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 2019  ottobre 08 Martedì calendario

La violenza rende uguali

STORIACCIAX

Chi pose per primo il tema di eguaglianza e diseguaglianza? Nella commedia di Aristofane Le donne al Parlamento, messa in scena nel 391 a.C., le ateniesi aboliscono la proprietà privata e la famiglia, decretando l’uguaglianza per tutti. Quattro anni dopo, Aristofane torna su questo argomento con Pluto, in cui la ricchezza viene tolta a chi non la merita. Dopodiché Platone nella Repubblica si pone il problema del rapporto tra quelli che possiedono e quelli che non possiedono, proponendo una sorta di riequilibrio tra loro. E nel III secolo a.C. Evemero immaginò l’isola di Pancaia, i cui abitanti non possedevano proprietà al di là di case e giardini e disponevano dei beni tutti in egual misura. Nello stesso secolo, Iambulo scrisse di un’isola del sole dove la proprietà privata era del tutto assente, un lembo di terra circondato dai mari, caratterizzato dall’uguaglianza universale. E quindi – stabiliva – dalla felicità. Il caso concreto più estremo di lotta alla diseguaglianza di cui abbiamo notizia potrebbe essere quello della guerra civile combattuta nella polis peloponnesiaca di Argos nel 370 a.C., durante la quale 1.200 cittadini benestanti furono condannati a morte in processi sommari e uccisi a randellate. Dopodiché sembra che i loro beni siano stati confiscati e redistribuiti al popolo.
È da oltre duemila anni che nel mondo si combattono le diseguaglianze. Tutti coloro che sono favorevoli a una sempre maggiore perequazione economica farebbero bene, però, a ricordare che, con rare eccezioni, la perequazione stessa è stata sempre ottenuta al prezzo di enormi sofferenze. Sempre. È questo l’assunto di Walter Scheidel in La grande livellatrice. Violenza e diseguaglianza dalla preistoria a oggi, che esce il prossimo 17 ottobre dal Mulino.
Quando iniziò a essere percepita la diseguaglianza? Probabilmente alla conclusione dell’ultima era glaciale, quando le condizioni climatiche entrarono in un’era di stabilità fino ad allora sconosciuta. L’Olocene, il primo periodo di caldo interglaciale dopo oltre centomila anni, produsse un ambiente più favorevole allo sviluppo economico e sociale. Permettendo all’uomo di ricavare più energia di quella necessaria alla sopravvivenza e di crescere; questi miglioramenti posero anche le basi per una distribuzione sempre più ineguale delle risorse materiali e ciò portò a quella che Scheidel chiama la «grande disegualizzazione», una transizione verso nuovi modi di sussistenza e forme di organizzazione sociale che «erodevano l’egualitarismo sostituendolo con gerarchie persistenti e disparità di reddito e ricchezza».
La prima testimonianza archeologica di diseguaglianza viene da Sungir, un sito pleistocenico situato 200 chilometri a nord di Mosca, che risale a più di trentamila anni fa, in una fase relativamente mite dell’ultima era glaciale, Questo sito contiene i resti di un gruppo di cacciatori che uccisero e «consumarono» bisonti, lupi, orsi bruni e molti altri animali. Ma più rilevanti sono tre sepolture umane. La prima è quella di un uomo adulto che venne sotterrato con circa tremila grani d’avorio di mammut (probabilmente cuciti sui suoi vestiti di pelliccia) assieme a una ventina di ciondoli e a 25 anelli sempre d’avorio. A fianco la tomba separata di un bambino di circa 12 anni e di una bambina di 10, con diecimila grani d’avorio appartenenti con ogni probabilità ai loro indumenti. Gli studiosi hanno calcolato che siano stati necessari anni per intagliare quei grani. E che almeno 75 volpi artiche dovettero essere catturate per estrarre i 300 canini attaccati a una cintura e a un copricapo rinvenuti nella tomba dei ragazzi. Il tutto aveva richiesto anni di lavoro, presumibilmente un committente, nonché degli esecutori. È difficile dedurre da questo materiale l’esistenza di relazioni gerarchiche certe, mette le mani avanti Scheidel, «ma si tratta di un’opzione (quella dell’esistenza di gerarchie) quantomeno plausibile».
Duemila anni fa, nell’Impero romano, le grandi fortune private equivalevano a 1,5 milioni di volte il reddito annuo pro capite medio, «all’incirca lo stesso rapporto che intercorreva dieci anni fa tra Bill Gates e l’americano medio». Le cose, nell’Europa occidentale, cambiarono in modo radicale (ma provvisorio) dopo la Morte Nera – la peste diffusasi a partire dal 1347 – quando i salari reali raddoppiarono o triplicarono e «i lavoratori cenavano a carne e birra», mentre i padroni di casa «si arrabattavano per conservare le apparenze». Poi, però, una volta che l’epidemia di peste si placò, la popolazione europea iniziò a moltiplicarsi, si ebbe una stagione di galoppante sviluppo economico e, con esso, si produssero nuove diseguaglianze.

