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 2019  luglio 15 Lunedì calendario

Biografia di Miguel Induráin

Miguel Induráin (Miguel Induráin Larraya), nato a Villava (Navarra, Spagna) il 16 luglio 1964 (55 anni). Ex ciclista su strada. Vincitore di cinque Tour de France consecutivi (1991-1995) e di due Giri d’Italia (1992, 1993); nella corsa a cronometro, campione mondiale (Duitama, 1995) e olimpico (Atlanta, 1996). «È stato un vero sommo campione? È stato un campione della sua epoca. Una splendida macchina nel cui petto batteva una ruota lenticolare» (Gianni Ranieri) • Secondo dei cinque figli (con tre sorelle e un fratello minore, Prudencio, anch’egli ciclista professionista ma di tutt’altro livello) di un’umile famiglia di contadini. Raccontò a Leonardo Coen suo padre, Miguel anch’egli: «Ha preso da me: meglio la fatica dei campi che quella sui libri. A scuola, ci andava. Malvolentieri. Le elementari in paese, a Villava. Le medie in collegio dai padri del Larraona, a Pamplona. Gli ho regalato la prima bici, un’Alfa: aveva undici anni. Prima correva, ma a piedi. Atletica: 800 e 1.000 metri. Un giorno la scuola organizza una corsa in bici: arriva secondo. Ci riprova. E vince. Gli offrono un bocadillo [sorta di panino farcito – ndr] e un bicchiere di Fanta. Lui è soddisfatto. Viene a casa e dice: “Papà, ho deciso. Farò il ciclista. Per quel bocadillo”». «Incomincia a correre con la piccola squadra del paese, la C.C. Villaves. […] Poi impara il mestiere al fianco di Pedro Delgado, alla Reynolds di José Miguel Echavarri ed Eusebio Unzué, due navarri che intravvedono subito nel loro corregionale un talento purissimo, una gemma preziosa che va solo tagliata bene. Il debutto nel 1985, alla Vuelta, a soli 20 anni. Osserva, ascolta e studia. Perde anche 5 chili, per essere più competitivo in montagna, e nel 1989 vince la Parigi-Nizza. Sempre nello stesso anno, al Tour, conquista la tappa di Cauterets sui Pirenei. L’anno successivo, dà spettacolo a Luz Ardiden, sempre Pirenei. Insomma, una crescita lenta ma costante, fino alla maturazione, che avviene a 27 anni, quando spicca il volo» (Pier Augusto Stagi). «La cavalcata trionfale di Indurain al Tour de France comincia nel 1991: il navarro arriva con buone credenziali (due vittorie in tappe di montagna e il decimo posto dell’anno precedente), ma è LeMond l’avversario da battere. Nelle prime tappe il navarro perde terreno e nella lunghissima crono da Alençon ad Argentan rifila a LeMond la miseria di soli 8 secondi. Altri otto ne rosicchia nella prima tappa pirenaica da Pau a Jaca col Soudet e il Somport da scalare, ma il ritardo rispetto a LeMond rimane sopra i due minuti. Il rientro in Francia con il tappone pirenaico segna la svolta: si scalano cinque colli pirenaici, e sul Tourmalet la maglia gialla LeMond va in crisi. Indurain capisce che è arrivato il suo momento, attacca nella discesa (atteggiamento non certo consueto per uno spagnolo) portandosi dietro Chiappucci, a cui lascia la vittoria di tappa in cima alla salita di Val-Louron. È la prima maglia gialla per il navarro, una maglia che difenderà sull’Alpe d’Huez dagli attacchi di Bugno e che blinderà vincendo la cronometro di Macon con 27 secondi di vantaggio su Bugno. Quello del 1991 non è ancora l’Indurain capace di annichilire gli avversari a cronometro, ma il navarro in montagna è rimasto sempre incollato alla ruota degli avversari senza mai mostrare un segno di cedimento, e questa sarà una costante dei Tour a venire» (Emiliano Morozzi). «Nel 1992 il Giro d’Italia aveva 83 anni (74 edizioni), e nessuno spagnolo era mai riuscito a vincerlo. Miguel Indurain ci riuscì al primo colpo (e si ripeté l’anno dopo). […] “L’obiettivo nel 1992 era rivincere il Tour già mio l’anno prima. Ma decisi di fare anche il Giro perché la parte dura era quella finale. Affrontai il prologo di Genova come un test per la Francia, un’occasione