Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  luglio 16 Martedì calendario

Biografia di Quino

Quino (Joaquín Salvador Lavado Tejón), nato a Mendoza (Argentina) il 17 luglio 1932 (87 anni). Fumettista. Creatore del personaggio di Mafalda. Oltre 50 milioni di copie vendute nel mondo. «Di Mafalda ho disegnato in tutto 1.290 strisce. Le altre sono più di trentamila. Patisco del tipico complesso del compositore condannato a essere famoso sempre per lo stesso motivo di successo, quando magari ha scritto musica molto migliore, ma meno conosciuta… […] Non c´è nessuno scarto, comunque, tra i temi di Mafalda e quelli successivi. C´è lo stesso spirito, e anche la stessa durezza». «In fondo, ho ragionato sempre sulla stessa cosa: la prepotenza come malattia dell´umanità» • «“Ho scoperto di chiamarmi Joaquín alle elementari”. In casa l’hanno sempre chiamato Quino per distinguerlo dallo zio: Joaquín Salvador Lavado Tejón, è rimasto per sempre Quino» (Bruna Bianchi) • Ultimo dei tre figli di «una coppia d’immigrati andalusi, due repubblicani molto politicizzati, per quanto il padre fosse un semplice impiegato e la madre una casalinga» (Luciana Sica). «Ci spiega il giallo delle sue due date di nascita? All’anagrafe c’è scritto 17 agosto, ma lei è nato un mese prima. “Quando nasceva un bambino, bisognava andare a iscriverlo all’anagrafe entro tre mesi. Evidentemente i miei genitori si erano dimenticati di me. Con i più piccoli accadono queste cose…”. Come definirebbe la sua infanzia? “Molto felice. Abitavo in un piccolo quartiere di Mendoza, una città a più di mille chilometri da Buenos Aires, del tutto agricola, abitata da italiani, spagnoli, siro-libanesi. Così sono cresciuto nel Mediterraneo, più che in Argentina. I miei connazionali, li ho conosciuti quando sono andato a scuola”. E da bambino aveva, come Mafalda, un suo gruppetto di amici? “No. Ero molto solitario. Anche perché i miei due fratelli erano più grandi di me”» (Luca Raffaelli). «Il mappamondo sostituiva il focolare: “Grazie a quel globo girevole, mi pareva di crescere nel Mediterraneo, anziché sotto le Ande. I miei genitori erano repubblicani spagnoli; ascoltavano tutte le radio per seguire la nostra guerra civile e poi il conflitto mondiale, notizie che verificavano su quel mappamondo che sarebbe finito nelle strisce di Mafalda”. […] Quino racconta di avere avuto l’adolescenza segnata dai rituali argentini della morte: “La disgrazia di portare sempre un segno di lutto fra i 10 e i 17 anni, per la morte di nonna, mamma e papà. Un anno con il bottone, uno con il bracciale, uno con la cravatta neri, la porta di casa socchiusa, la radio senza musica. Mi è rimasta l’idea che i morti continuino a vivere accanto a noi. Talvolta mi capita di parlare con loro o di sentire un soffio accanto a me e chiedermi ‘chi sarà?’. Li sento vicini”» (Cesare Medail). Precocissima la passione per il disegno. «Aveva tre anni, ricorda, […] e una sera papà e mammà andarono al cinema, affidando lui e i suoi due fratelli a uno zio, Joaquín Tejón, e questi per tener buoni i nipoti si mise appunto a disegnare, dato che di professione era disegnatore pubblicitario. Il piccolo Joaquín restò stregato dal grande Joaquín. Qualcosa di magico: istintivamente, inconsapevolmente, ma appassionatamente avverti nel disegno una possibilità inaudita di riscatto dalla condizione infantile, una possibilità, “la” possibilità di pronunciarsi sugli altri. Decise di fare come lo zio omonimo. […] Una decisione tira l’altra. La seconda decisione capitale della sua vita, Quino la prese quando abbandonò la scuola delle Belle Arti a Mendoza, dopo due anni di corso. Era stufo di disegnare gessi e anfore. Lui voleva disegnare gli altri, la gente, il mondo» (Oreste Del Buono). «Anche se studiavo Belle Arti, per me l´importante, fin dagli inizi, era il meccanismo comico: è su quello, soprattutto, che mi sono applicato. Di conseguenza, il mio vero rimpianto è avere smesso troppo