Qui Scheidel torna su quel che Thomas Piketty ha ben spiegato in Il capitale nel XXI secolo (Bompiani). In larga misura, scriveva Piketty, la riduzione delle diseguaglianze nel corso del secolo scorso «non è stato il risultato di uno sviluppo graduale, consensuale e armonico», bensì «il prodotto delle guerre nonché dei dissesti economici e politici che esse hanno comportato». Nel XX secolo sono state le guerre a fare tabula rasa del passato, «non certo la pacifica razionalità democratica ed economica». Poi le catastrofi politiche e di bilancio provocate da tali conflitti «hanno avuto per il capitale un effetto ancor più distruttivo delle guerre stesse».
Per quel che riguarda le rivoluzioni, in particolare quelle comuniste, Scheidel dimostra come la stragrande maggioranza delle insurrezioni popolari violente che si proponevano di rimediare a specifici torti, non sortirono effetti proporzionati. A partire dalla Rivoluzione francese: è ormai ampiamente dimostrato che i più grandi proprietari terrieri dell’epoca di Napoleone appartenevano alle stesse famiglie di prima del 1789 e tra un quinto e un quarto della terra persa per confische fu alla fine riacquistata dai membri di quelle stesse famiglie. Solo un decimo di tutte le terre nobiliari era stato definitivamente perso dagli aristocratici. Diverso il caso in cui le rivoluzioni si ebbero a ridosso di grandi conflitti. In Russia, ad esempio, la Prima guerra mondiale ebbe come esito «la più drammatica riduzione della diseguaglianza». Poi la rivoluzione, con la leninista «guerra mortale ai ricchi», fece il resto. Nel 1919 quasi il 97% della terra coltivabile era già finito nelle mani dei contadini. Ma il nuovo regime non ne era contento, anzi si preoccupava che una distribuzione equa creasse «piccoli agricoltori borghesi» talché non avrebbe «né garantito l’uguaglianza, né prevenuto la differenziazione». E giunse l’ora del «comunismo di guerra». Bandita la manifattura privata, il denaro divenne marginale, il cibo veniva requisito da brigate armate che assalivano i villaggi, per poi distribuire i viveri alla popolazione urbana e all’esercito attraverso un sistema di razionamento graduato. Il livellamento a quel punto fu pressoché totale, ma le conseguenze economiche furono catastrofiche. Così già prima della morte di Lenin (1924), con la Nuova politica economica del 1921, i bolscevichi furono costretti a innestare la marcia indietro e a poco a poco tornarono a manifestarsi le diseguaglianze. Nel 1928 lo Stato ricorse ancora una volta alla coercizione per ottenere il grano necessario a sostenere l’industrializzazione. E nel 1930 fu la volta della risoluzione «Sulle misure per la liquidazione delle aziende kulaki nelle regioni di collettivizzazione integrale», che portò allo sterminio di un’intera classe sociale. Si contarono sei milioni di morti per fame. E un livellamento che, scrive Scheidel, «in termini storici globali può a giusto titolo essere definito senza precedenti». Ma appena la tensione si allentò, riapparvero subito le diseguaglianze e alla fine del Novecento, dopo la dissoluzione del Partito comunista dell’Unione Sovietica (1991), nel giro di tre anni la percentuale di persone in povertà triplicò, arrivando a coinvolgere oltre un terzo della popolazione russa. Al momento della crisi finanziaria del 1998, tale quota era cresciuta fino a quasi il 60% della popolazione.
Le due guerre mondiali sono state invece tra le più grandi livellatrici della storia. La distruzione fisica provocata dalla guerra su scala industriale, la tassazione confiscatoria, l’interruzione dei flussi globali di beni e capitali, in aggiunta ad altri fattori, contribuirono a spazzar via la ricchezza delle élite e redistribuire le risorse. Ma i conflitti interni non hanno avuto lo stesso effetto «benefico» delle guerre.

