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 2019  giugno 24 Lunedì calendario

Biografia di Michelangelo Pistoletto

Michelangelo Pistoletto (Michelangelo Olivero Pistoletto), nato a Biella il 25 giugno 1933 (86 anni). Artista. Pittore. Scultore. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti, il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia (2003), il Premio Wolf per le arti (2007) e il Premio imperiale per la pittura (2013). «Per me l’estetica da sola non serve: può funzionare solo se coniugata con l’etica» • «Mio nonno paterno si chiamava Michele. E forse il mio nonno materno si chiamava Angelo… In realtà non ho mai ben capito perché mi chiamo Michelangelo. Forse, in effetti, era una predestinazione» (a Salvatore Merlo) • «Uno dei primi ricordi che ho è di quando, bambino, mi sforzavo di spostare la culla dall’interno. A ogni tentativo mi dicevo “ce la faccio, ce la posso fare”. E una volta ho sorpreso i miei, che si sono visti d’improvviso la culla davanti». «“Io sono nato con la camicia, partorito da mio padre e instradato da mia madre”. […] “Papà era un pittore figurativo di talento. A otto anni, per una meningite, perse l’udito. Riusciva però a parlare, e aveva imparato a leggere le labbra. Sordo, concentrò tutto sulla capacità di osservare e riprodurre quello che vedeva. Dipingeva magnifiche nature morte con selvaggina, frutti e ortaggi. Sono cresciuto tra l’odore dei colori a olio e il profumo proveniente dalla cucina, dove mamma cucinava i soggetti ritratti da papà. Mi insegnò tutto quel che sapeva e, dopo la guerra, mi prese a bottega: gli aristocratici vendevano i tesori di famiglia alla nuova nobiltà, gli industriali, che si rivolgevano a mio padre per restaurare i quadri. Una fortuna sfacciata: apprendevo, senza fatica, un mestiere. Però avevo fame di futuro. […] Qui entra in scena mamma, di Biella, con il guizzo naturale dell’imprenditore. […] Mentre ero a bottega non del tutto soddisfatto, mamma disse: ‘Va bene l’antichità, ma bisogna guardare avanti. Il futuro è nella pubblicità. Perché non mandiamo Michelangelo alla scuola di Armando Testa?’. Era la scintilla necessaria. Il corso durava due anni, ma già sei mesi dopo Armando mi propose di lavorare per lui. ‘No’, risposi, ‘sono già tuo concorrente’: un amico mi aveva ceduto il suo studio perché era diventato direttore di una grande agenzia”. Ma lei è un artista, non un pubblicitario! “Non lo sarei diventato se non avessi scoperto, attraverso la pubblicità, l’arte contemporanea. Di giorno lavoravo nell’agenzia, la sera mi rintanavo in uno studiolo in via Bava. A Torino organizzarono l’esposizione ‘Arte in vetrina’. Nessuno commentava le opere, salvo quella di un tal Fontana: un buco in una tela. Le lascio immaginare i commenti. Io osservavo e riflettevo: non so quali siano le ragioni di quel pittore, però devo trovare le mie, e, se inveiranno contro di me, avrò raggiunto il mio scopo. Cominciai a lavorare sulla materia da cui emersero i miei autoritratti. Ne mandai uno al premio San Fedele e lo vinsi. Venne allora a trovarmi Mario Tazzoli, proprietario della Galleria Galatea (a Torino rappresentava Bacon, Giacometti, Magritte, Balthus, Sutherland), e mi propose di lavorare per lui. Ben presto, però, imboccai una strada che al gallerista non piaceva. Cercando la mia identità, mi accorsi che l’artista può rappresentare tutto, tranne se stesso, se non ha uno specchio, e cominciai a trasformare la tela in materia riflettente, prima con un fondo nero lucidissimo, poi con acciaio levigato al punto da trasformarsi in un quadro specchiante. Trovai così la mia identità: non ero più isolato, ma me stesso insieme a chi si rispecchiava con me; passavo dall’io al noi. E, ponendo una figura sullo sfondo, l’opera diventava quadrimensionale, inglobando il tempo che passa: