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 2019  ottobre 08 Martedì calendario

Giovanni Brusca e 20 anni di mezze verità

Cosa si può scrivere sulla richiesta di scarcerazione di un macellaio mafioso che persino i suoi amici di mattanza chiamavano “il porco”? Chi ce lo assicura davvero che si sia veramente pentito, e non solo con la giustizia? Sulla mancata scarcerazione di Giovanni Brusca lo Stato si è diviso. Ma non sarà certo una sentenza a chiudere un caso che si trascina implicazioni che vanno ben oltre le leggi, che affondano le loro radici nelle ferite, nei sentimenti e anche nei risentimenti di un’intera nazione.
La materia, già delicatissima di per sé, in questa vicenda si presenta ancora più scabrosa perché non stiamo parlando di uno dei tanti assassini della Cosa nostra siciliana ma proprio di quello che ha sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo che aveva appena dodici anni, quello che sulla collinetta di Capaci il 23 maggio del 1992 ha schiacciato il pulsante del telecomando che fece saltare in aria Giovanni Falcone.
Nell’immaginario collettivo Brusca è il “mostro” italiano degli anni Novanta, il cane da catena che i Corleonesi liberavano per eseguire gli omicidi più crudeli, il picciotto che considerava Totò Riina “il Dio in terra”.
Il “contratto” che lui ha firmato con lo Stato sarà sufficiente per cancellare dalla nostra memoria tutto questo? Questo verdetto della Cassazione potrà davvero mettere la parola fine intorno a un personaggio che attira disprezzo più di ogni altro suo socio, per quello che ha fatto e per come l’ha fatto?
Ravveduto (come sostiene il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho) o non ravveduto, per niente pentito (come per nove volte dal 2002 ha certificato il Tribunale di sorveglianza di Roma) o detenuto che ha subito «un mutamento profondo e sensibile della personalità», comunque sia il boss di San Giuseppe Jato ha sempre avuto un rapporto molto difficile con lo stato italiano. Fin dal principio, fin da quando ha cominciato a fare le prime confessioni. False.
Da aspirante collaboratore di giustizia – siamo a pochi mesi dal suo arresto, avvenuto nel maggio del 1996 – Brusca ha seminato qualche polpetta avvelenata svelando incontri con «alte personalità dello Stato» che stavano organizzando un complotto per incastrare Giulio Andreotti. Un depistaggio sventato da suo fratello Enzo, un altro boss che aveva saltato il fosso. Tortuoso, tortuosissimo il percorso di giustizia di Giovanni Brusca «perché tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare... volevo collaborare ma non ce la facevo all’inizio… mi veniva difficilissimo...». Tira e molla, mezze verità soffiate con perizia, mezze infamità travasate nei verbali. Molti nomi e molti fatti li confesserà soltanto qualche anno dopo. La patente di pentito la ottiene nel 2000. È allora che divampano le prime violentissime polemiche, soprattutto sollevate dai familiari delle vittime. Non sono mai finite. Riesplodono immediate quando filtra la notizia di un suo permesso premio, qualche ora di libertà. Sino ad ora ne ha avuti 80.
L’ultima volta che ha teso una mano è avvenuto nell’aula di Rebibbia, al processo contro i poliziotti accusati di aver e sviato le indagini sulla strage di via D’Amelio. È stato secco, sbigativo: «Non sono imputato però ritengo di doverlo fare, quindi chiedo scusa e perdono ai familiari delle vittime, allo Stato e alla società civile: punto».
Per quanto può valere una mia impressione di una dozzina di anni fa – eravamo a Firenze per il processo per la strage dei Georgofili – lo ricordo sul banco dei testimoni molto preparato, con quella sua fastidiosa vocina nasale ripeteva come un pappagallo la lezioncina che aveva imparato a memoria. Solo uno scarto, rispondendo male a un avvocato di parte civile che gli chiedeva su contatti dei boss con i servizi segreti al tempo dei massacri. Gli ha risposto lui: «Fantapolitica giudiziaria».
Ma il punto della vicenda odierna è un altro. Meritava davvero di uscire dal carcere per il contributo offerto e perché «sono stati acquisiti elementi rilevanti ai fini del suo ravvedimento» o merita – come ha sentenziato la Suprema Corte – di restare rinchiuso perché il «ravvedimento» è qualcosa che va oltre «l’aspetto esteriore della condotta» e passa anche attraverso un «riscatto morale nei riguardi dei familiari delle vittime». Da una parte la procura nazionale antimafia, dall’altra il Tribunale di sorveglianza e ora anche la Cassazione.
Ci dice Costantino Visconti, professore ordinario di diritto penale all’Università di Palermo: «Sarebbe davvero un successo dello Stato se un boss mafioso a un certo punto mostrasse i segni di una profonda e tangibile resipiscenza: cioè saremmo riusciti a rieducare secondo la Costituzione anche il più incallito e odioso dei criminali. Ma noi siamo pronti, quando ciò accadrà, a tenere le nostre comprensibili emozioni sotto controllo?».Siamo pronti?