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 2019  luglio 13 Sabato calendario

Perché Haneke fa film crudeli

Pur avendo vinto importanti premi in tutto il mondo (compreso il più ambito, la statuetta dell’Oscar, cui vanno aggiunte quattro Palme d’oro a Cannes), Michael Haneke è straordinariamente parco di interviste. E le poche volte che si è concesso in pubblico è stato laconico, quasi sprezzante. Quando nel 2017 il suo film Happy End fu proiettato al festival di Cannes, Haneke si presentò alla conferenza stampa successiva alla presentazione del film premettendo: «Io so che la gente ha paura di me perché non ho humour, perché racconto storie sgradevoli, perché non sono divertente. Lo so perfettamente, e questo mi diverte molto». Anche i grandi attori che han lavorato con lui (per citarne qualcuno: Jean-Louis Trintignant, Isabelle Huppert, Naomi Watts, Emmanuelle Riva…) sono molto laconici sui colloqui che sono intercorsi con il regista austriaco. Solo Jessica Chastain ha un giorno dichiarato di aver trascorso con Haneke il miglior week-end della sua vita, dialogando ininterrottamente «di cinema e di vita». E quando l’attrice americana rilasciò quella dichiarazione, incominciò a diffondersi tra gli appassionati di cinema la convinzione che Haneke, solito raccontare per immagini, aveva forse molto da raccontare anche con le parole, con quelle parole che abitualmente nelle occasioni ufficiali gli uscivano con il contagocce. Tutto dipendeva dal grado di confidenza che si fosse riuscito a creare con il regista austriaco. 
Due storiche firme della rivista Positif sono riuscite per prime nell’intento. Non ho niente da nascondere, in uscita in Italia per i tipi di Il Saggiatore, è il secondo libro-intervista che i due studiosi francesi Michel Cieutat e Philippe Rouyer hanno dedicato al regista di Funny Games. Ed è evidente che Haneke di loro si fida e con loro si mostra disponibile a svelare il percorso che lo ha portato a dirigere alcuni dei film più originali (e disturbanti) del cinema contemporaneo. Un percorso che si apre con un riassunto dei suoi inizi come critico cinematografico, dimostrando un certo amore per la storia del cinema (ma confermando che i riferimenti che di solito vengono fatti parlando del suo cinema, da Robert Bresson e Ingmar Bergman a Stanley Kubrick, non occupano un posto così importante nel suo immaginario). Nelle sue parole ha uno spazio molto più sensibile la sua vocazione religiosa, tormentata e contraddittoria e proprio per questo capace di scandire profondamente gli anni della sua formazione. Gli amanti della filologia autoriale saranno colpiti dal parallelismo tra i suoi lavori televisivi e il primo successo internazionale, Benny’s Video, che già lo colloca sotto il segno della provocazione e dello scandalo. Ma con molto maggiore trasporto Haneke spiega come ha costruito la sua poetica e quale importanza abbia la costruzione dell’immagine nel suo cinema. 
E l’immagine, per Haneke, è un mix inscindibile di colore e di sonoro. Il colore può essere importante quando è esibito (ad esempio quel bianco accecante e ostile proprio perché l’occhio rimanda al candore mentre la storia di Funny Games va in tutt’altra direzione) e anche quando è completamente assente (come è il caso di Il nastro bianco, nel quale la fotografia in bianco e nero – con il bianco decisamente dominante – serve a raccontare come la violenza introiettata da giovanissimi scandisca poi la vita personale e quella collettiva prendendo come punto di partenza la gretta vita quotidiana di un villaggio tedesco nei giorni che precedono il primo conflitto mondiale). Ma il colore è solo una parte nella costruzione dell’immagine. Il sonoro è altrettanto importante, e Haneke racconta con quale cura ci lavora. I risultati sono tangibili. Il remake americano di Funny Games (uno dei pochi casi che vedono un regista fare un remake di un suo film – ma Haneke è comunque in buona compagnia, insieme a Alfred Hitchcock, a Raoul Walsh, a Mario Camerini, a Raffaello Matarazzo…), ad esempio, si apre con un salto di commento musicale (da Pietro Mascagni ai Naked City, dalla Cavalleria Rusticana interpretata da Renata Tebaldi a Bonehead orchestrata da John Zorn e Bill Frisell) capace di farci capire che dietro la quiete di quella famiglia in gita si cela un orrore che presto sommergerà tutto. 
Il flusso di immagini nel racconto di Haneke è continuo, puntuale, preciso. E sembra quasi una continua provocazione nel confronti del cinefilo che è in noi, molto interessato ad esempio a sapere quali rapporti ha avuto Haneke con gli attori che hanno condiviso il suo percorso. 
Le curiosità vengono esaudite, ma è evidente che l’interesse sta da un’altra parte. Ad Haneke interessa rompere la crosta di perbenismo e di conformismo che regola le nostre relazioni, ben sapendo come è organizzata la vita sociale oggi. Proprio come nel dialogo più surreale e al tempo stesso più significativo di Funny Games, quando Naomi Watts domanda ai suoi torturatori: «Perché non ci uccidete subito?» ricevendo come algida risposta: «Lei sottovaluta l’importanza dello spettacolo, signora».