l’immagine da presente diventa passato, che perdura insieme allo specchio, che, invece, cambia continuamente diventando futuro. Tazzoli espose le opere nel 1962, ma se ne vergognava. Un giorno arrivò Giovanni Agnelli, il miglior cliente. Non si accorsero che ero nell’altra stanza, e sentii Tazzoli dire all’Avvocato: ‘Mi perdoni per questa esposizione, purtroppo è di un pittore sotto contratto…’. […] Scappai via sconvolto. Salii sulla mia spider, andai a cercare una ragazza sudamericana ospite di amici che stava viaggiando in Europa e le dissi: ‘Ti porto io a Parigi’. Visitai tutto il visitabile. L’ultimo giorno incontrai per strada Bepi Romagnoni, un artista milanese. ‘Passa da Ileana Sonnabend, l’ex moglie di Leo Castelli, il gallerista newyorkese della Pop Art’, disse, ‘sta aprendo una galleria a Parigi con opere che sembrano dialogare con le tue’. Ci andai senza convinzione. I quadri non erano ancora esposti, ma gentilmente me li fecero sbirciare in uno sgabuzzino. ‘Lei è un collezionista?’. ‘No, sono un artista’. Nel baule della macchina avevo dei cataloghi e un quadretto che non avevamo appeso. La faccio breve: una settimana dopo, Ileana con il nuovo marito Michael vennero a Torino, comprarono tutte le opere da Tazzoli e gli tolsero l’‘incomodo’ del mio contratto, ingaggiandomi. Nel ’63 esponevo in compagnia dei grandi della Pop Art. Tutti americani, salvo Pistoletto. Leo Castelli portò i miei lavori a New York e li mostrò insieme a quelli di Jasper Johns, Warhol, Lichtenstein, Oldenburg, Jim Dine, Rauschenberg. […] Quando Rauschenberg vinse il premio per la miglior opera straniera alla Biennale di Venezia, l’America si sentì finalmente incoronata del primato artistico. Il gran cerimoniere dell’investitura era Leo Castelli. Un giorno, a Parigi, seduto su un taxi tra lui e Alan Solomon, il direttore del padiglione americano di Venezia, Leo mi disse: ‘O diventi americano o per te non c’è più spazio. Se non entri nella nostra famiglia, temo possano boicottarti’. Voglio credere fosse un consiglio amichevole. Comunque sia, qualche tempo dopo, non si sa come né da chi, le mie opere esposte nella sua galleria vennero prese a martellate. Arrivai a temere per la mia vita. Tornai in Italia e decisi di distruggere con le mie stesse mani la logica del ‘marchio’ che mi volevano appiccicare per darmi il successo. Lavorai a opere definite Oggetti in meno, diverse le une dalle altre, così da rendere impossibile commercializzare il mio nome attraverso le mie opere. Non volevo essere un marchio. Se prima l’avevo costruita, adesso mandavo in frantumi la mia identità. Ileana e Michael Sonnabend assistevano sconsolati: ‘Michelangelo, ti stai distruggendo’. ‘Bravi, avete capito al volo!’. Affittai una vecchia tipografia dietro al museo dell’automobile e chiamai giovani artisti disposti a combattere l’imperialismo nell’arte. Fu quello l’incubatore dell’Arte povera, come venne poi spiegato da Germano Celant in un conciso scritto del ’67”» (Pier Luigi Vercesi). Del 1967 è anche quella che è generalmente ritenuta l’opera-simbolo dell’Arte povera, la Venere degli stracci di Pistoletto, «riproduzione di una statua greca, la Venere Callipigia, metafora della memoria: si relaziona con una massa variopinta di indumenti dismessi, emblema del quotidiano, in un dialogo serrato tra passato e presente. Gli stracci, assunti come elementi pittorici, rappresentano tutto ciò che passa, la trasformazione della materia, il transitorio, […] mentre la copia della Venere classica in cemento ricoperta di mica, minerale dalla forte componente luministica, è un elemento formale che rimanda all’ordine e alla bellezza immutabile» (Gaia Casagrande). «“Presi la scultura della Venere in uno di questi punti vendita con oggetti da giardino. Passandoci davanti mi aveva colpito. Mi sembrava viva. Arrivato