Corriere della Sera, 13 luglio 2019
Intervista a Lucio de Risi
Lucio de Risi è nato a Napoli.
Che quasi tutti i cittadini del mondo utilizzino la Rete è ormai una banalità. Meno banale è sapere fino a che punto dobbiamo dipendere da essa. Se come individui viviamo in un intreccio di applicazioni informatiche che spesso ci sorvegliano e non possiamo farci molto, un’azienda, soprattutto se grande, deve porsi alcune domande.
Come gestire migliaia di applicazioni? Come riorganizzare i servizi informatici parallelamente al proprio sviluppo? Come garantire il massimo di semplicità e di protezione dei dati?
Lucio de Risi, napoletano di 66 anni, si era già posto il problema mentre prendeva il master in computer science all’Università di Philadelphia, dopo la laurea in ingegneria al Politecnico di Napoli. Siccome, come sosteneva Wittgestein, a problemi complessi corrispondono soluzioni semplici – basta saperle costruire —, de Risi inventò il «software per i software» che, detto così, sembra un gioco di parole ma non lo è.
«In pratica – dice oggi, nel suo ufficio di Parigi – abbiamo costruito un sistema che ottimizza l’informatica al servizio delle rapide trasformazioni del business e della produttività. Pensiamo a imprese che diventano digitali e devono gestire migliaia di applicazioni. Applicazioni che si sovrappongono dopo fusioni o acquisizioni. Allora si comprende la necessità di una piattaforma, di un “cervello”, che uniformi e assicuri gestione e sviluppo. Possiamo definirci come un’impresa di architettura che fornisce un software per pianificare cambiamenti, realizzare simulazioni e quindi prendere decisioni».
Così è nata Mega, oggi leader mondiale, 350 dipendenti (ingegneri o business school) in cinque continenti, riconoscimenti internazionali e un portafoglio clienti che soltanto a nominarne alcuni dà l’idea dell’importanza strategica dei servizi e delle consulenze fornite: i ministeri della Difesa francese e americano, le Ferrovie e le Poste italiane, Ikea, oltre a grandi banche e imprese editoriali. Impresa leader, ma familiare. Luca, primogenito di de Risi, dirige la filiale di Singapore, mentre Vittorio completa il master alla Businnes School di Shangai e Tullia è dermatologa specialista in allergie a Parigi.
Mega è nata e si è sviluppata in Francia, dove de Risi vive da quasi quarant’anni. Scelta d’amore, prima che strategica o commerciale. «A Philadelphia, avevo affittato una casa con altri studenti, di diverse nazionalità. Incontrai una giovane francese, Veronique. Credo di essermi innamorato subito, tanto da raggiungerla a Parigi. Ci siamo fidanzati e siamo sposati da trentacinque anni. Vivevamo in uno “studio” di 28 metri quadri, in un quartiere di periferia e mi sono detto che bisognava rapidamente cercare di aumentare il numero di metri quadri disponibili. Ho sempre pensato che per fare qualcosa di buono bisognasse saper cambiare e innovare, ma che ci vuole comunque tanto lavoro... e il tempo libero arriva un po’ più tardi».
Come lo passa?
«Ho deciso di prenderne un po’: mi interessa l’arte e do una mano alle nuove generazioni di imprenditori, partecipando a vari incubatori di start-up. Sono avventure appassionanti anche se purtroppo molti giovani di talento sembra vogliano vendere rapidamente l’impresa invece di svilupparla».
Mio nonno e mio padre erano imprenditori e producevano scarpe per l’esercito e la polizia
Lucio de Risi è anche responsabile di un’associazione culturale a Loches, nella regione dei Castelli della Loira. Fra le iniziative sostenute dall’associazione la ricerca della tomba – finalmente ritrovata – di Ludovico Sforza, che fu prigioniero a Loches prima di morire.
E poi il sogno di organizzare qui un’esposizione del tesoro di San Gennaro e un atelier interattivo di capolavori napoletani: «Sono rimasto un napoletano doc, di quelli che ogni volta che tornano a Napoli si commuovono. L’umanità, l’ironia, l’immediatezza dei rapporti non hanno paragoni al mondo. E San Gennaro...».