presto di studiare disegno. Ho abbandonato Belle Arti a quindici anni: credevo di sapere tutto, e invece avrei dovuto continuare» (a Michele Serra). «Agli inizi fu dura. Quino continuava ad andare da Mendoza a Buenos Aires con la sua micidiale mercanzia. “Ho fatto il giro di tutti i giornali, mi hanno respinto tutti, sono tornato a Mendoza, ho fatto il militare, sono tornato a Buenos Aires, ho girato ancora tutti i giornali, sono sopravvissuto grazie a mio fratello maggiore, sinché non ho cominciato a pubblicare”, Quino sorride esplicitamente di sé. È come se si disegnasse. Allora, era difficile farsi notare nel giornalismo grafico argentino dominato da astri di prima grandezza come Oski e Divito. Eppure Quino ci riuscì con la forza delle sue vignette, soprattutto di quelle senza parola, le vignette mute in cui l’estrema timidezza caricava il segno, arrivando a una deflagrazione che non aveva bisogno di parlato per risultare assordante» (Del Buono). «Quando portai le mie prime tavole a Buenos Aires, nel ’54, nessuno le voleva pubblicare perché parlavano di argomenti sociali, e all´epoca era una vera e propria stramberia. “La gente paga – mi dicevano –, e vuole divertirsi con le battute sulle suocere”. Poi si sono accorti che la gente pagava anche per pensare». «La mia prima pubblicazione […] con un disegno di humour grafico risale al 1954, sul settimanale argentino “Esto es”». «La prima raccolta di Quino apparve nel 1963 ed era intitolata, sulla scia di un fortunato film scandalistico di Gualtiero Jacopetti, Mondo cane, Mundo Quino» (Del Buono). «Non lo volevo avere, un mio personaggio. Oski, grande autore argentino, mi diceva sempre: "Non farlo, perché poi un personaggio ti limita tantissimo. Meglio che continui a fare quello che ti pare". Ma anche con Mafalda ho continuato a fare le mie tavole libere». «Come nasce Mafalda? “In un modo curioso. Nel ’63 un’agenzia pubblicitaria mi chiese una striscia a metà strada tra Blondie e i Peanuts per la campagna di un’azienda di elettrodomestici. Il personaggio doveva cominciare con la M come Mansfield, l’iniziale del marchio, ed è così che inventai Mafalda, peraltro bocciata senza appello da quel mio cliente. Ma quando, un anno dopo, il settimanale ‘Primera plana’ mi propose una collaborazione fissa, la tirai fuori dal cassetto, e di lì a poco diventò una striscia quotidiana”» (Sica). «A chi o che cosa si è ispirato per disegnarla? “Volevo raccontare una sto­ria a partire da un gruppo di ra­gazzini. Così mi sono rifatto ai Peanuts di Schulz e al­lo statunitense Blondie e Dagoberto”. E la chioma? “Beh, volevo che Mafalda fosse assolutamente riconoscibile. Così ho creato un dettaglio che la rendesse inconfondibile: la sua massa di capelli neri e gonfi”. Si ricorda la prima volta che l’ha dise­gnata? “Sì. Ero nel mio appartamento dell’epoca, in calle Cile 371, nel cuore dello storico quartiere di San Telmo di Buenos Aires. Ora là di fronte c’è la sua statua, con la scritta: ’Qui visse Mafalda’”» (Lucia Capuzzi). «La bimbetta di Buenos Aires fu considerata negli anni Sessanta la risposta sudamericana ai Peanuts di Schulz: mentre questi erano assillati da pene esistenziali, tic e nevrosi, Mafalda era una piccola peste politica, al punto che Umberto Eco, autore della prefazione al primo albo Bompiani, scrisse: “Charlie Brown ha letto evidentemente i revisionisti freudiani e va alla ricerca di un’armonia perduta; Mafalda ha letto il Che e Mao Tse Tung”. Come una sentinella della rivoluzione, la “sovversiva” esercita un ferreo controllo sui mass media. Super-informata di quanto avviene nelle zone calde, inventa soluzioni comico-surreali per risolvere le crisi, in perenne dialettica con gli amichetti Susanita, borghese che sogna solo famiglia, sesso e maternità, Manolito, attaccatissimo al denaro, e Felipe, timido utopista; per non parlare del conflitto con la mamma per via dell’aborrita minestra. Mafalda, insomma, fu un emblema della contestazione, effigiata