nel mio studio, in zona Mirafiori, a Torino, poi, mi sembrò quasi che il mucchio di stracci che usavo per pulire gli specchi la stesse aspettando. L’accoppiamento mi sembrava perfetto: l’idea mitica di bellezza che amorevolmente sostiene il disastro quotidiano, il disordine del consumismo consumato. Una tensione simile a quella dei ‘quadri specchianti’. Anche lì c’è una figura fissa, una memoria, e i visitatori che, nel riflesso, cambiano continuamente”. […] Nel 1968, scrisse un manifesto in cui invitava i suoi amici artisti ad allestire la sala che le era stata assegnata alla Biennale di Venezia. “È vero. E la mia casa e il mio studio sono stati sempre aperti. In quegli anni formai un gruppo che si chiamava ‘Lo Zoo’: performance e azioni collettive nelle piazze e nei locali pubblici. Volevamo far uscire l’arte dalle gabbie”» (Vittorio Zincone). «Negli anni Settanta torna lo specchio, ma in modo nuovo. La Divisione e moltiplicazione dello specchio (1975) ha una valenza ancora molto concettuale. Negli anni Ottanta, invece, lei si avvicina alla scultura in poliuretano o in marmo. […] “Dividere lo specchio voleva dire andare avanti nella ricerca affrontando il problema spirituale, ovvero del senso religioso. Era l’idea della totalità e dell’universale, che si può cogliere solo nella divisione e moltiplicazione. Il riflesso del reale nelle sue mille facce. La scultura è stata invece un momento anomalo, ma necessario. Il mio cervello era diventato un deposito di memorie che bisognava fare uscire. Nel progredire verso la modernità restava il ricordo dei monumenti nelle piazze delle città. Erano come dei frammenti che presero forma grazie al poliuretano, facile e rapido da lavorare; formidabile per tradurre subito l’idea quasi in stato di trance. I frammenti poi si ricomponevano in coppie uomo/donna o fronte/retro, come nelle due figure umane incrociate di Dietrofront, a piazza Porta Romana di Firenze. Certo, anche qui permane sempre il gioco dialettico tra la parte e il tutto”. La riflessione sulla materia sfocia nei lavori realizzati con materiale anonimo, brutale e incolore, accomunati dal titolo Poetica dura (quarta generazione), del 1985; poi, con Anno bianco, la manualità viene nuovamente abbandonata a favore di un’opera concettuale fatta di spazio e di tempo: un’opera che è durata un anno, il 1989. […] “Gli oggetti neri, chiamati altresì dell’‘Arte dello squallore’, sono come l’universo che contiene dei punti luminosi, ovvero il nulla che contiene il tutto, l’assenza che contiene la presenza. Il contenitore si fa contenuto e diventa superficie o volume materico, gigantesco, scuro, che rifugge ogni definizione. Ma dal nero, per la solita logica degli opposti, si passa al bianco, alla vita che si imprime e lascia un segno. Anno bianco è stato un anno di storia che ha lasciato le sue tracce tramite la fotografia su lastre di gesso plasmate a mano o di marmo, come fossero pagine di un taccuino. Sono tracce di episodi, come la caduta del Muro di Berlino, che testimoniano l’importanza di un momento per l’intera collettività”. Ci parli infine […] del “Progetto Arte” del 1994 e della “Cittadellarte” di Biella, inaugurata nel 1999. “Oggi è il momento dell’istituzionalizzazione dei fenomeni utopici degli anni Settanta e Ottanta. Si crea un sistema (che un tempo si rifiutava), ma voluto a propria misura. Io ho prima offerto il mio tempo con “Progetto Arte”, coinvolgendo chiunque (anche i non artisti) potesse offrire la propria creatività, e poi un luogo, l’antica filanda dove abito, per la “Cittadellarte”. Qui si propone l’incontro, il confronto e la riflessione, tramite l’organizzazione di mostre e convegni, e un laboratorio di giovani artisti che coinvolga ogni campo della creatività (moda, design, musica, e così via), in modo da abolire definitivamente le