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 2019  ottobre 16 Mercoledì calendario

Intervista all’antropologo Jared Diamond

Crisi. Come rinascono le nazioni , di Jared Diamond, esce ora a 22 anni dal suo volume più famoso, Armi, acciaio e malattie . Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni , uno di quei "libri da salvare" per diverse generazioni di lettori. Ora, a 82 anni, questo autore americano, che è fisiologo, geografo, antropologo e, alla prova dei fatti, storico, propone di esaminare le vicende dei popoli confrontandole con la vita degli individui. E lo fa con sette casi di studio, sette grandi crisi: la Finlandia in guerra con l’Urss, il Giappone ottocentesco dei Meiji, il Cile di Pinochet, l’Indonesia degli anni Sessanta, la Germania e l’Australia dopo la guerra, gli Stati Uniti oggi.
Crisi è la parola chiave che descrive fasi della vita di una persona come di una nazione. Si sa che la parola può includere strazianti sofferenze, ma anche opportunità. «Quello che non ti uccide ti fa più forte». Parole di Nietzsche. Lo ripeteva anche Churchill: «Mai sprecare una buona crisi». Citazioni evocate dall’autore, che ascoltiamo dal suo studio a Los Angeles.
Come è nato questo libro?
«È nato da due ispirazioni: la prima dai paesi dove ho vissuto e di cui conosco le lingue, come per esempio la Germania dove ero quando hanno eretto il Muro, la Finlandia dopo la guerra, l’Indonesia dopo il genocidio e anche il Cile dopo la dittatura; la seconda viene da mia moglie, che è specializzata in terapia della crisi, una disciplina nata nel 1942 in occasione del gravissimo incendio del locale Cocoanut Grove, a Boston, da cui comincia il mio libro.
Morirono in 450, padri, madri, figli, mariti, fratelli. Si tratta in quei casi di assistere persone che devono affrontare perdite gravi e improvvise. Conversando con mia moglie ho appreso i fattori che predispongono ad uscire dalla crisi oppure no».
Non possiamo qui raccontare tutti e sette i casi. Colpiscono quelli che sono più famigliari per i lettori italiani: la crisi cilena, Pinochet.
L’incapacità di trovare un compromesso in Cile è alla radice del nostro "compromesso storico" alla fine degli anni Settanta.
«Questa incapacità è anche quello che più spaventa noi americani oggi. Il Cile mostra che cosa può accadere a un paese che è stato a lungo una democrazia e che può precipitare nell’incubo della sua fine in un tempo molto breve. Quello fu un caso di sterminio dell’opposizione, come anche il caso indonesiano, perché non si riuscì a fermare il processo di radicalizzazione del conflitto politico. E questo è oggi il maggior problema degli Stati Uniti».
Paragoni molto forti.
«Ma quando leggiamo sui giornali che il presidente di un paese chiede a un paese straniero di investigare sull’ex vicepresidente, ora suo avversario, si tratta di qualcosa di terribile. Accade solo in regimi ben lontani dalla democrazia che si mettano in carcere gli avversari, non negli Stati Uniti o in Italia».
Perché in certi casi la democrazia sembra incapace di moderare il contrasto e fermare la corsa nel baratro?
«So come ci si rapporta gli uni con gli altri in società tradizionali come la Nuova Guinea, senza telefoni e televisione, faccia a faccia, mentre da noi la maggior parte delle interazioni avviene attraverso telefono e internet. E se non ci si guarda in faccia è più facile passare i confini della decenza nel linguaggio. Parte della mia risposta è dunque: il collasso delle relazioni personali.
Altro fattore: quel che consente a oppositori politici di sedersi a un tavolo e trovare un terreno comune è la condivisa identità nazionale, che però a volte manca. E, ancora, un fattore che spinge a evitare il compromesso è l’idea che tu possa prevalere sugli altri e avere via libera fino a schiacciarli. Nel Cile del 1973, la destra e l’esercito pensarono di poter eliminare fisicamente la sinistra e lo fecero. Dall’altra parte la sinistra di Allende, tra il 1970 e il ’73 includeva radicali che si armavano, ispirati anche da Fidel Castro, e pensavano a loro volta di poter prevalere».
La prima tappa, il fattore primario necessario per avviare l’uscita dalla crisi è riconoscere il male, così come in un matrimonio che non funziona.
« Denial è la parola inglese, negare.
Quando la situazione è difficile la prima inclinazione è quella di negare che ci sia un problema. Ma il primo passo indispensabile è quello. Segue il secondo: accettare la responsabilità. Negli Stati Uniti, la maggior parte di noi non vuole riconoscere che stiamo andando verso una crisi».
Lei parla molto anche di Italia, un paese che fa fatica a riconoscere l’evidenza della sua crisi: debito, invecchiamento, bassa produttività, inefficienza della pubblica amministrazione.
«Nel caso Italia, dove ho insegnato per diversi anni alla Luiss, il problema era già cronico ed è diventato più evidente negli ultimi due anni. Quindi ora siete più vicini degli americani a riconoscerlo. Ma il secondo passo è quello della responsabilità. E qui Italia e Usa si assomigliano: Trump, invece di accettare l’idea che i problemi dell’America sono causati da noi stessi, accusa il Messico, la Cina, il Canada. Allo stesso modo, la tendenza di molti italiani è attribuire i problemi del paese ai migranti dall’Africa e dal Medio Oriente, o persino all’Unione europea. Sia noi che voi stiamo fallendo nel fattore numero due, la responsabilità».
Lei parla della Gran Bretagna come di un paese afflitto da una malattia lunga, di un paese che non ha più ritrovato la forza del proprio ego dopo la perdita del potere.
«È il più chiaro esempio di negazione della responsabilità. La Gran Bretagna attribuisce agli immigrati e all’Unione Europa i problemi inglesi.
Quelli che erano vivi nel 1940 e ricordano la battaglia d’Inghilterra, quando il paese da solo si oppose a Hitler, appartengono a una generazione che sta scomparendo, mentre i giovani non ne sanno nulla.
Questo significa perdere una fonte di orgoglio e identità nazionale».
Alla fine del suo libro lei parla di due cavalli in corsa: quello della distruzione e quello della speranza. Quale le sembra più forte?
«Dipende dalle decisioni che si devono prendere ora. Lo vedremo per esempio dalle elezioni americane del 2020. Se Trump vincesse sarebbe un pessimo segnale per il cavallo buono».