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 2019  luglio 16 Martedì calendario

Confessioni di Paolo Conte

Ma alla fine qual è la natura segreta del jazz? Paolo Conte lo sa: “È un mistero di stampo teatrale. Se osservi un musicista di colore, il modo in cui si avvicina al microfono per l’assolo, i suoi passi avanti sono pura eloquenza”. L’avvocato è venuto di nuovo a Umbria Jazz per dispensare incantamenti, evocare mondi lontanissimi, profumi esotici annusati da una provincia dove tutto lì fuori pare un’avventura mirabolante, il miraggio di una traversata fino in Sudamerica per ballar milonghe duellando coi gauchos, per poi tornare nella Vecchia Europa tra violini incandescenti, seduzioni post Belle Époque, automobili rombanti di cent’anni fa, suffragette snob, e subito via di nuovo per una vertigine boogie in un locale di Harlem. Tutto è possibile nel pianeta Conte, dove spazio e tempo roteano e il passato non è nostalgia, ma invenzione. “Questa storia dell’esotismo”, riflette lo chansonnier astigiano, “è una forma di pudore, tipica anche degli scrittori del ’900: racconti una storia che può appartenere al quotidiano ma per riservatezza l’ambienti in un altro scenario, più esotico e colorato. Così attenui il senso di troppa attualità. Sono sempre stato nemico della scrittura sull’attualità: ti passa davanti, e in realtà non conta. Molti si attaccano al presente, ma lo decifreremo solo dopo”. Lui, invece, in che secolo avrebbe voluto vivere? “A volte ho avuto una buona predilezione per l’800, così carico di effervescenza: praticando il pianoforte quel tempo ti rincorre. Ma anche il nostro ’900, certo cattivo ed equivoco, con due guerre mondiali, però alla fine è stato un secolo interessante, è valsa la pena esserci”.
Tante volte Conte ha deliziato, come l’altra sera all’Arena Santa Giuliana, i palati fini di Umbria Jazz. Nell’84 si divertì a inventare musica senza lacciuoli, con Arbore, Avati, Henghel Gualdi. Lucio Dalla diede forfait all’ultimo minuto. Conte ricorda bene quella serata: “Ero provvisto di un vibrafono piccolissimo. Fu un tentativo di far jazz molto alla buona, a parte Gualdi che sapeva il fatto suo. Ci divertimmo”. E continua così, con smagata indolenza. In una scaletta live può proporre due diverse versioni di Via con me e snobbare Azzurro, l’inno che 51 anni fa, complice Celentano, ci consegnò il paradosso italiano di un pomeriggio annoiato in giardino, mentre Parigi e il mondo erano in fiamme. Conte ride sotto i baffi: “Non pensavo affatto ai tempi che si stavano muovendo intorno a me, non vivevo quel ’68: non essendo più studente, già lavoravo in ufficio con mio padre e avevo un altro tipo di vita. Oggi possiamo tirare le fila e sì, era in atto una rivoluzione”. Conte si lamenta giocosamente dello scippo di Azzurro da parte dei “torpedonisti”. “Non era previsto: nelle mie aspettative era una canzone d’arte. Effettivamente ha funzionato nei torpedoni e per le gite: è venuto spontaneo che la gente cantasse il refrain in coro. Alla fine fa piacere, è sempre popolarità per una canzone”.
A proposito di Grandi Vecchi: a Perugia è passato anche Gino Paoli, con il suo recital Una lunga storia, sessant’anni di carriera celebrati in due tempi: una prima parte con quattro suite legate alle stagioni, musicate da Danilo Rea: un flusso libero di meditazione compositiva su testi e pensieri dello stesso Paoli. E poi i classici, con il piano di Rita Marcotulli e un palco affollato di virtuosi.
C’è quella storia di Sapore di sale, chiediamo a Paoli. Stefania Sandrelli la credeva dedicata a lei. “Invece l’ispirazione me la diede Ursula Andress che usciva dalle acque col bikini bianco in un film di 007. Una folgorazione: pareva una divinità dipinta da Antonello da Messina. Più tardi la conobbi, era un trappolo alto così, una delusione, il colpo di genio di un giallista che trasfigurava l’immaginazione di noi maschietti…”. In un percorso di incessante esplorazione della propria creatività, Gino ha una certezza. “La mia canzone quasi perfetta è Sassi: quella il cui risultato concreto si avvicina di più all’emozione originaria. Ma il ‘quasi’ è decisivo: altrimenti avrei fatto la fine di Gauguin, che dopo aver ottenuto ciò che voleva con l’arte diede fuoco alla capanna. Io ho ancora il cerino spento. Per ora”.