categorie dell’arte a favore dell’unità globale. Mentre viviamo la condizione annunciata di saturazione e post-super-consumismo consumato all’eccesso, all’arte non resta che trovare un terreno sempre più prossimo alla vita vissuta, fino al limite della non distinzione. Dopo tutto, non siamo nell’èra del Grande Fratello?”» (Alessandra Zanchi). «L’ultima propaggine di una militanza artistica inossidabile porta dritto al cosiddetto Terzo Paradiso, manifesto politico esistenziale del Terzo millennio firmato Pistoletto (editore Marsilio, maggio 2010), intorno al quale l’artista ragiona in termini che hanno del filosofico-utopistico ma sconfinano agevolmente nel pop» (Francesca Giuliani). Simbolo del cosiddetto Terzo Paradiso sono tre cerchi legati tra loro come nel simbolo matematico di infinito, con il cerchio centrale più ampio degli altri due, a significare «il ventre procreativo della nuova umanità». «Il Terzo Paradiso è composto da due cerchi, che rappresentano l’unione di opposti, da cui nasce qualcosa di nuovo: il terzo cerchio. Tutto funziona secondo la formula dell’“uno più uno uguale tre”: la storia dell’uomo è un dialogo binario, da cui nasce una terza cosa. Il primo Paradiso è un luogo leggendario in cui l’uomo è totalmente integrato con la natura, il secondo un luogo artificiale creato dall’uomo, mentre il terzo è la realizzazione di una unione bilanciata e armonica tra natura e sfera artificiale. L’arte deve essere il motore per arrivare ad un linguaggio comune e alla mutua comprensione tra gli essere umani». Nel 2017 il simbolo del Terzo Paradiso è stato persino adottato dall’Agenzia spaziale europea, in occasione della missione sulla Stazione spaziale internazionale cui ha preso parte anche l’astronauta italiano Paolo Nespoli, che ha collaborato con Pistoletto alla realizzazione di un progetto artistico. «Oltre a svolgere varie ricerche e attività scientifiche nell’ambito di Vita (acronimo per vitalità, innovazione, tecnologia e abilità), Nespoli ha scattato migliaia di immagini inquadrate nella tripla curva del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, logo della missione “firmata” dall’Esa (Agenzia spaziale europea) e da RAM-RadioArteMobile, il notissimo centro e spazio d’arte curato da Mario Pieroni e da Dora Stiefelmeier. […] Dall’incontro fra Pistoletto e l’Esa […] è nato così SPAC3, progetto planetario e interattivo, in sostanza una app che ha permesso di congiungere le immagini spaziali di Nespoli a una miriade di foto e idee prodotte da chiunque volesse partecipare a questo “gioco” scaricandosi l’app. […] Il risultato è un fantasmagorico mosaico dalle linee che ricalcano quelle del Terzo Paradiso: una piattaforma unica, dinamica e socialmente condivisa» (Martina Corgnati). «“L’immagine mandata dallo spazio dall’astronauta Nespoli è come uno specchio del mondo, è la scienza che si riflette su di noi, ci guarda e permette di guardarci tra noi. Si ricostruisce così un rapporto interpersonale, rimettendo la scienza in mano all’uomo”. […] La tecnologia era già stata al centro di un’altra sua opera: la Mela reintegrata, davanti alla stazione Centrale di Milano. Lì la chiave è la “cucitura” del frutto. “Dobbiamo trovare il modo in cui la scienza e la tecnologia non ci sfuggano dalle mani. Serve una saldatura: per questo nella Mela c’è una cucitura. La scultura ha in sé tre momenti: quello in cui eravamo dentro la mela, il primo Paradiso in cui non comandavamo noi; con il morso siamo usciti e abbiamo preso il comando, e siamo arrivati fino ai giorni nostri, in cui la scienza e la tecnologia dominano. Il fatto che Apple abbia scelto la mela come simbolo significa che la natura è morta. Ma noi siamo esseri umani, e, se la natura è morta, moriamo anche noi. Dobbiamo ricomporre la mela: è la scienza che deve farlo, in modo