Lasciare l’Italia non era previsto.
«Mio nonno e mio padre erano imprenditori e producevano scarpe per l’esercito e la polizia. Non me ne sono andato per bisogno. Vinsi una borsa di studio della Fulbright Association e partii per Philadelphia. Poi Parigi, in una filiale di una società americana di consulenza. Mi offrirono di occuparmi dello sviluppo di un software innovativo. Quando la società fu acquisita da Cap-Gemini, il più grande gruppo d’informatica francese, decisi di prendere qualche rischio, rilevare il software e mettermi in proprio. Allora eravamo dei pionieri un po’ avventurosi, una decina, fra tecnici e ingegneri». E de Risi era l’unico italiano in terra francese. «Per di più napoletano! Non è un luogo comune ricordare una certa diffidenza, un’aria quasi di sorpresa, soprattutto quando ti rivolgi a un francese e ti metti a parlare di tecnologia. Quante volte mi sono sentito fare domande sulla camorra e sulla monnezza! Ma è comprensibile, dato che la cultura popolare, il cinema, i giornali rafforzano stereotipi, come se Napoli non fosse anche bellissima, magica, piena di tesori e di cultura. Tuttavia, sono ricordi di attimi. Non ho mai avvertito ostilità. Al contrario, la sorpresa iniziale si tramuta in stima, perché le idee e le competenze sono apprezzate. È un po’ il destino dei napoletani all’estero. Una ventina di anni fa ho avuto un controllo fiscale dopo un investimento significativo per l’apertura della nostra filiale americana. I funzionari del fisco non riuscivano a convincersi che la filiale non fosse una sorta di ufficio fantasma per amici americani di un napoletano. Una trama facilmente immaginabile. “So che cosa pensate – dissi ai funzionari, in una riunione al ministero delle Finanze che sembrava un processo – ma allora perché non andate a verificare e poi mi lasciate in pace?”. Finalmente si convinsero, con tante scuse. Erano però passati due anni».
Poi solo successi e attestati, nonostante concorrenza agguerrita...
«La struttura aziendale è piccola ed è concentrata su una nicchia di mercato dove storicamente siamo i più forti. Il nostro mestiere deriva dalla necessità per le aziende di gestire una trasformazione digitale continua, la cui complessità richiede un software che le accompagni nelle varie fasi di cambiamento. Poi abbiamo completato l’attività creando sistemi per la gestione dei rischi, controlli, normative, ambiti in cui si riassumono molte nuove sfide presenti e future».
Già, il futuro. Privacy, intrusioni, manipolazioni, fake news: siamo tutti esposti a rischi, siamo tutti ignari fornitori di dati ai colossi dell’informatica che ci hanno catturato con un giocattolo gratuito, come i selvaggi incantati dalle sveglie e dagli alcolici «regalati» dai colonizzatori.
L’informatica riduce le differenze sociali, ma può essere uno strumento di controllo
«È un po’ così. A volte ci si sente come il dottor Jekyll e mister Hyde, con la sensazione di avere creato il meglio e il peggio. L’informatica è alla portata di tutti, riduce le differenze sociali, permette informazione, istruzioni, automazione, crescita culturale in ogni parte del mondo. Ma al tempo stesso può essere un mostruoso strumento di controllo e intossicazione dell’opinione pubblica. La Brexit è l’esempio più recente di scenari che possono essere catastrofici. L’intelligenza artificiale è in grado di leggere emozioni, gusti, tendenze e rielaborarle. E siamo solo all’inizio di una nuova rivoluzione. Certo, un software può bloccare le false informazioni, ma chi deciderebbe della censura? I cinesi lo possono fare e infatti nessuno ha sentito parlare in Cina dell’anniversario di Tienanmen, ma chi si prende la responsabilità in sistemi democratici? Ci deve essere una ricetta per fare rientrare le cose nel vaso di Pandora. Penso che la possiamo cercare solo in ambito europeo, dentro un modello politico e sociale, ingiustamente criticato, l’unico che possa proteggerci e continuare a farci sentire indipendenti».