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 2019  luglio 15 Lunedì calendario

Biografia di Filippini Biografia di Nani Filippini

Da tanti anni ormai molti inseguono Enrico Filippini e lo interrogano. Ricuciono i frammenti di una esistenza frenetica e dispersa, ricca di suggestioni. Cercava di capire il mondo, magari anche di cambiarlo un po’ e soprattutto di capire sé stesso. Filippini filosofo che piace molto a Banfi e Paci e traduce Husserl ("una bella gatta da pelare"), Filippini narratore che entusiasma Sanguineti e l’Avanguardia, Filippini editore con Feltrinelli e Bompiani e ancora, Filippini giornalista, subito reclutato da Scalfari per la nascente Repubblica, Filippini sceneggiatore… Ma prima, forse prima di tutto, c’era stato un Filippini pittore e disegnatore di cui si erano perse le tracce. In un brano autobiografico, infilato nel ricordo di Enzo Paci, ecco cosa scrive: “Avevo poco più di vent’anni, ma ero già sposato e avevo già una figlia, nata da un folgorante amore liceale. Nel Nord (in Svizzera e in Germania), avevo fatto già alcune esperienze cinematografiche e teatrali e avevo coltivato il sogno della pittura, insidiato dall’evidenza sempre più angosciosa che non ero né Picasso né Klee…”. Il sogno della pittura adesso ha un suo svelamento in questa mostra che per la prima volta permette di vedere quel che il giovane Filippini aveva fatto, salvo poi andarsene a Milano a studiare filosofia e lasciare tutto in una soffitta. Non sono disegni occasionali, sono degli autentici studi. Un guardarsi intorno per riprodurre sul foglio ciò che vede. Prima viene il corpo. I corpi nudi, in prevalenza femminili, attraggono l’artista che li disegna in varie pose: in piedi, sdraiati, di schiena, in ginocchio… A fare da modella è spesso la giovane moglie Ruth Schmidhauser, di cui rappresenta diverse volte il volto, con una maturità stilistica che, senza essere originale, è però interessante, soprattutto se la si intende come il preludio di una stagione che poi non ci fu. Il giovane Nani sta cercando qualcosa, anche in sé stesso che ritrae pensoso. Non era né Picasso né Klee, come avrebbe poi scritto, ma c’è una natura morta a colori che risente certamente della visione dei grandi maestri del Novecento e per così dire si insinua tra loro, a testimoniare un occhio attento e un gusto coltivato. In una intervista a Renato Guttuso, realizzata per la Repubblica il 27 settembre 1984, Filippini si lascia andare, e non è un fatto infrequente, ad un ricordo personale. Con Guttuso, raggiunto nel suo studio di Velate, sta parlando di Dalí. E racconta di essere andato a visitare in Spagna una grande mostra dedicata al pittore surrealista: “Ne sono uscito alquanto freddo. Se a quindici anni, vedendo i suoi famosi orologi molli o liquefatti in un libro di Lionello Venturi, avevo avuto l’impressione che mi si dischiudesse un intero universo, lì, di fronte a quelle quattrocento opere, che parlavano tutte dell’inconscio, della follia, del mistero, del segreto, dei meandri della psiche, ho avuto la sensazione di qualcosa di bloccato, di inerte, di fermo”. Dunque a quindici anni Filippini frequentava i libri d’arte e si immaginava un futuro da artista. Poi, lasciata l’idea di dipingere in proprio, aveva sempre interrogato gli artisti e le loro opere e lo si vede molto bene quando ne scrive. Con Giulio Turcato, per esempio, intervistato per Repubblica il 25 febbraio del 1986, ha un dialogo che sembra una danza intorno al pittore, per poi sfociare nella descrizione-recensione della mostra. “Per capire che cos’è il colore extra-retinico, lirico, estatico di Turcato basta affacciarsi al primo salone dove sono esposte le grandi tele degli ultimi anni. Man mano che ci si avvicina, si attraversano vari stadi di emozione-liquidità, si ha l’impressione di solcare la materia e l’anti-materia, di penetrare in una sorta di eternità in continuo movimento…”. Faceva le interviste senza pudore, ha scritto più o meno Umberto Eco, e in fondo intervistava sé stesso. Filippini gli artisti li amava e frequentava, a Milano in gioventù al bar Jamaica e poi molto anche a Roma. Forse qualche volta si specchiava in loro, magari immaginando per un attimo quello che sarebbe potuto essere. Una volta, erano i primi mesi di Repubblica e anch’io ero appena entrato a far parte della redazione, stavo cercando qualcuno che potesse scrivere di Füssli, visto che si stava per inaugurare una mostra al Museo Poldi Pezzoli di Milano. Filippini passò davanti alla mia scrivania e mi chiese che cosa stessi facendo. Si offrì immediatamente di scrivere su Füssli. “Ma non hai visto la mostra…”. “Sì, ma conosco benissimo i quadri esposti”. Nel pomeriggio il pezzo era pronto per andare in pagina. Anche adesso ho un rammarico: che Filippini non sia qui a scrivere un pezzo sui suoi disegni, alla ricerca del suo tempo perduto.