sostenibile”. C’era stata qualche polemica per i migranti e richiedenti asilo che dormivano sotto l’opera. A lei dà fastidio? “Non è che queste persone abbiano avuto vantaggi a stare lì: sono stati tirati in mezzo per fare delle polemiche. Anzi, mi hanno fatto pubblicità in senso positivo, riconoscendo un valore alla mia opera”» (Dario Falcini) • Una figlia, Cristina, dalla prima moglie, Marzia Calleri; altre due figlie, Armona e Pietra, da Maria Pioppi, sposata nel 2017 a Cuba, dopo mezzo secolo di vita insieme. «Armona, architetto, e Pietra, che si occupa di moda sostenibile, sono entrambe al lavoro alla nostra Cittadellarte, il progetto legato alla Fondazione Pistoletto. Cristina […] ha seguito il filone delle nostre performance» (a Cristina D’Antonio) • «Lei che scuole ha fatto? “Ho fatto fino alla seconda geometri. La mia vera scuola è stato mio padre”. […] Poca scuola, dunque. Eppure è un uomo colto. Che si è esprime in un italiano denso, di parole e dottrina. “Ho la cultura dell’ignoranza… che è un grande vaso sempre pronto a riempirsi”, dice con un sorriso argenteo. “Non so decifrare la mia posizione culturale. Non possiedo un solo libro. In realtà, quasi non leggo”. Difficile crederlo. “Non ci credo neanche io, però è vero. Forse sono uno di quei personaggi del tempo antico che si rifanno alla tradizione orale”» (Merlo) • Veste sempre di nero. «Una volta mi vestivo di tutti colori. Poi nel 1970 scrissi un piccolo libro che si intitolava L’uomo in nero. E da allora mi vesto soltanto di nero. […] Però quando vado a sciare sono multicolore» • «Tutti quelli con cui sciavo hanno abbandonato, sono malati o sono morti. Quindi adesso scio con dei sessantenni. E, quando noto che cominciano ad avere dei cedimenti, gli dico: “Ma, quando sarete vecchi, con chi andrò a sciare io?”» • «Quando, anticamente, partecipavo alle elezioni, votavo per Pannella» • «Nel suo manifesto Ominiteismo e demopraxia (Chiarelettere), lei propone un’evoluzione della parola “democrazia”. Ci spieghi. “Con la Cittadellarte abbiamo sviluppato la demopratica, dove la praxis, la pratica, sostituisce il cratos, cioè il potere. Vogliamo tradurre il concetto di ideologia che domina i sistemi politici attuali in una realtà attiva che chiamiamo ‘pratica’. […] Noi, la dualità, l’abbiamo individuata non nelle ideologie, ma nelle organizzazioni profit e no-profit, negli enti scientifici. Ogni organizzazione esistente nella società può essere rappresentata da una persona che in un forum crea una partecipazione diretta e pratica e produce delle proposte che porteranno a dei risultati”. […] È solo un’idea o ha trovato una realizzazione nella realtà? “Lo stiamo sviluppando in vari paesi e città: a Cuba e Singapore, ad esempio, dove le ambasciate del Terzo Paradiso si stanno diffondendo. Ce ne sono centinaia”» (Lucio Perotta) • «“L’arte è un elemento di base che risiede nei tempi come elemento di rifondazione, sia estetica che etica. Nel XX secolo l’artista si è liberato dalle forme rappresentative e simboliche, è diventato autonomo: oggi si tratta di riportare il lavoro autonomo dell’artista di nuovo nella dimensione sociale, ma non per rappresentare le forme di potere, bensì per fare in modo che l’arte indirizzi il potere e la società”. In seno alla sua fondazione è nata una piattaforma, chiamata “Love Difference”, che promuove una correlazione tra i Paesi del Mediterraneo non da un punto di vista politico, ma culturale, così da azzerare i conflitti. Di cosa si tratta? “Il Mediterraneo è composto da culture varie e diverse, che in alcuni momenti storici si accordano e in altri configgono. Il mio ideale sarebbe un parlamento mediterraneo che raggruppasse tutti i Paesi, e che unito all’Unione europea potrebbe essere una prospettiva reale e di cambiamento. Solo attraverso un’intesa tra le differenti