sui muri delle università occupate, ma non è figlia del ’68, essendo nata quattro anni prima. “Mafalda è solo figlia del mio ambiente familiare – precisa Quino –. E in particolare di mia nonna comunista, che mi strapazzava perché amavo il cinema musicale americano (Bing Crosby, Sinatra). La nonna mi cancellava le illusioni, ricordandomi che in Spagna c’era Franco, in Portogallo Salazar, in Grecia i colonnelli, in Cile Pinochet, con il sostegno degli americani, che a loro volta facevano macelli in Vietnam. Eppure ci fu un momento, nei tardi anni Sessanta, in cui pareva che tutto potesse cambiare in meglio. La musica dei Beatles era l’emblema di quella speranza, e io risentivo di quell’ottimismo: gli stessi furori di Mafalda erano voglia di cambiamento. Ora potrebbe essere un’ecologista o una no global”. […] “La sua contestazione è tutta ironia. Teniamo presente che è sempre una bambina, capace d’inventarsi che il governo ha vietato l’odiata minestra e di abbozzare di fronte alla replica della mamma (‘Pur di nutrirti, tesoro, userò il ricettario del Che sulla minestra clandestina’). Il mio scopo non è indignare, ma far pensare sorridendo, per chi ci riesce”» (Medail). «Mafalda è una contestataria, un’eroina arrabbiata che rifiuta il mondo così com’è. Sudamericana, appartiene ad un Paese denso di contrasti sociali, che tuttavia non chiederebbe di meglio che integrarla e renderla felice, salvo che Mafalda si rifiuta, respingendo ogni avance… Vive in una continua dialettica col mondo adulto, che non stima, non rispetta, avversa, umilia e respinge, rivendicando il suo diritto a rimanere una bambina che non vuole gestire un universo adulterato dai genitori… Ha le idee confuse in fatto di politica, diffida dello Stato, ma è preoccupata per la presenza dei cinesi. Una sola cosa sa con chiarezza: non è contenta» (Umberto Eco). «Sebbene abbia lasciato tracce profonde nell’immaginario collettivo, la sua avventura non è durata a lungo. Nel 1973, dopo nove anni di pubblicazioni quotidiane, Quino smette di disegnarne le strisce. “Ad un certo punto mi sono veramente stancato”, ricorda. “Non ce la facevo più a dire tutto quello che non andava, a passare il mio tempo in un continuo atteggiamento di denuncia. Il momento in cui ho deciso di mettere fine alle sue avventure, è coinciso poi con l’inizio di un periodo nero per l’Argentina. Quello dei sequestri, delle sparizioni, della dittatura. Il regime militare ha rafforzato la censura. Anche volendo, non avrei mai potuto continuare”. E neanche avrebbe potuto riprendere il filo interrotto dopo la deposizione di Videla. L’autore non ha mai avuto intenzione di ricominciare a raccontare le storie della sua pestifera creatura. Le sue rare apparizioni dopo gli anni Settanta sono legate alla promozione dei diritti umani: come la Mafalda che si vede in un manifesto del ministero degli Esteri argentino per celebrare il quinto anniversario della fine della dittatura (1988)» (Silvia Santirosi). «Il personaggio che ha reso celebre Quino è ancora celebratissimo, nelle ristampe e nel merchandising. “Mafalda è sempre attuale perché voleva cambiare il mondo, ma purtroppo il mondo è rimasto lo stesso. Riprenderla? Non avrebbe senso. Gli anni Sessanta sono un tempo che non tornerà mai più: c’erano i Beatles, papa Giovanni, Che Guevara. C’era la speranza che la politica potesse cambiare le cose: oggi l’economia conta più della politica. Puoi anche fare una rivoluzione, ma alla fine per la gente non cambia mai nulla”» (Guido Tiberga). «Mafalda, in effetti, è solo una parentesi del mio percorso lavorativo. Quando iniziai con lei, realizzavo già tavole umoristiche da undici anni. E non ho mai smesso: sono andato avanti fino all’anno scorso [cioè fino al 2013 – ndr], quando ho deciso di non disegnare più per problemi alla vista. Mio malgrado, sono stato costretto a rinunciare al mio lavoro. Mi sarebbe piaciuto continuare a trattare temi quali lo spionaggio