Tuttolibri, 13 luglio 2019
Riscoprire Maffeo Pantaleoni
Si cessi di trasformare il mondo in un manicomio». I governi non sanno garantire l’ordine pubblico, «la stretta osservanza della validità delle contrattazioni» e neppure la stabilità del diritto. In compenso gestiscono (male) imprese le più diverse, creano monopoli e privilegi ai danni dei consumatori, sfiancano l’iniziativa privata regolamento dopo regolamento, si sostituiscono al mercato nel decidere quale sia «il prezzo giusto» per un certo bene o servizio. La divisione del lavoro, cioè «la macchina più potente della quale disponga l’umanità», ne esce distrutta.
Questa parole di Maffeo Pantaleoni risalgono al 1920, la guerra è appena finita, la sfida «della ripresa economica e della ricostruzione» ha bisogno, secondo l’economista marchigiano, di una cosa soltanto: che si cessi, appunto, «di procedere alla trasformazione del mondo in un manicomio». A cent’anni di distanza, sappiamo che l’auspicio di Pantaleoni è stato vano: non c’è shock dal quale un Paese si sia ripreso limitando le proprie aspettative circa compiti e attività dello Stato, che anzi, di crisi in crisi, si sono moltiplicate. Contribuendo ogni volta a preparare il crac successivo.
Proprio Il manicomio del mondo s’intitola l’antologia di Pantaleoni che Liberilibri ha appena dato alle stampe. Il libro riprende, con una nuova Prefazione di Manuela Mosca, un testo curato, nel 1976, da Sergio Ricossa per l’editore Volpe. Ricossa fece un lavoro di taglio e cucito: dalla produzione pantaleoniana trasse alcuni brani, rimontandoli a formare 27 capitoli, veloci e densi. L’obiettivo era offrire «un antipasto che stuzzichi a leggere integralmente gli scritti pantaleoniani», allora come oggi di difficile reperimento. Ricossa, economista dall’italiano inarrivabile, luminoso e tagliente all’occorrenza, fa l’editor di Pantaleoni, lo strizza in una sintesi che chiarifica e non sottrae nulla al suo ragionare.
Nato nel 1857, figlio di Diomede, personaggio di prima fila del Risorgimento, Maffeo affrontò «una vita accademica travagliata da dimissioni ripetute», scrive Manuela Mosca, fino all’approdo all’ateneo romano nel 1901. Fu legato da una intensa amicizia a Vilfredo Pareto, con cui ebbe scambi fittissimi. Era un uomo di carattere, che ingaggiò battaglia con l’establishment italiano negli anni di Crispi e poi di Giolitti. Alla corruzione dilagante, che produceva rendite e privilegi, rigorosamente in nome dell’«interesse nazionale», Pantaleoni e gli studiosi riuniti attorno al Giornale degli economisti contrapponevano le tesi della libera concorrenza; il mercato, e non il favore del capo politico, come giudice delle iniziative che vanno e di quelle che non vanno. La classe dirigente italiana aveva scarsa propensione a farsi scavare da gocce tanto argomentate quanto polemiche. Pantaleoni gestì le sue amarezze cercando alleanze improbabili e senza riuscire a governare i suoi demoni, al punto da finire nazionalista fra i più accesi. Morì nel 1924, senatore del Regno, dopo aver guardato con favore al primo fascismo.
Di Pantaleoni, Ricossa volle mettere al centro le intuizioni geniali (riconosciute anche all’estero) e non le involuzioni ideologiche.
Lo studioso piemontese, all’epoca, aveva appena pubblicato Storia della fatica, in cui dava conto degli straordinari miglioramenti, negli standard di vita, seguiti alla Rivoluzione industriale. La questione era assai cara a Maffeo Pantaleoni al quale è difficile non riconoscere di avere compreso perfettamente il dinamismo di un’economia moderna, il suo costante produrre novità. Citando William Mallock, Pantaleoni ricorda che in Inghilterra «le classi lavoratrici del 1896 si sono trovate a stare in una posizione pecuniaria più vantaggiosa di quella che avrebbero avuto i loro padri se avessero potuto espropriare tutti quanti nel 1850». L’industrializzazione avrà forse «ridotto – e non so se ciò sia, e se è, in che misura, – altre forme di felicità umana» ma «ha portato quella che consiste in benessere economico a fastigi, che la storia mai prima conobbe».
Paladino del progresso, Pantaleoni sapeva bene quant’è fragile. Esso può finire vittima del «terrore» delle masse, inquietate dal cambiamento, e più in generale di tutte le idee che inducono a cedere libertà. Fra queste, anche il principio per cui la nostra prosperità sarebbe messa a repentaglio da una maggiore densità della popolazione. E’ «una opinione di origine socialista che siavi un maximum di popolazione compatibile con la conservazione di un certo tenor di vita in un certo territorio». Che solo «una quantità fissa di popolazione» sia «quella che acconsenta un maximum di benessere» era idea che allora stava alla base della «xenofobia americana», la quale architettava schemi per impedire, ad esempio, l’immigrazione cinese.
Al contrario, il progresso regge solo se chi produce novità può continuare a trarne vantaggio. «Non v’è gioia», rifletteva Pantaleoni, «che un inventore o iniziatore accetterebbe di barattare contro quella che deriva dalla sua convinzione di aver operato bene».
Il segreto dei miglioramenti risiede nell’inventiva, e il segreto dell’inventiva risiede nella concorrenza. «Ogni atto di concorrenza è una nuova invenzione. (…) È la sostituzione di una cosa producente un effetto utile a un’altra, con risparmio di costo. È la sorgente più energetica di dinamismo sociale. È il più forte demolitore di ogni specie di posizione acquisita». Si capisce che i detentori delle posizioni acquisite le difendano come possono: ma fanno tanti più danni quanto più sono bravi a travestire, con formule alate, i propri interessi.