per provare i materiali. Non presi rischi nelle curve e vinse il francese Marie. Ma presi la maglia rosa due giorni dopo ad Arezzo, e non la lasciai più fino a Milano. Che ricordi ho? Fantastici. Ogni giorno il Giro era una festa rosa”» (Ciro Scognamiglio). Poche settimane dopo, al Tour de France «Indurain parte stavolta con i favori del pronostico: l’edizione 1992 infatti presenta crono lunghissime e c’è solo una tappa pirenaica in avvio, col duro Col de Marie-Blanque. Il navarro ha vinto a mani basse il Giro d’Italia, e la coppia Bugno-Chiappucci non sembra in grado di impensierirlo. Quest’ultimo, sconfitto nella corsa rosa, sa che per battere Indurain occorre attaccarlo da lontano, e ci prova nella tappa di Bruxelles, guadagnando due minuti sul corridore spagnolo, ma il navarro nella cronometro in Lussemburgo ristabilisce le gerarchie lasciando Chiappucci a quasi tre minuti. Arrivano le Alpi, e il “Diablo” (così i suoi tifosi chiamano il ciclista di Uboldo) parte da lontanissimo sull’Iseran e scala in solitaria Monginevro e Sestriere. […] Nei giorni successivi però lo spagnolo torna in pieno controllo della corsa, rimane incollato a Chiappucci sull’Alpe d’Huez e gli rifila quasi tre minuti nell’ultima crono» (Morozzi). Nel 1993 Induráin conquistò per la seconda volta consecutiva il Giro d’Italia, «vincendo le prove contro il tempo di Senigallia e del Sestriere. Fu tuttavia un successo più sofferto del previsto, a causa dei continui attacchi da parte di Pёtr Ugrjumov, in particolare sulla salita di Oropa. Il navarro arrivò a Milano con solo 58” sul lettone e 5’27” su “El Diablo”» (Davide Pegurri). Rispetto all’anno precedente, invece, «nel 1993 la vittoria di Indurain al Tour è decisamente meno sofferta: Chiappucci e Bugno sono in netto declino, all’orizzonte spunta come avversario lo svizzero Rominger, ma il navarro senza accusare mai un cedimento prima bastona gli avversari nella crono di Lac de Madine, poi si incolla alle ruote dell’elvetico e di Álvaro Mejía nel tappone di Serre Chevalier e nella frazione ancora più dura con arrivo in salita a Isola 2000. Sui Pirenei Indurain non perde un metro dagli avversari, e nel finale arriva la sorpresa: Rominger lo batte a cronometro, anche se la leadership del navarro non è mai stata in discussione. Nel 1994 Indurain ha trent’anni, e arriva da un Giro d’Italia nel quale è stato letteralmente bastonato da Berzin nella cronometro di Follonica e da Pantani in montagna sul Mortirolo. Il russo non partecipa al Tour, ma il romagnolo sì, e sembra l’unico in grado di mettere in seria difficoltà il navarro in salita. […] Però Indurain conosce le insidie della corsa francese, mentre Pantani è alla prima partecipazione al Tour: le montagne francesi hanno pendenze meno aspre, sulle quali Pantani non può rendere al navarro quello che perde a cronometro, e nelle prove contro il tempo tra i due c’è una differenza abissale. Al primo arrivo in salita, comunque, Pantani ci prova: si invola nella nebbia appena comincia la dura salita di Lourdes-Hautacam, ma Indurain, con a ruota Leblanc, recupera e stacca il corridore di Cesenatico, per poi lasciare al francese la vittoria di tappa. Pantani ha un ritardo enorme, e di fatto la leadership di Indurain non è in discussione, ma il romagnolo ci prova sempre: nel tappone pirenaico successivo lima tre minuti sull’arrivo in salita di Luz Ardiden, ci riprova sul Ventoux (Indurain lo va a riprendere con una discesa spericolata), lo stacca sull’Alpe d’Huez e nella cronoscalata di Morzine, ma Indurain con il vantaggio accumulato può dormire sonni tranquilli e vincere il quarto Tour di fila. Nel 1995 il navarro eguaglia campioni del calibro di Merckx, Anquetil e Hinault: al via contro di lui ci sono Pantani, lo svizzero Zülle e Rominger, ma il navarro gioca d’anticipo, scappando a Liegi con Bruyneel, vincendo la prima cronometro a Seraing e controllando