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 2019  ottobre 16 Mercoledì calendario

Intervista a Dori Ghezzi

“La notte peggiore fu quella in cui liberarono me. Ci separavano, ma né io né Fabrizio avevamo la certezza che gli accordi fossero andati a buon fine. Non potevo sapere se i sequestratori lo avrebbero lasciato andare 24 ore dopo, così come lui restava nel dubbio: mi avevano davvero lasciato andare a casa? Ma ogni esperienza serve, per cavarne qualcosa di buono: quella notte nacque Hotel Supramonte”.
21 dicembre 1979, ‘un uomo solo e una donna in fiamme’. Cara Dori Ghezzi, sono passati quarant’anni dal vostro rapimento. Non vi costituiste mai parte civile.
Scrivemmo quella lettera di perdono. In quei giorni di prigionia nacque una solidarietà con quelle persone, cercammo di comprendere i motivi che li avevano portato a tanto. Confidavamo che se la cosa non si fosse risolta ci avrebbero comunque risparmiato la vita.
Da quel dramma nacque un album immenso di De André.
Con “L’Indiano” in copertina. Quante analogie nelle sofferenze del popolo sardo e dei pellerossa, bersagli entrambi della prevaricazione dei più forti.
Tornaste mai al leccio al quale restaste legati per mesi?

Ci fecero fare dei sopralluoghi per le indagini, forse individuammo la zona. Ma dopo no. La vita doveva andare avanti. Capimmo ancora meglio cosa significhi essere liberi. E la nostra vicenda contribuì a sradicare la piaga dei sequestri in Sardegna. All’epoca era routine. Cossiga mandò Dalla Chiesa a fare luce sul nostro caso. Noi eravamo la coppia famosa, ma si contavano dodici ostaggi nelle mani delle bande, in quel momento.
Cinque anni prima, nella vostra tenuta di Portobello di Gallura, venne Francesco De Gregori. Che in “Rimmel” omaggia lei, Dori, con i versi ‘chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente, ma è uno zingaro, è un trucco’.

Sì, io leggevo i tarocchi a Francesco, ma lui aveva conosciuto anche Puny, la prima moglie di Fabrizio, che a sua volta faceva le carte. Davvero parla di me? In quell’inverno De Gregori lavorava al Volume 8 di Fabrizio, uno degli album più sperimentali. Si scambiavano idee con foglietti lasciati in cucina: mentre uno dormiva, l’altro creava. Avevano bioritmi incompatibili.
In che occasione Faber le dichiarò il suo amore, Dori?

A una festa per il mio compleanno, in casa del mio compagno di allora. Tra gli invitati c’erano Ornella Vanoni e Mina, che lusingavano Fabrizio chiedendogli canzoni. ‘Mi spiace’, rispose lui, ‘ma se ne devo scrivere una sarà per Dori’. Era quella la sua dichiarazione.
Però il successo di Mina fu poi utilizzato da Sergio Bernardini, patron della Bussola, per convincere De André a esibirsi dal vivo.

Era terrorizzato. Io non ero in sala al suo esordio: la nostra relazione non era ancora ufficiale e non volevamo pettegolezzi. A cose fatte mi disse solo: ‘È andata’. Non aveva la minima percezione se fosse stato un trionfo o un fiasco.
Aveva preteso un’auto con il motore acceso davanti alla porta sul retro, in caso di fuga in extremis.
Si circondò di amici per farsi coraggio. Il buttadentro che lo spinse sul palco era il regista Marco Ferreri, che poi si piazzò sul primo gradino, lì davanti, incitandolo.
Un altro degli amici di sempre, Paolo Villaggio, mi disse che in punto di morte Faber gli chiese di farlo ricordare come un poeta, non come un cantautore.
Mah, forse è ciò che Paolo voleva sentirsi dire. Fabrizio non si considerava un poeta, ma un contadino. Comprò l’azienda agricola per lasciare qualcosa di concreto ai figli. Certo, amava far canzoni. Aveva rispetto del pubblico, e qualunque cosa proponesse la faceva con coraggio e lealtà.
Oggi lei, Mauro Pagani, Michele Serra, Morgan e Vittorio De Scalzi sarete protagonisti di una Masterclass su De André all’Ariston di Sanremo, anteprima del Premio Tenco che si inaugura domani.
Sono i giovani a chiederci di divulgare la grande canzone d’autore del passato. Noi fummo protagonisti di una formidabile rivoluzione culturale, favorita dalla congiuntura storica. Adesso la musica è qualcosa di più residuale, è volatile, meno preziosa. Ma i ragazzi presto o tardi arrivano a comprendere il valore. Io, nel mio piccolo, mi adopero con la Casa dei Cantautori a Genova. Peccato che l’Italia non abbia mai scelto di valorizzare i suoi artisti. Dylan ha vinto il Nobel perché gli Stati Uniti ne presentarono la candidatura. La Francia va fiera di Brel o Brassens. I nostri sono sempre stati ignorati, tranne qualche testo nei libri di scuola. Poi incontri Joan Baez o David Byrne e scopri che sono i primi fan degli italiani. Patti Smith girò un documentario in cui, a un certo punto, canticchia ‘Amore che vieni amore che vai’.
A proposito: che rapporto c’era tra Fabrizio e Tenco?

Molto stretto. Luigi aveva cominciato prima ed era protettivo nei confronti di De André. Che a sua volta andava in giro baldanzoso a ricordare che La ballata dell’eroe l’aveva scritta lui. Tenco lo venne a sapere: ‘Fabri, ma ti serve questo per agganciare le ragazze?’. Erano due seduttori.
Ci sono inediti di Faber nel cassetto?
No. L’unica cosa non pubblicata ufficialmente è la versione in inglese di Tutti morimmo a stento. Il risultato non lo convinceva, lasciò perdere. Poi qualche nastro è sfuggito dagli studi, ma io onorerò la volontà di mio marito.
Qual è il disco di De André che tiene nel centro del cuore?
Due. La Buona Novella è un capolavoro, però Creuza De Ma lo vidi nascere. In fase di missaggio venne ad ascoltarlo il capo della casa discografica. Si mise le mani nei capelli: ‘Fuori di Genova non venderà una copia’. Non fu buon profeta.