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 2019  ottobre 02 Mercoledì calendario

Perché ottomila nati in meno?

Che l’Italia non faccia più figli è al di là di ogni ragionevole dubbio. Siamo ultimi in Europa per nascite ogni mille donne, ultimi per l’età delle puerpere al primo parto. Si contano più di 146 mila neonati all’anno in meno rispetto a 11 anni fa, quando il Paese raggiunse l’apice di una pur timidissima ripresa, e l’Istat mostra che le nascite continuano a calare: nel 2019 dovrebbero essere ottomila in meno rispetto al 2018. Ubriacarsi di cifre sulla recessione demografica è diventato così facile da farla entrare nelle coscienze dei politici. Non passa governo che non pensi a qualche misura perché gli italiani riprendano a riprodursi. I giallo-verdi offrivano un appezzamento da coltivare dal terzo figlio in poi. I giallo-rossi preferiscono più asili nido. C’è chi è convinto che le carriere femminili scoraggino la riproduzione e chi mostra come nei Paesi dove le donne lavorano di più, come in Scandinavia, si facciano più figli. 
Eppure c’è qualcosa che nessuno fa, prima di spendere risorse pubbliche per questa o quella misura: cercare di capire cosa succede esattamente, dando un’occhiata a come cambiano le nascite nei territori d’Italia. Non ovunque l’andamento è uguale: nella provincia di Cagliari dal 2008 sono quasi dimezzate (contro un calo medio nazionale del 21%), in quella di Sassari sono salite di un quinto. Non ovunque si nota la stessa assenza di nidi: a Caserta si trovano 5,7 posti ogni cento bambini fino ai trentasei mesi d’età, a Ravenna 46. E non ovunque per una donna resta difficile lavorare, perché in media l’occupazione femminile in Italia è salita del 3,9% in un decennio. Ma è cresciuta di un quarto nella provincia di Oristano e a Milano è crollata del 16%. 
Può essere che queste differenze incidano sulla scelta di fare figli? Se più posti nei nidi o più lavoro per le donne nei vari territori corrispondessero a una migliore dinamica delle nascite, o a una peggiore, allora sapremmo su quali tasti battere. E quali evitare. Ma è così? No. I dati su 103 province e nell’ultimo decennio dicono che in Italia non c’è correlazione fra l’offerta di asili-nido e l’evoluzione delle nascite. Non c’è neanche con l’aumento del lavoro femminile o con l’occupazione in genere. In 57 province l’offerta di posti nei nidi è superiore alla (scarsa) media nazionale di 24 posti ogni 100 bambini; eppure fra queste province virtuose, ben 35 nell’ultimo decennio hanno visto un crollo delle nascite persino più drammatico della già terribile media nazionale. Non solo il livello è basso, ma la loro evoluzione è stata peggiore. È tutta l’Italia più ricca: Torino, Aosta, Bergamo, Pavia, Cremona, Mantova, Lecco, Vicenza, Venezia, Padova, Udine, Ancona. Neanche all’aumento del lavoro per le donne corrisponde necessariamente, come in Europa del Nord, un andamento migliore – o almeno meno peggio – della procreazione. Nelle 49 province in cui nell’ultimo decennio l’occupazione sale più della media nazionale, ben 23 registrano crolli delle nascite oltre la media. Questa è l’Italia ricca e non solo: Caltanissetta, Taranto e Brindisi, Livorno e Lucca, Alessandria, Treviso. 
C’è però un punto in comune fra tutte queste zone demograficamente più depresse, benché sulla carta più virtuose. Dev’essere la chiave del mistero italiano perché qui la correlazione è stretta, quasi infallibile. Delle 35 aree del Paese con più nidi ma un crollo delle nascite peggiore della media, tutte meno una manciata presentano un fattore costante: lì il numero delle donne in età fertile – fra i 15 e i 49 anni – è crollato più che nel resto del Paese. Invecchiano più in fretta. E così anche nelle 23 province dove il calo delle nascite è più rapido, benché il lavoro delle donne cresca più che altrove: in quasi tutte, il numero di donne in età fertile scende più che nel resto d’Italia. 
In altri termini una delle grandi cause di questa recessione di nascite è che in Italia ci sono sempre meno donne in grado di procreare: quasi un milione in meno rispetto al 2008. Anche con la stessa propensione a fare figli di dieci anni fa, ne fanno meno. Ciò non significa che non occorrano più asili nido o più possibilità per le famiglie di poter contare su un doppio reddito. L’economista Luigi Guiso ricorda che questa ricetta è parte del successo scandinavo. Mario De Curtis, pediatra della Sapienza, sottolinea l’importanza del sostegno ai meno abbienti. Ma oggi l’Italia paga un’incuria di decenni sulle politiche familiari. La prima recessione di nascite fra il 1975 e il 1995 sta riducendo oggi il numero di donne fertili. Ciò accelera una seconda crisi e, in futuro, rischia di innescarne altre più gravi. Una finestra biologica si sta chiudendo. Per riaprila, nessuno può escludere che occorra dare uno sguardo nuovo anche a un’immigrazione gestita con ordine. 
(Ha collaborato  Riccardo Antoniucci)