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 2019  ottobre 13 Domenica calendario

I neoborbonici tra sovrani e sovranisti

«A lu suono della grancascia/ viva sempre lu popolo bascio/ a lu suono delle campane/ viva viva li popolane». Persino l’inno sanfedista che nel 1799 segnò la sanguinosa restaurazione borbonica potrebbe trovare spazio oggi a Cosenza. Nella storia rovesciata dal revisionismo nostalgico, l’eroina illuminista Eleonora Pimentel diventa «un’assassina che dal forte Sant’Elmo sparava sui napoletani» e i lazzaroni del cardinale Ruffo «patrioti che lottavano per difendere Napoli», sostiene soavemente Gennaro De Crescenzo, leader e anima culturale del Movimento neoborbonico partenopeo (con un sito da trentamila iscritti, accessibile solo con parole chiave come la piattaforma Rousseau). 
Anche questo garbato professore di Scampia potrebbe rispondere alla chiamata di Pino Aprile attorno al Movimento 24 Agosto da lui fondato al grido di «equità o secessione!». In realtà 70 o 80 organizzazioni «sudiste» (molte con... un solo iscritto) potrebbero trovarsi stamattina al raduno cosentino nel cinema Modernissimo attorno all’autore del bestseller «Terroni» divenuto bibbia dell’insorgenza meridionale. Aprile rompe gli indugi: «Loro vogliono candidarmi. Io, dopo nove libri in nove anni, ho ceduto. E sapete quando? Quando il Parlamento ha detto che priorità nazionale era la Tav e non una linea degna di questo nome tra le due più importanti città meridionali, Napoli e Bari!».
Loro sono un magma confuso, in grado comunque di promuovere nei consigli regionali una giornata per le «vittime meridionali dell’Unità d’Italia», il 13 febbraio, data della caduta della fortezza di Gaeta. Aprile non sogna il ritorno di «Urré» sul trono delle Due Sicilie, ma in quel magma molti lo sognano. E tutti sono convinti che dal Garigliano in giù il «Nord» abbia distrutto il paradiso costruito dai Borbone. Tesi contraddetta dalla storiografia più seria, a partire da Galasso, e tuttavia sventolata quanto le bandiere col giglio che ormai ammantano gli spalti del San Paolo.
Un’estetica e una politica della nostalgia attraversano il Paese almeno in due sensi, in questi anni. Nostalgia sovranista di fronte all’integrazione europea, borbonica di fronte all’integrazione italiana. Come l’Italia è passata da un reddito medio disponibile per abitante del 5% sopra la media dell’Europa avanzata nel 1991 all’11% sotto nel 2018, così il Meridione è passato dal 74% del reddito pro-capite del Centro-Nord nel 1971 al 54% di oggi. Come il prodotto per ora lavorata dell’Italia è passato dal 2% della media dell’Europa più avanzata 20 anni fa al 9% sotto oggi, così il prodotto per unità di lavoro al Sud è sceso di nove punti negli ultimi 40 anni rispetto al Centro Nord. E, come uno su cento da Agrigento o Caserta tutti gli anni emigra ancora a Milano o Padova, così nell’ultimo decennio un italiano su cento è partito verso Londra, Monaco o Barcellona. 
Anche le nostalgie nascono e crescono parallele, come le Vite di Plutarco. È dunque irresistibile per alcuni la tentazione di pensare: abbiamo subìto un’integrazione imposta da altri, piemontesi o tedeschi che siano. Sempre di più, neomeridionalismo e neoborbonismo appaiono uno specchio attraverso cui il sovranismo può vedere se stesso in una temperie dove prospera la nostalgia di un passato immaginario (la Retrotopia di Bauman). Perciò il credo neoborbonico si va sposando con il sovranismo. De Crescenzo a giugno ha fatto un’ora e un quarto di intervista-spot su Byoblu.com rete che dedica tempi e attenzioni analoghe ad Alexandr Dugin, Diego Fusaro, Fabio Dragoni e altri anchor sovranisti. Si dice abbia rivisto personalmente il testo di «Al Sud», la canzone neoborbonica del suo amico Povia («non esisteva emigrazione/non c’era disoccupazione/ma poi venne Garibaldi/a rubare oro e soldi»). Nega però «relazioni sovraniste» il professore di Scampia: «Noi vogliamo cambiare la storia. Se poi ci accorgiamo che non si può, arrivederci e grazie».
