«Ammetto con umiltà che non conoscevo bene questa storia – ci racconta Cumberbatch al telefono da Londra, con i suoi modi impeccabili da gentleman inglese – ho dovuto documentarmi minuziosamente, e solo dopo numerose riflessioni con il regista sono riuscito a comprendere le loro molteplici fratture. Mi sono calato nei panni prima dell’uno e poi dell’altro. Ho pensato a Westinghouse come se fosse una sorta di eroica tartaruga, e a Edison come una lepre chiassosa. Un uomo che si divertiva a scioccare il mondo degli scettici illuminando Manhattan. Questo mi ha rilassato. E così ho potuto calarmi nel loro mondo».
Una febbre di vittoria che ha portato Edison in acque torbide.
«L’ironia di quest’uomo che contribuisce alla creazione della sedia elettrica per vincere la guerra della corrente, è davvero triste. Edison perde la sua bussola morale e smarrisce la strada. Infatti a un certo punto sul set, ho confessato ad Alfonso (Gomez-Rejon ndr) che stavo perdendo l’empatia con Edison. Lui mi ha risposto di guardarlo non come il cattivo, ma come “l’eroe caduto”. Così l’ho spogliato dalla sua immagine da Dio dell’industria alla Steve Jobs o Bill Gates e l’ho trasformato in un perdente amareggiato, capace però di scuotersi e rituffarsi nella ricerca di una nuova invenzione».
In realtà si dice che il vero genio fra loro fosse Tesla.
«Vero. Mentre Edison e Westinghouse riuscivano a vedere dieci anni avanti, lui arrivava fino a cento! Ma era straniero. La gente non capiva il suo accento serbo. Parlava come un profeta di cose rivoluzionarie, come l’energia senza fili. Era un veggente che ha osato andare oltre i limiti dello status quo. L’orribile lezione della storia è che troppo spesso ignoriamo questi talenti, solo perché sono stranieri o diversi».
Si è preparato anche fisicamente? Edison era sordo da un orecchio.
«Veramente la difficoltà non è stata quella di prepararmi alla sordità, perché Edison, nell’epoca in cui è ambientato il film, non aveva ancora perso totalmente l’udito, quindi non dovevo gridare: COSA? CHE?».
Eppure lei di sfide se ne intende. Da ragazzo ha insegnato inglese in un monastero tibetano.
«Volontario, pensi! Ho vissuto un anno e mezzo in un monastero, a contatto con i monaci, vivendo di privazioni e in un posto umido, con dei ragni enormi. Ma ero concentrato e devoto alla mia missione, fino a quando un monaco mi disse: “Non punire te stesso. Stai per diventare uno studente universitario. Devi avere le tue esperienze e divertirti, e non sentirti in colpa”. L’ho preso alla lettera, sono tornato a casa e ho dimenticato ogni privazione in fretta, frequentando tutte, ma proprio tutte, le feste del college».
Cosa pensa succederà, da qui ai prossimi mesi, nel Regno Unito post-Brexit?
«Sinceramente non lo so e non me lo immagino. Ho votato per restare in Europa ma rispetto le ragioni di chi ha votato per andarsene. Lo hanno fatto credendo a chi gli assicurava che questo voto avrebbe portato un cambiamento, sul fronte dei redditi e della sicurezza. Non otterranno ciò che vogliono. Di questo dobbiamo esserne consapevoli, tutti noi inglesi. Cominciando finalmente ad affrontare e non a nascondere i problemi».