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 2019  luglio 13 Sabato calendario

Tre libri sulla figura ambigua del capo

Da sempre la figura del «N. 1» conta tanto, in politica e in economia. Ma mai come nella nostra postmodernità la leadership è diventata oggetto di attenzione collettiva, e viene considerata un attributo indispensabile per governare processi e organizzazioni. E, così, assistiamo all’irrompere, e al rapido consumarsi, di leadership «intermittenti», che durano magari soltanto «lo spazio di un mattino». Leadership conquistate, sempre più spesso, sui social e a colpi di like, anziché sul campo. E vediamo il dilagare, dopo il marketing politico, dello storytelling, al punto che il successo di queste leadership «liquide» si gioca molto sulla costruzione di narrazioni seduttive (come mostra Sofia Ventura nel suo ultimo libro, I leader e le loro storie, il Mulino, pp. 312 €26, presentato in anteprima a febbraio su La Stampa). E per abbagliare e inebriare, in questa fase storica, paga sempre di più la postura populista e anti-establishment, quella dei tanti leader – da Marine Le Pen a Nigel Farage, fino a Matteo Salvini – raccontati dal giornalista e studioso Carlo Muzzi in Euroscettici (Le Monnier, pp. 178 €14).
E la leadership è anche, naturalmente, tematica di studio per la psicologia, che l’ha affrontata in modo copioso in questi anni specialmente sul versante aziendale. Ecco perché si rivela una lettura opportuna il volume di un’autentica autorità in materia, Manfred F. R. Kets de Vries, psicanalista e docente di Gestione delle risorse umane all’Insead di Fontainebleau (una delle principali business school del mondo). In Leader, giullari e impostori (Raffaello Cortina, pp. 269 €16), sulla scorta di Sigmund Freud, l’autore si dedica a smontare la visione della razionalità manageriale applicata alla leadership. 
Un assunto che de Vries ritiene valido per qualunque tipo di impresa, tanto economica che politica, e che sviluppa, da psicoterapeuta, in chiave clinica, sottolineando quanto le motivazioni inconsce e la realtà intrapsichica giochino un ruolo decisivo anche nella testa di chi prende decisioni. Insomma, non siamo dalle parti delle «sorti magnifiche e progressive» della «leadership trasformazionale» sviluppata nel 1985 dallo studioso di modelli organizzativi Bernard Bass (1925-2007), quella basata su un’alleanza autentica tra leader e follower, dove la fiducia viene costantemente rinnovata e coincide, per citare (e parafrasare) Ernest Renan, con una sorta di «plebiscito di tutti i giorni». No, lo psicanalista – che fa iniziare gli studi sulla questione con La Repubblica di Platone – preferisce esporre il dark side della problematica per mettere in guardia i lettori (e i cittadini), documentando quanto si riveli faticosa, se non impervia, la strada che conduce all’affermazione di una leadership equilibrata e positiva. Ancor più in questi nostri giorni di trionfo della disintermediazione, dove la propensione biologica al comportamento gregario si sposa con l’imperialismo della comunicazione.
Ecco perché l’autore punta, invece, ad «andare ai fondamentali», e alle radici psicologiche della leadership. Freudianamente, de Vries interpreta la relazione tra il leader e il gregario nei termini di un «transfert idealizzante», una proiezione per cui il secondo, per sentirsi più protetto (analogamente a quello che fa il figlio con il padre), sovraccarica il primo di talenti, qualità e poteri. Questa identificazione, fondata su una forma di rispecchiamento personale, la si ritrova oggi abbondantemente in politica, ed è alla base della creazione di universi fittizi e aspettative illusorie che permangono, nonostante attraverso il dato di realtà si manifesti il contrario di quanto affermato dal leader.
Un’altra patologia, in questo caso interamente del leader, viene da un’infanzia e un’età evolutiva in cui il futuro capo abbia avvertito una difformità tra il suo bisogno di protezione e il livello delle cure parentali: ne deriveranno una fame inesauribile di potere e una serie di «fantasie consolatorie di onnipotenza». 
La tipologia è quella del leader narcisistico, agli antipodi di un altro personaggio molto problematico quando arriva al potere, che l’urbanista William H. Whyte descrisse già nel 1956 nel libro L’uomo dell’organizzazione. Ossia il dirigente grigio e noioso, indispensabile al funzionamento organizzativo, ma affetto da alessitimia come indica de Vries, l’«incapacità di esprimere sentimenti». E, quindi, vocato a soffocare la creatività altrui per evitare il benché minimo rischio di conflitto, e a convertire qualunque cosa in procedura e routine. 
Poi ci sono la «legge del taglione», che viene applicata dal leader sulla via del ritiro, e il «complesso dell’edificio» di chi, sul viale del tramonto, rimane attaccato al potere il più a lungo possibile. E le distorsioni non finiscono qui. Con un solo antidoto all’arroganza del potere: l’umorismo. Servono, sostiene de Vries, delle figure di «giullari organizzativi», anche se oggi non hanno vita facile.