Benché le rivolte contadine siano state eventi comuni nella storia premoderna, «esse di solito non hanno avuto successo nell’abbattimento delle diseguaglianze» e la guerra civile nei Paesi in via di sviluppo ha teso «piuttosto ad accrescere che a ridurre la diseguaglianza in termini di distribuzione del reddito». L’eguaglianza toccò vette altissime solo con le espropriazioni, le redistribuzioni e le frequenti collettivizzazioni comuniste. Collettivizzazioni accompagnate però da straordinarie violenze, che finirono per «eguagliare le guerre mondiali in termini di vittime e miserie umane». Rotture molto meno sanguinoso, come ad esempio la Rivoluzione francese, «svolsero una funzione livellatrice corrispondentemente minore».
Dall’antichità a oggi, le riforme agrarie hanno promosso una riduzione della diseguaglianza «soprattutto allorquando sono state associate alla violenza o alla minaccia della violenza». Nel Novecento il comunismo ha dato risultati di abbattimento delle diseguaglianze non già per le riforme, bensì in rapporto al numero di vittime che ha causato: più o meno cento milioni. All’incirca gli stessi morti provocati dalle due guerre mondiali. Che però hanno prodotto anche qualcosa di più.
Il caso più singolare è quello del Giappone, che negli anni Cinquanta, occupato dagli Stati Uniti, ottenne in termini di riduzione delle diseguaglianze risultati superiori a quelli della coeva Cina comunista di Mao. In primo luogo perché il periodo dell’occupazione, come conseguenza diretta dello scontro in armi, «fu fondamentale nel rendere permanenti le misure di guerra e nel collocarle su basi più solide». Nel suo primo messaggio di capodanno al popolo del Giappone, il generale MacArthur promise che il futuro non sarebbe stato mai più «deciso da pochi».

L’intervento degli Stati Uniti nell’economia giapponese si concentrò sulla tassazione, sulla governance societaria e sull’organizzazione del lavoro, tutte aree in cui la leadership bellica aveva già «inflitto enormi sofferenze finanziarie alla consolidata élite della ricchezza». La riforma agraria fu uno dei più importanti obiettivi delle autorità occupanti: «In rara consonanza con i maoisti che stavano prendendosi la Cina, essi consideravano il latifondista un grande male da sradicare». Una nota del governo Usa riteneva che la redistribuzione della terra fosse essenziale per indirizzare il Giappone in una direzione pacifica, osservando che l’esercito giapponese aveva precedentemente persuaso i contadini poveri che l’aggressione oltremare era per loro l’unica via d’uscita dalla povertà: sicché, in assenza di una riforma agraria, le campagne potevano rimanere «focolai di militarismo».
La guerra e gli anni immediatamente successivi determinarono un passaggio epocale da una classe ricca e potente di azionisti, che avevano controllato la gestione d’impresa riscuotendo alti dividendi, a «un sistema aziendale più egualitario fondato sull’impiego a vita, su salari basati sull’anzianità e sulla presenza dei sindacati». Accanto alla ristrutturazione delle imprese e assieme ai rapporti di lavoro e alla riforma agraria, la tassazione progressiva era stato un meccanismo chiave per sostenere il livellamento durante la guerra. Formalizzato a partire dagli anni Cinquanta in poi, il sistema fiscale giapponese impose un’aliquota marginale dal 60 al 75% sui redditi più alti e una tassa fondiaria superiore al 70% sui maggiori patrimoni.
La guerra e le sue conseguenze resero il livellamento improvviso, massiccio e sostenibile. Gli anni più sanguinosi della storia giapponese, uno scontro costato milioni di vite ed enormi distruzioni, produssero «un risultato perequativo unico». Risultato che fu reso possibile dal nuovo tipo di guerra che aveva richiesto «la totale mobilitazione demografica ed economica». L’estrema violenza aveva appiattito i redditi estremi e la diseguaglianza della ricchezza all’interno della società giapponese. Nella sua «macabra progressione dalla mobilitazione popolare alla distruzione e all’occupazione», la guerra totale aveva prodotto un livellamento totale. Mai le rivoluzioni avevano e avrebbero ottenuto risultati paragonabili.