in montagna l’avversario più in forma, Zülle, mentre Rominger e Pantani naufragano. Il corridore italiano vince all’Alpe d’Huez e a Guzet-Neige infiammando i tifosi di casa nostra, ma ancora una volta il trono di Indurain non vacilla, e il navarro stabilisce un record unico e singolare: quello di aver vinto cinque Tour de France di fila, impresa mai riuscita a nessuno, senza mai alzare le braccia al cielo» (Morozzi). Nel 1996 «l’ultimo Tour, la crisi nata sotto il flagello dell’acqua ed esplosa al sole nella tappa di Les Arcs, mai più recuperata, e quell’ostinato proseguire, rotolando sempre più giù in classifica, sorpassato in salita dai velocisti, e quel ripetere "voglio arrivare fino a Parigi, è giusto anche per Riis". Così fu che il Tour per la prima volta arrivò a Pamplona, a casa di Indurain, e tutti i tifosi di Indurain e la sua numerosissima famiglia lo videro aggiogato al carro del vincitore, quel danese pelato capace di ricambiare l’omaggio in una piazza piena di navarri tristi. Riis alzò il braccio di Indurain e disse, mescolando francese, italiano e spagnolo: "Io adesso sono il più forte, ma ricordatevi che il più grande resta Miguel"» (Gianni Mura). «Si consola con l’oro olimpico nella crono ai Giochi di Atlanta ’96. Nel settembre del ’94 aveva anche stabilito un nuovo record dell’ora (53,040 a Bordeaux) [in seguito annullato – ndr]. Due anni dopo capisce che è anche l’ora di smettere. Non vuole portare in giro la bicicletta» (Stagi). «Il fallimento del record dell’ora in Colombia, il ritiro dalla Vuelta spagnola, che fu costretto dagli sponsor a gareggiare, hanno segnato il capolinea di questo corridore maniaco del filo a piombo, così murato vivo nelle sue certezze da non sentirsela, a 32 anni, di concedersi un insolito viaggio nel dubbio» (Ranieri). Nel gennaio 1997, infatti, annunciò ufficialmente il ritiro. «“Non ero più il miglior Indurain, ma potevo essere anche competitivo. Avevo ancora un po’ di ciclismo nelle gambe, ma non ho mai rimpianto quella decisione. Era il momento giusto”. E adesso si annoia senza ciclismo? “Oh, no. In bici un po’ ci vado, ho le mie attività tra cui un negozio di articoli sportivi, faccio anche il giornalista per il quotidiano spagnolo Marca. Si fa sicuramente meno fatica che a pedalare. Poi, le gare le guardo alla televisione o a bordo strada”» (Scognamiglio). Da ultimo, il 5 aprile 2018 Induráin «è entrato a far parte della “Hall of Fame” del Giro d’Italia. Nella galleria storica di una corsa che Miguel ha contribuito a fare grande: tre partecipazioni, due vittorie. Dal 1992 al 1994, in quel periodo del Giro targato Mediaset, e che ha tenuto a battesimo un certo Marco Pantani. “Il ricordo più nitido che ho è quel giorno sul Mortirolo. Ho cercato di ribaltare la situazione, ho fatto di tutto per poter vincere il mio terzo Giro, e non ce l’ho fatta. Ho capito subito che Marco, in salita, era di un altro pianeta”» (Stagi) • Sposato, ha tre figli, tra cui Miguel (classe 1995), anch’egli ciclista. «A Miguel il ciclismo piace, ma io mi sono permesso di dargli un solo consiglio. “Pedala fino a quando ti diverti”, gli ho detto. “Ma, il giorno in cui non succederà più, resta a casa”» • «Un fisico "fuori categoria", che ha permesso a Indurain, nonostante gli 80 chili di peso, di tenere in salita il passo degli scalatori. Ecco i suoi segreti. Innanzitutto, il cuore. A riposo, batte soltanto 28 volte al minuto. Con punte di 195 al massimo dello sforzo, riusciva a pompare 47 litri di sangue al minuto. Appena conclusa una gara, i battiti scendevano intorno ai 60: e il recupero straordinario è stato un’arma fondamentale nelle grandi gare a tappe. Alla soglia di 165-170 battiti, la velocità era di 49 chilometri orari. L’altra qualità era la potenza. Da giovanissimo, Indurain praticava l’atletica, correva i 400 metri: a 17 anni aveva un tempo intorno ai 55". Già allora aveva sviluppato