Tuttolibri, 13 luglio 2019
L’amicizia tra Pound e Joyce
«A che punto è Ulisse? Non lo affretti, per dio. MA se fosse abbastanza abbozzato, potrebbe mandarne una bozza o una sinossi o una cosa così… Spero abbia ricevuto le 20£ che le ho mandato la settimana scorsa». In questo breve scambio epistolare tra Pound e Joyce – siamo in piena Prima Guerra Mondiale, tra il 1° e il 7 agosto del 1916 – è ben riassunto il rapporto tra due dei maggiori scrittori del Novecento.
Non ci sarebbe stato Ulisse senza l’interesse del grande poeta americano. Ma il capolavoro di Joyce è tra i testi più contrari al pregiudizio antisemita; e si sa che in futuro Pound si sarebbe espresso così nei confronti del popolo ebraico: «gli ebrei hanno rovinato ogni paese di cui si sono impossessati». Parole simili a quelle di un protestante irlandese protosovranista che in Ulisse dice: «L’Inghilterra è in mano agli ebrei […] Ovunque si riuniscano, fagocitano la forza vitale di una nazione». Ma per fortuna lì nel libro c’è l’ebreo Bloom a rimettere tutto a posto.
Come conciliare le due cose? Dal carteggio con Joyce emerge l’incancellabile affetto di Pound per l’irlandese, ma anche la volontà di sostenerlo economicamente e moralmente in tutti i modi possibili; e persino un qualche raffreddamento nei rapporti tra i due a partire dai primi anni trenta.
Ma in precedenza fu grazie allo slancio di Pound se, sia del Dedalus che di importanti sezioni di Ulisse furono pubblicate in rivista; e se nel primo, il poeta americano vedeva un esempio senza pari di prosa inglese, nel secondo scorse l’onestà intellettuale e il genio. Lo considerava: «la sua opera più profonda, la più significativa… Ulisse, oscuro, perfino osceno, come la vita stessa è oscena alle volte, ma una appassionata meditazione sulla vita».
Pound paragonava Joyce al Flaubert di Bouvard e Pécuchet e disse che si era «allontanato dall’autobiografia» per creare una figura in tutto vitale, capace di confrontarsi con la «vita, la morte, la resurrezione, l’immortalità»: l’ebreo Bloom.
Davvero difficile, allora, immaginare il perché alla morte dell’amico, in uno dei discorsi da Radio Roma inclusi nel libro, egli non abbia trovato quantomeno incongruo mettersi a celebrare la grandezza di Joyce al fianco di quella «del genio di Hitler e Mussolini».
I due dittatori Joyce li aveva canzonati a più riprese, ad esempio ribattezzando il mascella «Muscoloni», ma anche, con un gioco di parole che ci parla di imprevedibilità, trasformando il Führer perfino in una «signorina»: «Ho paura che il povero Mr Hitler‑Missler resterà presto con ben pochi ammiratori in Europa se si escludono le Sue e i miei nipoti, Mastro W. Lewis e Mastro E. Pound».
Vero è che da quando Joyce si era imbarcato nella sua opera fantasmagorica, quel Work in Progress che sarebbe diventato Finnegans Wake, Pound aveva smesso di osannarne l’opera. Per lui quella era letteratura che non affrontava più i problemi del reale. Ma sostenendo ciò, non capiva che per Joyce la realtà non era solo il tangibile, ma anche l’invisibile e l’immateriale. Joyce aveva compiuto un salto nell’ignoto, nel notturno, per controbilanciare il suo lavoro diurno precedente, Ulisse.
Secondo Pound, invece, nell’ultimo decennio (siamo nel 1933) l’amico si era «dedicato agli esperimenti, cosa che probabilmente interessa lui e quei gruppi di scrittori convinti di poter imparare qualcosa da tali pratiche».
In realtà, il fastidio per ogni letteratura psicologizzante apparteneva a tanti commentatori vicini al fascismo. In una lettera a McAlmon del 2 febbraio 1934 (dodicesimo compleanno di Ulisse e cinquantaduesimo di Joyce), Pound scrive: «Secondo me tutto questo scrivere romanzi egoistici psicologici si è afflosciato perché la gente che continua a imitare Dostoevskij e tutti quegli altri maledetti non vogliono guardare in faccia la realtà… E questo è quanto. J[ames] J[oyce] ubriaco non è più interessante di qualunque altro ubriaco, dannazione».
Joyce si stupì sempre di un simile atteggiamento: «confesso che non capisco certi miei critici, come Pound e la signorina Weaver, per esempio. Dicono che è oscuro. Naturalmente lo confrontano con Ulysses».
La realtà inconfessata, probabilmente, è che se Pound aveva per molti anni dimostrato grande trasporto per le opere di Joyce, l’irlandese non aveva sempre ricambiato; e com’è stato argomentato, a lui l’ultima produzione di Pound non interessava affatto, e con tutta probabilità non l’aveva letta.
Ma tra le righe, in queste lettere, si evince che Pound era eccome affascinato dai funambolismi di Joyce, e in alcune ne imita persino lo stile «finneganiano». Da ciò emerge una sintonia d’intenti, ma anche un’indelebile amicizia.
L’incipit di una missiva del dicembre 1931 (anno X, ci tiene a specificare Pound) è: «Caro Gesummio Aloisio Crisostomo». Pound continuò a chiamare Joyce «Gesummio» anche dopo; e nel 1937, quando l’irlandese gli chiese il favore di far firmare da Hauptman la sua traduzione giovanile di Michael Kramer, Pound rispose tra il divertito e il rancoroso: «Mandami il dannato libro qui e quando sua signoria verrà da me glielo piazzerò davanti sul tavolino del caffé e gli dirò che il graaaande Gesù James, il Joyce in excelsis, gioisisce in excelsis, vuole che gli angeli del Natale glielo firmino».
Un rapporto come quello tra Pound e Joyce, pur messo alla prova dalle diverse sensibilità politiche, non poteva davvero morire nel nulla; e questo soprattutto grazie alla forza della letteratura: Pound sapeva bene di aver regalato al mondo, col suo sostegno all’irlandese, un’opera immortale come Ulisse, «un compendio dell’Europa prebellica, l’oscurità la confusione e il subbuglio di una “civiltà” guidata da forze mascherate e giornalisti corrotti, il generale pressappochismo, la piaga dell’intelligenza individuale in un tale subbuglio! Bloom è proprio quel subbuglio». E di questo suo riconoscimento, Joyce non smise mai di essergli grato.