globale, l’immigrazione, il dramma dell’isola di Lampedusa o la guerra in Siria». Tra le sue ultime pubblicazioni, il volume Odissea a tavola, del 2007 (ma pubblicato in Italia nel 2013, presso Salani), «tutto meno che una celebrazione di quella che sembra diventata la nuova religione del mondo. Non ci sono profeti alla Gordon Ramsay o alla Carlo Cracco, nelle pagine di Quino. Chef più o meno stellati, esperti più o meno preparati, piatti più o meno creativi finiscono senza pietà nel tritacarne del ridicolo: il locale elegante frequentato da clienti azzimati ed esigenti che si rifornisce di nascosto dalla trattoria della strada accanto, la signora “bene” che va dal macellaio con l’osteopata per scegliere le ossa migliori per il bollito, il cliente che si lamenta perché nel piatto trova una mosca e ne pretende almeno cinque o sei, “perché un ristorante di lusso non può risparmiare sugli ingredienti”. “È la verità che si immola all’apparenza”, dice Quino, che […] ammette di avere un rapporto controverso con il cibo: “Sono un anziano signore alle prese con gli acciacchi e il colesterolo – racconta –. I medici mi costringono a un regime alimentare che è peggio di quello di Pinochet: non si può fare niente, non si può dire niente. E anche al ristorante, ormai, la libertà è quella che è: ho passato tre giorni, in Spagna, in un locale di Ferran Adrià. Mi portavano di tutto: piatti che sembravano opere d’arte, tazzine da caffè piene di brodo di non so cosa. Io avrei voluto un piatto di pasta e uno di lenticchie: non c’erano. I piatti erano bellissimi, ma anche lì ho dovuto mangiare quello che volevano gli altri”. Le pagine di Quino, come tutte quelle dei maestri dell’umorismo disegnato, si leggono su due piani. Alla satira “sulla” cucina si alterna la satira “attraverso” la cucina: lo chef che controlla il polso del pollo che ha appena decapitato, la cuoca antiabortista che tiene in mano una gallina sanguinante ma si rifiuta di friggere le uova perché non si può “interrompere la vita di un povero pulcino non ancora nato”, il cameriere costretto a sorridere davanti alle richieste più assurde che si sfoga tormentando la famiglia appena tornato a casa. L’esperienza quotidiana usata come metafora, il privato che ancora una volta diventa politico: “Tutti ricordano la minestra che Mafalda non voleva mangiare. È successo a tutti, da bambini: madri e nonne che ti mettono nel piatto quello che non vuoi, spaventandoti con le minacce: mangia, mangia, altrimenti non crescerai mai. Quella minestra, per me, erano i generali che eravamo costretti a digerire ogni giorno: mangia, mangia, altrimenti finisci nei guai”» (Tiberga) • «Oggi Mafalda è un simbolo di pacifismo, ecologia, tolleranza e parità di diritti, oltre che un patrimonio nazionale dell’Argentina, con una sua statua (nel quartiere San Telmo) e una sua piazza (Plaza Mafalda, nel quartiere Colegiales) a Buenos Aires» (Angela Bosetto). «Sa che perfino papa Francesco quando era ancora car­dinale ha citato una striscia di Mafalda? “Me lo hanno detto, e la cosa mi ha lasciato ba­sito. Nel 2009, l’allora arcivescovo di Buenos Ai­res stava riprendendo alcuni dirigenti della Ca­ritas locale per aver festeggiato un compleanno in un ristorante di lusso. Così, li ha esortati a non fare come Susanita, l’amica di Mafalda, che, in un’occasione, le dice: ‘Anche a me il cuore si stringe a vedere i poveri, credimi! Perciò quan­do saremo signore organizzeremo dei banchet­ti con tacchini, fagiani, e roba fine. Così racco­glieremo i soldi per poter comprare ai poveri fa­rina, polenta, fagioli e quelle altre porcherie che mangiano loro’”» (Capuzzi) • Vedovo di Alicia Colombo, chimico di ascendenze italiane con cui è stato sposato dal 1960 fino alla morte di lei, occorsa nel 2017. «Lei e la sua Alicia non avete avuto figli. “È stata una decisione precisa e responsabile: non mettere altri poverini in questo pazzo mondo”» (Raffaelli) • Dal 1976 al 2010 visse principalmente a Milano, per