quelle doti di resistenza che gli hanno poi permesso di superare, in sella, fatiche estreme. Alla soglia, prima che i suoi muscoli venissero frenati dall’acido lattico, lo spagnolo raggiungeva 550 watt di potenza. Questo motore consentiva a Indurain di sviluppare più velocità e autonomia di un normale ciclomotore di 50 cc. Infine, la sua testa: raramente si è visto Indurain arrabbiato. Dalle sue origini, famiglia contadina di profonda fede cattolica, ha ereditato un grande senso di equilibrio. Mai ansioso, ha sublimato nelle prove a cronometro le eccezionali qualità di concentrazione» (Angelo Zomegnan). «A predire che nell’involucro c’era il campione, bastava levargli cinque chili, fu il dottor Conconi. Glieli levarono, e cominciò il regno. Miguel resta comunque il più pesante tra i vincitori del Tour. Quasi ottanta chili: non uno scherzo tirarli su per il Tourmalet o il Galibier. Anche per questo Miguel è stato grande» (Mura) • «Atleta con doti da passista scalatore, dava il meglio di sé nelle prove contro il tempo, e per tale motivo venne spesso accostato per caratteristiche a Jacques Anquetil. […] “La mia forza era ovviamente la cronometro, e per fortuna al tempo c’erano nei Grandi giri delle prove contro il tempo molto lunghe, anche di 100 km. La mia tattica è sempre stata quella di andar forte in queste tappe e poi difendermi nelle altre”» (Pegurri). «La terra, oltre al tempo, è una chiave per capire Indurain. Anche Moser era provvisto di una salda vena contadina, ma correva con più tensione, più rabbia. La serenità di Indurain fa venire in mente L’Angelus di Millet: manca solo una bici appoggiata a un covone» (Mura) • «Un protagonista della storia del ciclismo. […] Elegante in corsa, elegante nella vita, dal modo di fare di Indurain si evince una grande umiltà, cosa non da poco visto che siamo di fronte ad uno che ha vinto “appena” cinque Tour de France e due Giri d’Italia, centrando tra l’altro anche la grande accoppiata» (Luigi Panella). «Campione leggendario, capace di vincere […] con la semplicità e l’eleganza di chi è consapevole della propria forza, senza però mai ostentarla. […] Amava vincere Miguel, ma mai stravincere. Aveva rispetto di se stesso e degli avversari» (Stagi). «“Miguelón” Indurain: il gigante buono, la “forza tranquilla”. […] Aveva sempre parole buone per tutti: Bugno era stato solo “sfortunato”. Chiappucci si era “impegnato al massimo”. Vinceva lui, ma erano stati bravi gli altri. Da dare quasi sui nervi. Eppure era sincero. “Cosa volete che vi dica?”, rispondeva a giornalisti sgomenti delle sue poche parole dopo una vittoria stratosferica. […] Gianni Mura scrisse, non a caso, che Indurain era il “padrone buono” del Tour de France. Negli anni Novanta lo narcotizzava, dispensava parole buone per tutti gli avversari e alla fine lo portava a termine, ogni estate, con la maglia gialla, da grande campione. Lo fece 5 volte di fila. Poi alla sesta, come (quasi) tutti, ci andò a sbattere contro. Il Tour non perdona» (Giacomo Pellizzari). «Ho sbagliato a valutarlo, all’inizio del suo regno. Hanno sbagliato in molti, ma non cerco alibi. Mi pareva un altissimo esempio di ragioniere in sella, di amministratore accorto. Imbattibile a cronometro, gli bastava correre in vigile difesa sugli altri terreni. Ma non era tutto qui, l’avrei scoperto col tempo. Indurain era capace di cambiare tattica, e intanto continuava a vincere, e intanto cambiavano gli avversari, i punti di riferimento. Prima Bugno e Chiappucci (il più temuto, per la ringhiosa fantasia), poi a turno Zülle, Jaskula, Rominger, Virenque, Berzin, Pantani, Jalabert, Olano, Riis, e proprio Riis, l’ex gregario diventato campione (per tre settimane), […] aveva interrotto la serie dell’ex gregario diventato campione (per cinque anni). […] È stata una grande figura, in un ciclismo sempre più soffocato dal calendario, sempre più avvelenato da pratiche