culture ci può essere un’intesa politica”» (Barbara Tomasino) • «Michelangelo Pistoletto è l’ultimo e il più riconosciuto e quotato dei maestri dell’arte contemporanea italiana. […] Le sue opere oggi vengono vendute a centinaia di migliaia di euro, in qualche asta newyorkese hanno superato il milione, sono state esposte nei musei di mezzo mondo, anche al Louvre, fanno sfoggio di sé nelle gallerie private e nelle case di facoltosi compratori. […] “Se non avessi avuto successo, probabilmente avrei fatto un altro mestiere. Spero soltanto una cosa: che quando non ci sarò più non dicano che sono stato un bluff”. […] “Credo di avere avuto la fortuna di vivere in un momento in cui la società aveva bisogno del mio prodotto artistico. Per una sorta di coincidenza, di necessità. In questo senso io mi sento molto legato alla società. È il mio tempo”. […] C’è molta filosofia, e molta abilità comunicativa in Michelangelo Pistoletto. Una certa, spiccata e carismatica capacità di affabulare. Forse anche in questo sta il segreto del suo successo» (Merlo). «Pistoletto nella coerenza della sua poetica è approdato ormai in un luogo che non è più romanticamente segnato da un immaginario solitario, e fa invece posto a molteplici soggetti produttivi che insieme possono costruire nuovi modelli di comportamento ed indicare la possibilità di un futuro migliore. Paradossalmente Pistoletto ci protegge dalla bellezza, la sterile bellezza della pura forma, per indicarci una ulteriore possibilità, quella di un’arte responsabile capace di coniugare insieme creazione e fruizione della vita. Aleggia su tutti noi, a conferma, il nuovo segno dell’infinito per il Terzo Paradiso (dopo l’Eden naturale e quello tecnologico), costellazione protettiva e simbolica di un futuro migliore che solo l’arte può assicurare, garantendo l’impellenza di un insostituibile valore: la coesistenza delle differenze» (Achille Bonito Oliva). «È il più grossolano degli artisti italiani famosi, è un Michelangelo caduto ovvero un Micheldiavolo: da sempre (almeno dalla Venere degli stracci del 1967) diffonde l’idea che l’arte non sia elevazione ma abbassamento, e da qualche tempo superbamente dichiara di voler fondare il paradiso in terra, un Terzo Paradiso che dovrebbe “generare una nuova umanità”. Vasto, satanico programma. […] Le opere di Pistoletto sono la prova che il brutto oggettivo esiste» (Camillo Langone) • «Quello che vorrei cercare di fare io è […] far immergere l’arte, con la sua nobiltà, nelle strade e farla diventare un laboratorio sociale, un tempio spirituale laico». «Mi elenca le tre opere “cult” dell’arte italiana contemporanea? “Un dipinto di Capogrossi, una tela di Burri, un taglio di Fontana”. Le tre che darebbe alle fiamme? “Sono davvero tante. Se ne cito solo tre, poi sembra che ne voglia salvare molte altre che non lo meritano”» (Zincone). «Di quanti padri si sente figlio? “Di Ettore Olivero, padre biologico e scolastico. Di Piero della Francesca, scoperto a 18 anni: di fronte alla sua Flagellazione di Cristo ho capito l’importanza della prospettiva, premessa della macchina fotografica. E quindi di Armando Testa”. Una sua lezione che ricorda?  “L’assoluta capacità di sintesi negli elementi grafici: era l’uomo capace di riassumere il concetto di vermouth in una sfera e mezza, il Punt e Mes”. Chi sono, invece, i suoi eredi? “Chi lavora alla Cittadellarte: quanti usano la propria capacità di creare ai fini della rigenerazione della società”» (D’Antonio) • «Quali progetti ha per il futuro? “Ho […] tante idee e opere sparse per il mondo. Cercherò di far andare avanti i miei pensieri, mentre le mie gambe non sono più così lunghe e così veloci come un tempo”» (Lorenzo Madaro). «Un giorno ho chiesto a mia moglie: quand’è che me ne vado in pensione? Lei mi ha risposto che l’arte non va in pensione».