Queste diffuse correnti di ripensamento attraversano le élite economiche meridionali anche non di fede neoborbonica. «Il Mezzogiorno nell’Italia unita ha perso molto del vantaggio che aveva agli albori dell’età industriale», dice per esempio Maurizio Paternò di Montecupo, docente di Economia aziendale alla Sapienza ed erede di una delle più aristocratiche famiglie siciliane di epoca borbonica. Nelle sue parole da italiano non pentito, «il Sud si sarebbe salvato molto di più se fosse rimasto indipendente». In fondo c’è chi lo pensa anche dell’industria italiana prima del processo europeo. Paternò ricorda la prima ferrovia su suolo italiano costruita dai Borboni fra Napoli e Nocera nel 1836, la fabbrica di mozzarelle della Reggia di Carditello dei primi dell’800, la Real fabbrica della seta di San Leucio del 1778. «Fu uno dei primi impianti integrati di produzione in Italia» dice Luciano Morelli, ex presidente di Confindustria Caserta e amministratore delegato della Eco-Bat di Milano. Morelli sottolinea come per lui l’Italia e l’Europa siano «un valore», descrive l’unificazione dei Savoia come «guerra di conquista» e confessa «nostalgia per quello che avrebbe potuto essere e non è stato». 
Ma legandosi a un sentire ormai comune, sovranismo e borbonismo si spingono un po’ più in là. Pino Aprile ha sponsorizzato la candidatura a sindaco di Gioia Tauro di Fusaro (non con grandi risultati). Prove tecniche di intesa antieuropea? «Io voglio l’Europa dei popoli», dice, «dei catalani e dei calabresi. Poi c’è qualche area del meridionalismo che confonde sovranismo e indipendenza. Da anni il Sud vota in blocco, viene fregato, si sposta in blocco da un’altra parte. Nasce prima la consapevolezza di sé e poi qualcuno che la rappresenta». Aprile prova a mutare in compatto voto d’opinione ciò che per decenni appariva il tentativo clientelare di saltare sul carro del vincitore quale che fosse. Oggi tanta opinione s’è girata verso il Carroccio. Non pochi oggi dicono «facciamo come la Lega», lasciando circolare una mitologia speculare ai celti e a Pontida: il brigante Carmine Crocco, i massacri di Pontelandolfo, il presunto lager di Fenestrelle, il ricordo di Pietrarsa come simbolo di un’industria borbonica poi stroncata dagli italiani. «Sarebbe ridicolo dire Borbonia felix», ammette il saggista Marco Esposito: «Tuttavia l’unità è nata con l’idea di uccidere Napoli che li terrorizzava».
Il tema è scivoloso. Si informa sulle domande e poi fa perdere le tracce il «capo della Real Casa» Carlo di Borbone, raggiungibile a una mail che ha per nome di dominio sicilie.com (al plurale). Pure Luigi de Magistris si eclissa dopo un primo contatto. Ha fatto aprire dalla giovane meridionalista Flavia Sorrentino uno sportello («Difendi la città») a tutela dell’onore partenopeo e da anni tiene in caldo molti filoni retorici del populismo sudista. L’ex direttore del Corriere del Mezzogiorno , Marco Demarco, autore di «Terronismo», sostiene che, di fronte al giochino della torre (chi butteresti giù tra Garibaldi e Crocco?), il sindaco nicchierebbe. Forse per non indispettire «lu popolo bascio».