poi tornare a Buenos Aires. «Nel 1976 è arrivato in Italia. Perché? “Perché in Argentina situazione era terribile, e perché a Milano c’era Marcelo Ravoni che aveva tutto il mio materiale. Era la scelta migliore. Comunque non ho mai smesso di pubblicare in Argentina. Neanche con lo sciopero delle poste. Trovavamo sempre il modo di far arrivare le mie tavole”. La sua vita si è divisa in quattro case: quella di Buenos Aires, poi Milano, Parigi e Madrid. […] Perché ha lasciato Milano? “Perché è peggiorata troppo rispetto a quella degli anni ’70. Però forse tutto il mondo è peggiorato. Anche Buenos Aires”» (Raffaelli). «Anche se sono nato in una provincia ai confini con il Cile, e a differenza di tanti miei compatrioti non mangio carne tutti i giorni e non ballo il tango, l’Argentina è la patria. Ma sono circondato di gente di origine spagnola, italiana, persino islamica: insomma, mi sento mediterraneo». «La patria significa gioventù. Stare lontano da lei ha fatto sì che il mio umorismo sia diventato un po’ meno vivace, però a volte più profondo» • «Ho amato gli scrittori cubani. E poi Amado, García Márquez, anche se a un certo punto il realismo magico mi ha rotto l’anima. Borges mi annoiava, finché non ho compreso lo straordinario senso dell’umorismo che sta dietro le sue invenzioni e i suoi giochi letterari: un umorismo paradossale, che ha influenzato il “dopo Mafalda”» • «Armato di matita e inchiostro, l’autore argentino ha cercato per anni di capire la natura umana. Tutti i suoi disegni esprimono questo sguardo indagatore, disincantato, eppure innamorato degli uomini. Con un’immagine muta, Quino è stato capace di raccontare un intero universo, di far breccia nel cuore di una situazione ben precisa rendendola universale. E lo fa con pochi tratti di disegno e pochissime parole. […] “Sono cresciuto con il cinema muto: quella è stata la mia scuola. Quando viaggiavo da una parte all’altra del mondo, mi è capitato spesso in aereo di guardare almeno un film. E l’ho sempre fatto senza il suono, perché volevo vedere se solo con le immagini riuscivo a capire la storia”. Quando gli chiediamo di raccontarci come funziona il suo personalissimo atelier creativo, descrive giornate intere passate seduto al suo tavolo da disegno. “Facevo prima dei bozzetti a matita, poi disegnavo a china. C’erano giorni in cui le idee non venivano, e allora realizzavo schizzi su schizzi. In questi casi non usavo carta da disegno, ma un block notes. Appuntavo idee confuse, o non finite, cambiavo situazioni, personaggi, e raccoglievo tutto in una cartella. Era la mia miniera di idee. Una volta mi è capitato di riprenderne una che era lì da nove anni!”. […] Ha sempre disegnato ascoltando la radio, ricorda: “Mozart, Bach, Beethoven sono i compositori che amo. Ho un po’ più di difficoltà con la musica contemporanea, che peraltro apprezzo molto. Ma proprio non capisco quei brani dove c’è un suono ogni due minuti”. […] “Personalmente, non sono mai riuscito a disegnare con un computer. Ho bisogno di sentire la carta, di usare la matita, la gomma, l’inchiostro…”» (Santirosi) • «L’umorismo di Joaquín Salvador Lavado, meglio noto in arte come Quino, somiglia terribilmente al suo autore. Quino è pelato e occhialuto, si confonde in una folla. Non veste vistosamente, non si agita in modo particolare, non fa nulla per richiamare l’attenzione altrui. Un uomo come molti, si direbbe, ma ogni tanto qualcosa piomba dall’alto e lo folgora. È l’estro dell’umorismo. Allora lui è pronto, a sua volta, a colpire. E come colpisce. Con quale naturalezza. Per colpire non gli occorre un’arma fragorosa: gli basta una silenziosa matita. Anche un foglio, s’intende: ma un foglio non è poi così indispensabile: a Quino basta una qualsiasi superficie libera e non troppo scura, un tovagliolo o un polsino. […] Quando si mette a lavorare, nella concentrazione, Quino tira fuori la lingua, l’arrotola verso un angolo della bocca: il sinistro parrebbe il