illecite e da sospetti non sempre giustificati (ma c’è sempre più umanità in tre settimane di Tour che in tre campionati di calcio). È stato grande nella purezza del gesto atletico (l’eleganza nella potenza) e grande nella semplicità, nella discrezione, nei silenzi del ruolo, nella dignità arcaica della sua democratica dittatura» (Mura). «Campione che non ha immolato un’unghia all’avventura, nutrimento indispensabile del ciclismo. Indurain non è somigliato a nessuno degli insigni interpreti di questo sport teatrale che, come lui, hanno vinto per cinque volte, sebbene non di seguito, la più importante corsa a tappe del mondo. Ed è certo che non gli è mai nemmeno passato per la mente di somigliare a Merckx, la cui voglia di successo aveva una tale temperatura da fondere ogni scrupolo, a Hinault, un dissodatore di ogni terreno, o all’affascinante Anquetil, che prima d’una tappa di montagna cenava a fagiano e champagne in compagnia di una bionda, né d’essere simile ad essi almeno nella capacità di accendere la passione delle folle. Ciò che renderà indimenticabile la presenza di Indurain nel ciclismo è il successo d’una scommessa inedita e, a suo modo, formidabile: trionfare al Tour senza mai piantare la bandiera sulla cima d’una montagna, senza mai tentare la fuga che fa battere i cuori, senza mai gettarsi in un’impresa magari impossibile che lo affratellasse anche soltanto per un pomeriggio ai mattatori del passato. Scartata l’idea di espandersi oltre i traguardi delle classiche, pesato alla perfezione se stesso, Miguel ha puntato tutti i suoi averi su di un unico numero: la cronometro. E insieme al suo maestro Echavarri ha con infinita pazienza costruito la bomba a orologeria che gli ha consentito di dominare, oltre a cinque Tour, due Giri d’Italia. Preso il comando della corsa e accumulato il vantaggio necessario a scavare il solco tra sé e gli avversari, Miguel è riuscito egregiamente ad amministrare il guadagno, lasciando non di rado ai bastonati rivali la consolazione di innocui successi, comunque buoni per salvare la faccia. Sino all’ultimo Tour, in cui s’è inaspettatamente riconosciuto a mezza via tra il coraggio e lo sgomento, in difficile equilibrio sulla propria fatica, tanto difficile da ritrovarsi a terra» (Ranieri) • «Nel palmarès di Indurain, le classiche latitano. "Ho vinto la Clásica di San Sebastián, ho fatto quarto alla Liegi, invece la Parigi-Roubaix l’ho corsa una volta sola, e non mi è piaciuta. […] A me piaceva e piace il caldo, e nel Nord Europa ad aprile ce n’è poco… Inoltre, non si può certo vincere tutto: io, ad esempio, ho provato un paio di volte a prendermi il mondiale, ma Bugno è sempre stato più forte in volata". […] Indurain ha avuto un idolo nel ciclismo? "Bernard Hinault su tutti"» (Panella). «Segue ancora il ciclismo? “Certo, anche se con tutte queste corse sparse per il mondo…”. Nostalgia dei suoi tempi? “Un po’ sì, perché allora c’ero anch’io fra i protagonisti e perché era meno dispersivo. Oggi si corre in Cina e Australia, Africa e America, ma io tornerei a privilegiare l’anima del ciclismo mondiale, che è e resta l’Europa”. Il ciclismo è cambiato molto? “Sì. Per i corridori è meglio, sono più seguiti, guadagnano mediamente di più, ma per i tifosi è più difficile: i loro idoli sono lontani, c’è più business ma meno umanità”. […] Chi la fece più soffrire quando correva? “Bugno era fortissimo anche a cronometro, Chiappucci partiva quando meno te l’aspettavi, poi Jalabert, Rominger e alla fine Pantani”. C’è oggi in giro un altro Indurain? “Froome, Dumoulin e prima ancora Contador mi assomigliano, perché vanno bene in salita e a cronometro”. […] Qualche rimpianto nella sua pur splendida carriera? “Sì, due. Non aver vinto il Mondiale [nella gara in linea – ndr], dopo due secondi posti e un terzo, e nemmeno la Vuelta, nella mia terra. Ma sono contento lo stesso, molto contento”» (Giorgio Viberti).