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 2019  ottobre 02 Mercoledì calendario

Bilancio della fashion week di Parigi

Chanel di prima mattina, Louis Vuitton in serata. Si chiude con due simboli della moda francese questa maratona (ben 9 giorni) di sfilate parigine. E che chiusura, va aggiunto, pensando al posto che entrambi occupano nell’immaginario comune, una posizione tanto rara da conquistare quanto difficile da mantenere.
Per questo va molto rispettata Virginie Viard, direttore creativo di Chanel dallo scorso febbraio. La carica è già di per sé impegnativa, ma nel suo caso arriva pure con la pesantissima eredità di Karl Lagerfeld, suo venerato predecessore. Sia chiaro, la stilista sa fare bene il suo lavoro: le sue collezioni, sebbene improntate sulla continuità Virginie è stata per 30 anni il suo braccio destro - , hanno una leggerezza e una femminilità che sono solo sue.
Sono divertenti le tutine-tailleur, le gonne gonfie di raso e le giacchine metallizzate; persino i pantaloni alla zuava di chiffon hanno una grazia tutta loro. La sostanza c’è, e per quanto si comprenda il desiderio di proseguire con la visione di Lagerfeld, è pure vero che questa, volenti o nolenti, è una nuova fase per la maison : forse servirebbe lavorare a una versione di Chanel aggiornata alla sua visione. Pure la scelta di usare una scenografia - la passerella tra i tetti parigini - simile nello spirito a quelle amate dal creativo (indimenticabili il supermercato griffato , l’iceberg vero, la spiaggia finta) rischiano di offuscarne il senso di rinnovamento. Forse è il momento di aprire un nuovo capitolo.
Un’altra che va al sodo è Miuccia Prada, che dà voce ai sentimenti di tutto il sistema moda dopo un mese di show quando dice che, dopo la sfilata di Prada a Milano, con Miu Miu aveva solo voglia di fare abiti che le donne volessero comprare e mettere subito. Lei sa bene che la moda dovrebbe andare oltre e dire altro, ma sa anche che, alla fine, si tratta di vestire le persone; e lei su quello s’è concentrata.
I pezzi presentati sono severi, lo spirito con cui sono decorati molto meno: i piccoli cardigan allacciati male, i grembiuli a pieghe chiusi da bottoni gioiello uno diverso dall’altro, il vinile dipinto a fiori n aïf . I dettagli sembrano volutamente "arrangiati", che sia una collana fatta di corda o dei pezzi di volantcuciti alla bell’e meglio. S’avverte una bella concretezza in passerella, amplificata dalla mancanza di retro-pensieri o concetti da leggere tra le righe. Certo, fa sempre strano vedere i gilet di shearling e mongolia in una collezione estiva, ma ormai funziona così: le stagioni sono un’opinione pure quando si tratta di sfilate.
Corretta la scelta di Lacoste di presentare la seconda collezione della direttrice creativa Louise Trotter a Roland Garros, sul campo dedicato a Simonne Mathieu. D’altronde, se non è il brand francese a fare leva su certe atmosfere, chi potrebbe farlo? Peccato solo che di tennistico in sfilata ci fosse veramente poco.
L’idea, ha spiegato la designer inglese nelle note allo show, era di giocare con i simboli di René Lacoste, dalla polo piqué al celeberrimo coccodrillo, ingigantito o ridotto ai minimi termini. Di materiale su cui lavorare la stilista ne ha, e infatti si sono visti diversi pezzi ben riusciti. I problemi iniziano quando tenta di solleticare i più giovani, usando i loro best seller: i mocassini con la fibbia portati con i calzettoni di spugna e la tuta sono troppo "gucceschi" per essere una coincidenza, e si nota.
Un altro che con la sua moda spazia parecchio è Nicolas Ghesquière, capace per Louis Vuitton di partire dall’estetica della Belle Époque e arrivare come niente fosse alla psichedelia degli anni 60. Il salto pare come minimo azzardato, ma quando lui aggiunge di voler lavorare sui concetti di obsoleto e "passato di moda" per capire come renderli rilevanti, le cose iniziano ad avere un senso, per quanto complesso da cogliere. In pratica - perché sempre di vestiti si parla -, qui saltano agli occhi i completi maschili con i pantaloni larghi portati con le camicie dalle enormi maniche, i gilet, i fiori all’occhiello, i cappelli, le bluse di pizzo che s’allungano fino a terra. Sono dandy sui generis a cui poi seguono le it-girl della Factory di Warhol, le dame d’inizio secolo e, infine, una versione meno drammatica di Sarah Bernhardt, in bianco e coi capelli raccolti. C’è molto, a volte quasi troppo, ma Ghesquière ben riesce a tenere testa a tutti gli elementi.
Da Alexander McQueen, Sarah Burton ha ancora una volta spinto sui suoi temi, sulle sue silhouette vittoriane alternate ai più classici completi maschili, sul romanticismo vagamente gotico, sulle atmosfere della campagna inglese. Nulla di nuovo in realtà, solo che non lo ha mai fatto così bene.
La stilista ha lavorato da un lato per sottrazione: nessun colore, pochi ricami (realizzati dagli studenti della Central Saint Martins) e silhouette pulite, schematiche. Dall’altra ha giocato sulle straordinarie tecniche di lavorazione dei materiali: tutte, ci tiene a ribadire, frutto del lavoro di decine di persone. Fare abiti diventa così anche un momento d’aggregazione.
Il lino per esempio viene battuto per giorni e poi tinto con l’amido di patate fino a farlo sembrare pelle; gli abitini sono fatti di petali di garza di seta tagliati, sfrangiati, e colorati uno a uno a mano, i vestiti contano centinaia di metri di pizzo crochet.
Portare in scena una tale vastità di idee e renderle così coese e poetiche richiede molta abilità. Lei ne ha da vendere. Letteralmente.