Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  giugno 25 Martedì calendario

Sapore di sale, l’estate del 1963

Eppure è l’anti tormentone. Da decenni Sapore di sale è la password dell’estate, dei «giorni che passano pigri» e «lasciano in bocca il gusto del sale», ma nessuno, tantomeno Gino Paoli che la lanciò nel 1963, pensava sarebbe diventato il primo tormentone del pop italiano. Troppo malinconico. Troppo introspettivo. E non solo perché, si dice, era dedicato all’amore sofferto e contestato con Stefania Sandrelli. «Un gusto un po’ amaro, di cose perdute, di cose lasciate, lontano da noi, dove il mondo è diverso, diverso da qui». Sapore di sale è andata al primo posto della hit parade nell’agosto del 1963 ed è stata la colonna sonora di una delle prime estati nella quale gli italiani si siano permessi finalmente le vacanze al mare dopo averle viste soltanto nei film di Billy Wilder con Marilyn Monroe. Diciott’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, con le rovine che ancora sfiguravano le periferie metropolitane. Un’estate crocevia del futuro, anche se nessuno allora avrebbe potuto prevederlo.
Mentre i torpedoni si riempivano per raggiungere Fregene o Arenzano, gli economisti consideravano finito il boom economico che aveva rianimato l’Italia, ma la gente iniziava a trasformare in benessere quotidiano i sacrifici degli anni precedenti. L’atmosfera era leggera. La politica non era spettacolare come siamo abituati oggi, anzi. E il profilo della Democrazia Cristiana era incompatibile con quel chiasso che adesso immancabilmente riempie l’informazione e trasforma ogni politico in popstar obbligata a ritualità da primadonna. I giornali, ad esempio, si occupavano pochissimo del governo Fanfani IV che, come da prassi, cadde alla vigilia dell’estate per lasciare spazio al governo balneare di Giovanni Leone che, a sua volta, cadde prima di Natale. Era un rituale cui i cittadini erano già assuefatti e per lo più indifferenti, complice anche una informazione molto meno capillare e invasiva di oggi. Il presidente del Consiglio che succedette a Leone, ossia Aldo Moro, poteva camminare tranquillo per la strada senza essere pedinato da paparazzi o curiosi oppure starsene in spiaggia con la famiglia senza rinchiudersi in qualche gazebo extralusso. Gli italiani, appena usciti dal neorealismo, non erano ancora surreali come molte volte dimostrano di essere in questi tempi di assestamento sociale. E le vere star popolari erano altre.
Il 1963 è l’anno di Calimero, il pulcino nero che diventa in breve la mascotte degli italiani e con Carosello inizia a scandire le loro serate nei pochi, fragorosi televisoroni che riempivano bar e tinelli. Mentre Betty Friedan, influenzata da Simone de Beauvoir, pubblica La mistica della femminilità, anche Pier Paolo Pasolini lascia intravedere nelle interviste di Comizi d’amore che i germogli del ’68 stavano già spuntando nell’opinione pubblica. Al cinema debutta Lina Wertmüller ed escono Il Gattopardo di Visconti e Otto e mezzo di Fellini, ma il pubblico stravede per Totò, Gassman, Sordi, Tognazzi e la commedia che fotografava illusioni e tic di borghesia e proletariato con la pensosa e inarrivabile leggerezza tuttora attuale. Invece la musica leggera intercettava assai vagamente i tormenti sociali. Non poteva, era impaludata in stilemi melodrammatici che da poco la scuola genovese di Paoli e De André (e prima ancora i Cantacronache di Italo Calvino) provava a bonificare.
Mentre Paoli stava lavorando a Sapore di sale, a Roma morì Giovanni XXIII e, poche settimane dopo, arrivò John Fitzgerald Kennedy: il presidente della Repubblica Gronchi lo accolse al Quirinale mentre la moglie Carla abbracciava la first lady Jacqueline, quasi due mondi opposti. Anche Sapore di sale racconta due mondi lontani e quasi incompatibili, come Gino Paoli ha confermato a Massimo Gramellini su Rai3: «Avevo trascorso un mese a Capo d’Orlando, tra barche e pesce grigliato in spiaggia poi, quando sono tornato a casa, ho capito che vivevo in un posto che non mi piaceva, mentre Capo d’Orlando sì che mi piaceva. Così è nata Sapore di sale».
Il brano sembra semplice, quasi didascalico, invece è un tesoro. L’arrangiatore è Ennio Morricone, l’assolo centrale di sax è di un ragazzo che diventerà un fenomeno, ossia Gato Barbieri, e le dissonanze che spuntano qui e là nel tessuto musicale sono il segno di una scrittura decisamente innovativa.
Ora, certo, nell’immaginario di tanti Sapore di sale è stato assorbito dall’iconografia pop di Sapore di mare di Vanzina, film cult del 1983. Però nel suo brano Gino Paoli non pensava a quella nostalgia canaglia di un’epoca che è poi il leit motiv del film con Jerry Calà e Christian De Sica. Il Sapore di sale che quel cantautore nascosto dietro gli occhiali neri cantava sempre assorto era quello di un ricordo fresco che i versi gli facevano rivivere, qualcosa che stava assaporando ancora sulla pelle e non sfogliando l’album dei ricordi. L’11 luglio, mentre Sapore di sale volava in classifica, Gino Paoli si sparò con la sua Derringer calibro 5. Un colpo al cuore, ma anche un colpo di fortuna. Qualche millimetro più a sinistra e sarebbe finita lì la storia di un ragazzo di Monfalcone, classe 1934, che a Genova scoprì il jazz grazie ai «V disc» dei marines americani e, mentre dipingeva i suoi quadri, era diventato la rivelazione della canzone d’autore. Ospedale. Riabilitazione. Polemiche. Da allora il proiettile non si è più levato dal suo cantuccio: «Si conficcò nel pericardio, dov’è tuttora incapsulato», ha spiegato Gino Paoli che di quel proiettile è ormai il miglior amico. Cinquantasei anni dopo, canta Sapore di sale come forse avrebbe voluto cantarla già allora, cioè nel modo asciutto e jazzato che si ascolta nel nuovo, azzeccatissimo Appunti di un lungo viaggio.
Il viaggio di Gino Paoli in quel tormentato 1963 ha guardato da lontano crollare la diga del Vajont, il primo romanzo di Oriana Fallaci e il sangue di Kennedy sulla Lincoln di Dallas. Nello stesso giorno, quel pazzesco 22 novembre, per una di quelle strabilianti sceneggiature della storia, è uscito il secondo disco dei Beatles che consacrò l’inizio del pop che ascoltiamo ancora oggi in tante forme diverse. Nessun brano dei Beatles è diventato un tormentone. E l’unico tormentone di Gino Paoli è involontario, un vero anti tormentone che però oggi, più di mezzo secolo dopo, fa sentire l’estate anche quando non c’è.
La potenza della musica.