preferito, almeno a quanto testimonia lui stesso. Quando ritira dentro la lingua, il fattaccio è compiuto, è là davanti: un attentato ai luoghi comuni, alle ipocrisie, ai vezzi, alle convenzionalità, alle illusioni, al vizi borghesi. Piccolo-borghesi, è ovvio, ma pure grosso-borghesi: borghesia di tutti i tipi, predona o predata, se e come capita anche i vinti, anche le vittime hanno le loro colpe. Quino ignora prudenze e indulgenze» (Del Buono). «Il tratto elegante di Quino, il suo comico e malinconico bianco e nero, da Mafalda in poi ha attraversato diversi stili, ma il filo rosso […] è sempre lo stesso: un viaggio ostinato dentro il potere, l´accanimento gerarchico e l´autoritarismo che informano e deformano i rapporti tra le persone. Rapporti politici e rapporti familiari, amore e guerra, maschi e femmine, bambini e adulti, ricchezza e povertà. Con una implacabile definizione "ideologica" della questione: nessun dubbio sulle differenze tra deboli e forti, e sulla scelta di campo di Quino per i soccombenti. […] Quino inganna: la sua pagina è sobria e curata, il suo mondo grafico è pulito e quasi "classico", non ha niente da spartire con il tratto feroce e deformante di molta satira politica. Ma la sostanza è spesso crudele, l´umiliazione dei deboli è indicata senza esitazioni sentimentali, il potere è quasi antropofago nella sua voracità» (Serra) • «Pensa che siano i bambini i depositari della saggezza? “Ma no, quale saggezza! Poverini, i bambini sono sfruttatissimi in tutto il mondo: lavorano duramente, fanno i soldati, e anche nei nostri Paesi tanto ‘civili’, confezionati solo per gli adulti, a me sembrano così tanto infelici”. Mafalda non è sfruttata, non è infelice, ma la sa lunga ed è molto combattiva. “È vero, ma io l’ho pensata così, cioè piccola, solo perché in fondo una cosa intelligente detta da un adulto può essere una battuta di nessuna importanza, mentre in bocca a una bambina diventa molto più divertente. E poi tenga conto che, per arginare la censura, è più accettabile che a dire certe cose non sia una persona ‘grande’”» (Sica) • «Ho sempre cercato di fare uno humour atemporale, lavorando sui problemi che l’umanità si trascina dietro da secoli. Non amo la satira politica, perché non voglio che chi guarda una mia vignetta si chieda, a distanza di anni, chi fosse il primo ministro dell’epoca» • «“È stato l´umorismo a condurmi al disegno, non viceversa. […] Come disegnatore non sono mai stato un ricercatore di stile, ma a volte ho il sospetto di avere rinunciato a migliorarmi. Tutti i fumettisti, o quasi, si sentono artisti a metà, e forse lo sono. Al di sotto dell´arte…”. Avrebbe preferito diventare pittore? “Ma no, in fondo no. Ripeto, a me premeva lavorare sul comico: la mia cifra è quella, e in fin dei conti le cose sono andate benissimo così. Però, certo, Klee e Steinberg…”» (Serra). «In che maniera gli anni l’hanno cambiata? “Penso che a tutti gli umoristi capiti lo stesso. Anche Woody Allen nei primi film era più divertente e poi mano a mano si è fatto più pensieroso, più serio. Ho seguito lo stesso processo”» (Raffaelli). «Sono sinceramente sorpreso. Non avrei mai potuto immaginare che, dopo tutti questi anni, il personaggio di Mafalda potesse essere ancora così amato. Soprattutto dai più giovani. L’amarezza è grande: se Mafalda è ancora così attuale, se i problemi a lei tanto cari continuano a parlare alle persone di ogni età, significa che il mondo è sempre lo stesso. Anzi, se qualcosa è cambiato, è in peggio. La guerra continua ad essere sempre da qualche parte. C’è sempre una crisi economica nel nostro Paese, qualunque esso sia. E tutti vogliamo sempre risposte sincere dai nostri genitori, o da chi pensiamo possa farne le veci: lo Stato, la società o la scuola. Continuando a ottenere delle bugie, più o meno benintenzionate. Solo che non ci sono più padri che hanno le risposte. Insomma, il mondo è sempre più malato e la minestra piace sempre meno ai bambini».