla porta-finestra, si affaccia sui tetti. Scrittore del sottosuolo, camminatore inesausto, anche tra le case editrici, Antonio Moresco nel suo studio-abbaino in un palazzo una volta popolare della Milano intorno a Porta Romana, parla del suo Canto di D’Arco, un «thriller metafisico» con protagonista uno sbirro morto (D’Arco appunto) e un passaggio tra mondo dei vivi e mondo dei morti che pone al centro le domande cruciali sull’esistenza.
Un poliziesco che viene da lontano.
«Per un po’ ho pensato che sarebbe stato il mio primo e unico libro incompiuto. Tanti anni fa avevo scritto Romanzo di fuga che poi avevo buttato perché non mi sembrava riuscito. Nella parte centrale compariva questo poliziotto. L’ho ripreso ne L’addio e credevo che fosse finita lì, anche se c’erano alcuni temi sottotraccia che mi tormentavano».
Ne sono venute fuori altre due parti. Il romanzo, fluviale, è diviso in tre: «Il male» (che corrisponde più o meno a «L’Addio»), «L’amore» e «La città di confine». È un libro molto d’azione.
«Molti miei libri lo sono ma questo è proprio combattente. Si vede che avevo bisogno di sparare un po’». (Ride)
Per la prima volta in un suo libro il protagonista ha un nome proprio.
«Non lo avevo mai fatto prima. Evidentemente questa specie di bestione chiuso dentro una mistica cecità, che porta avanti la sua missione, mi parlava. Forse ho bisogno di un avatar in cui riconoscermi, a cui abbandonarmi».
Il nome non ha a che fare con Giovanna D’Arco, come hanno pensato alcuni, né con «dark», «buio» in inglese.
«In realtà viene da un palazzo mantovano da cui passavo quando tornavo da scuola. C’era una marchesa, molto decrepita, collerica ma buona. La sua dama di compagnia, e cuoca, era una signora dalla vita complicata, molto amica di mia madre. Quando passavo mi chiamava, mi faceva entrare, mi mostrava le opere d’arte, mi portava dalla marchesa. E poi il nome mi piace perché contiene la parola arco».
Lei è sempre stato definito un irregolare.
«Viene dalla vita che ho avuto, dalle mie vicende, da un percorso difficile. Ho avuto grandissima difficoltà ad apprendere, a leggere, a scrivere. Difficoltà che ora hanno un nome ma allora no. In seconda elementare, al primo compitino, mi diedero zero. Poi c’è stato il seminario, gli orfanotrofi, il liceo, le varie bocciature. Ho deragliato per dieci anni, fino a quando ho afferrato questo filo e ho cominciato a leggere e scrivere. Mi sono dovuto conquistare ogni pezzetto di strada e questo forse non mi ha dato sicurezze: ero sempre sullo strapiombo».
Questo ha influito sulla scrittura?
«Ho bisogno di inventare continuamente. A volte gli scrittori, anche bravissimi, fanno un certo tipo di opera e la ripropongono, affinandola, perfezionandola. Pensiamo a Moravia. Io ho bisogno di strafare continuamente, di correre dei rischi. Ho sempre vissuto così, anche con un po’ di solitudine perché c’è stato un lungo periodo in cui la letteratura si autodefiniva esausta, di fronte a un vicolo cieco. Si è difesa così dall’irruzione del caos. Io non riuscivo a concepirlo e all’inizio, forse ingenuamente, mi scagliavo contro quest’idea. La letteratura mi sembrava questione di vita o di morte e mi sentivo dire: ma chi si crede di essere quello?»
Scrivere per lei è anche riscrivere...
«È normale perché è qualcosa che vive dentro di te, ti chiede spazio, approfondimento. Quando ho scritto Gli esordi mai avrei immaginato che sarei andato avanti, che avrei scritto Canti del caos perché mi sentivo così inerme, così insufficiente che se avessi pensato di scrivere per 35 anni avrei detto: no, non sono all’altezza. Come manovale della scrittura sono molto più ignorante, molto più cieco di chi, con la frusta, guida il carro».
Cioè l’ispirazione?
«Oggi noi ridiamo dell’idea della Musa. Ma in quella maniera ingenua gli antichi dicevano una cosa profonda, cioè che c’era un contenitore più grande dello scrittore, che era il contenuto. Se la letteratura non è questo, che cos’altro può essere? Se è la trascrizione di ciò che tu già sai, dov’è la moltiplicazione? Che cosa porta nel mondo? Autore viene dal latino augere, che significa aumentare. Anche questo fatto che tu sai meno di quello che fai, che non sei padrone in casa tua, è la quintessenza di quello che può succedere nella letteratura. Ho letto un aneddoto su Tolstoj: aveva un fratello che tutti consideravano più intelligente, più bravo di lui e quando uscì Guerra e pace tutti pensavano che l’avesse fatto il fratello. Io ora ho capito che non ho paura di abbandonarmi, anche se entro in zone di rischio, che mi oltrepassano».
Gli editori non sempre l’hanno capito. Infatti, dopo 15 anni di rifiuti, li ha girati tutti.
«Sì: Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Giunti, Bompiani, Fanucci, poi i piccoli e i piccolissimi. Ma non perché io sia esigente o capriccioso: perché mi buttavano fuori, sempre».
Ora si è accasato con Sem.
«In Mondadori avevo un rapporto molto buono con Antonio Riccardi che con Riccardo Cavallero ha fondato questa casa editrice. Da loro ho trovato amicizia ed entusiasmo. È bello fare libri con persone che ci credono, che ti piacciono. Sono sceso dalla nave ammiraglia e salito su questo vascello corsaro. Le persone fanno la differenza, sia nel bene che nel male».
Camminare è l’altra sua attività.
«Sì, una stranezza. Quando, ormai dieci anni fa, ho lanciato l’idea avevo già 60 anni. Sentivo il bisogno di fare qualcosa di difficile, che non credevo di saper fare. È anche un modo di conoscere l’Italia attraversandone la pancia, in un’immersione profonda, dormendo sui pavimenti, conoscendo molte persone e facendo esperienze. Ne ho bisogno, anche se, come scrittore, ho bisogno pure del contrario: del raccoglimento, della solitudine. Alla fine i vasi sono comunicanti».