Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  luglio 22 Lunedì calendario

Biografia di Francesco Saverio Borrelli

Francesco Saverio Borrelli (1930-2019). Magistrato. Fu capo della Procura di Milano per più di 11 anni, sette dei quali presi dall’inchiesta Mani pulite. Poi, dal 17 marzo 1999 alla pensione (aprile 2002), procuratore generale della Corte d’Appello milanese. In pensione, è stato responsabile dell’ufficio inchieste della Federazione Giuoco Calcio e presidente del Conservatorio Statale di Musica “Giuseppe Verdi” di Milano. Nato a Napoli, era figlio e nipote di magistrati e a sua volta con un figlio magistrato. Il padre Manlio «era un uomo di grande presenza, un ex ufficiale di cavalleria con tratti dannunziani e qualche rigidità del carattere. Mi metteva paura. Se a tavola mi guardava con severità, scoppiavo a piangere prima ancora che parlasse. Poi l’ho imitato in tutto, nella professione, nell’amore per Wagner, nel piacere di andare a cavallo. Lui non faceva nulla per farsi temere: in tutta l’infanzia non ha mai alzato le mani su di me». Figlio di secondo letto, scoprì da un estraneo che i fratelli avevano avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. «Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Trasferitosi a Firenze da ragazzo, studiò al conservatorio e si laureò in Legge con una tesi su Sentimento e sentenza, relatore Piero Calamandrei. Vinto il concorso nel 1955, entrò in magistratura come giudice civile a Milano, nel palazzo dove il padre era la più alta carica. Passato dal civile al penale, presiedette sezioni di tribunale e di Corte d’Assise, giudicando anche le Br. Negli anni Sessanta fu tra i fondatori della corrente di Magistratura Democratica. Il 17 marzo 1988 successe a Mauro Gresti alla guida della Procura della Repubblica, dove dal 1983 fu procuratore aggiunto. «Nella riservatezza ha trascorso i primi sessantadue anni della vita. Neppure l’arresto di Mario Chiesa, il 17 febbraio del 1992, eccitò un inquirente la cui massima ambizione mondana era di trovare posto al festival wagneriano di Bayreuth. La discrezione di quest’uomo figlio di magistrato, nipote di magistrato, bisnipote di magistrato e padre di magistrato, risiede nelle tre agenzie Ansa in cui egli compare nei primi tre mesi dall’avvio di Mani pulite. E nel titolo dei dispacci non c’è scritto “Borrelli” ma “il procuratore capo”. Poi, forse perché la gente scriveva sui muri “Forza Antonio Di Pietro”, ma più probabilmente perché la delicatezza della situazione lo richiedeva, decise di prendere in mano la situazione. E ci diede dentro. Il 2 maggio 1992 concesse un’intervista a L’Espresso. Il 4 maggio partecipò alla trasmissione radiofonica Prima pagina. Il 5 maggio debuttò in tv a Studio aperto con Paolo Liguori. Il suo decennio di prode della giustizia e di intellettuale poliedrico (parlò di etica, legislazione, concorrenza, equitazione e lirica) si sarebbe concluso dieci anni più tardi, nel gennaio 2002, secondo governo di Silvio Berlusconi, quando intervenne prima della pensione all’inaugurazione dell’anno giudiziario consegnando ai posteri un grido da manuale di storia: “Resistere! Resistere! Resistere!”. E coerentemente si eclissò. Nel frattempo noi avevamo saputo tutto di lui, anche che montava la cavalla Rosemary e che trovava impareggiabile Una notte sul Monte Calvo di Modesto Musorgskij. E avevamo imparato a conoscere il rigore morale ereditato dagli avi con cui si era imposto equilibrio. A Mixer, sollecitato da Giovanni Minoli sull’adorazione furente del popolo per le toghe, nell’autunno del ‘93 disse: “Non dobbiamo sentirci destinatari di un’investitura diretta e fortemente caratterizzata da un punto di vista emotivo da parte della gente”. Ma quelli non erano tempi normali. Persino a lui capitò di cedere al moto insurrezionale dichiarando che i processi ci sarebbero stati, ma quello di piazza era già concluso, e aveva emesso la sentenza. Non solo: a causa della fama incontenibile e dello sfascio della classe politica, intervistato nel 1994 dal Corriere della Sera si lasciò sedurre da un’ipotesi che gli sarà rinfacciata tutta la vita: “Dovrebbe accadere un cataclisma per cui resta solo in piedi il Presidente della Repubblica che, come supremo tutore, chiama a raccolta gli uomini della legge. E soltanto in quel caso potremmo rispondere con un servizio di complemento”. Siccome il cataclisma c’era, tutti interpretarono l’uscita come una candidatura alla presidenza del Consiglio prossima alla sovversione. Sarebbe stato accusato di golpismo per quell’episodio e per altri, come quando convocò le telecamere minacciando dimissioni collettive se il decreto di Alfredo Biondi (sulla carcerazione preventiva) non fosse stato respinto, e come quando contribuì alla caduta del primo governo Berlusconi inviando un avviso di garanzia al premier che presiedeva a Napoli la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata» (Mattia Feltri). L’allora commissario della Federcalcio Guido Rossi lo chiamò nel maggio 2006 (era appena scoppiata Moggiopoli) a dirigere l’ufficio inchieste della Federazione, benché Borrelli non avesse mai manifestato alcuna passione per quello sport. Scrisse Filippo Facci: «Di Borrelli avevo in mente il padre Manlio, un dannunziano col monocolo e il fisico da ufficiale di cavalleria, nietzschiano della prima ora e buon amico di Indro Montanelli; di Borrelli avevo in mente l’educazione austroungarica, le vacanze in Engadina, gli studi musicali, la borsa di studio che lo portò a Bayreuth, lui frastornato da quel mito wagneriano che pure aveva ammaliato suo padre, lui d’inclinazione rigorosamente classica e al tempo stesso disperatamente romantica, una passione che accrebbe la sua indecisione sul che fare. Io di Borrelli avevo in mente la sorella sposata col musicologo Roman Vlad (1919- 2013), il fratello già consigliere dell’Opera di Roma con tanto di casa a Capalbio, avevo in mente l’eloquio perfetto, lo snobismo fantastico, la spettacolare vanitas, la pupilla lievemente dilatata mentre risuonava la fanfara della rivoluzione e il Götterdammerung della Prima repubblica, io avevo in mente questo: e lo combattevo con tutto il mio onore. Potete immaginare come mi sento ora a vederlo lì che si barcamena col Moviolone, con Luciano Moggi, col giuoco del pallone”». È morto all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dove era ricoverato da un due settimane per un tumore al cervello. Lascia la moglie Maria Laura Pini Prato, nata a Fucecchio (Firenze), insegnante di inglese, conosciuta al liceo Michelangelo di Firenze, a differenza del marito appassionata di calcio e tifosa proprio della Fiorentina, una delle squadre messe sotto inchiesta dal marito durante il periodo del suo incarico in Federcalcio. Due figli, Andrea (magistrato) e Federica (archeologa), e i nipoti Francesco, Teresa e Sofia.