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 2019  giugno 24 Lunedì calendario

Contratti truffa specie al Sud

Arrivano a guadagnare anche il 25/30% in meno del dovuto. Addirittura nel comparto tessile, e in particolare al Sud, il taglio arriva quasi al 50% visto che un’operaia a libro paga di un contoterzista ogni mese anziché 1.000-1.200 euro ne guadagna appena 5-600. Meno dell’indennità di cassa integrazione o – se vogliamo – meno del Reddito di cittadinanza.
Formalmente si tratta di contratti regolari, in realtà sono «contratti pirata». Intese siglate da federazioni e confederazioni spuntate dal nulla con associazioni imprenditoriali altrettanto improbabili. Un fenomeno che negli ultimi anni è cresciuto in maniera esponenziale. E che oggi secondo le stime dell’ex presidente dell’Inps Tito Boeri produce un buco per le casse dello Stato nell’ordine dei 3 miliardi di euro l’anno, tra minori contributi ed agevolazioni indebite, interessando una platea che come minimo arriva al 10% degli occupati. In pratica qualcosa come 1,7/2 milioni di lavoratori.
Meno paga, meno diritti
Di pari passo con la crisi e con l’aumentare della pressione competitiva a livello internazionale in molte imprese, soprattutto nei settori labour intensive, dove il costo del lavoro ha un peso preponderante, si è cercata la via breve di comprimere i salari e limitare i diritti. Non solo minimi tabellari più bassi ma, denunciano da tempo i sindacati, anche impropri contratti di inserimento e differenze nette su una miriade di istituti che vanno dalle maggiorazioni per il lavoro straordinario (in alcuni casi ridotte anche dell’80%) a quelle per il lavoro notturno e festivo più basse di un buon 30%, dalle indennità per malattia e infortunio al numero di ferie e permessi retribuiti sino al finanziamento degli enti bilaterali. Senza contare poi che questi lavoratori di «serie B» non beneficiano nè della contrattazione di secondo livello nè del welfare aziendale.
Un «mix» – segnala l’ultimo rapporto Adapt sulla contrattazione – che non solo incide sulla retribuzione lorda mensile ma pesa anche sulle tutele minime riconosciute al lavoratore. «Dal commercio al turismo, dagli studi professionali all’edilizia, dalla meccanica all’agricoltura sino al comparto tessile, la contrattazione collettiva pirata è divenuta una vera e propria piaga sociale».
Il problema, come spiegano al Cnel, è che nel nostro ordinamento i datori di lavoro privati non hanno l’obbligo di applicare in azienda un determinato contratto. Possono benissimo coesistere molteplici accordi collettivi nazionali nello stesso settore di riferimento. Non solo, ma ogni organizzazione è libera di auto-definirsi rappresentativa e di concludere con una controparte un accordo “nazionale” nello stesso settore già coperto da altri accordi «nazionali» firmati da organizzazioni concorrenti. L’Ispettorato nazionale del Lavoro, l’anno passato, ha annunciato controlli più serrati e l’Inps vigila su chi versa meno contributi del dovuto, imponendo di versare la differenza dei contribuiti (nulla però a vantaggio dei lavoratori sottopagati): ciò non toglie però che oggi ci si trovi di fronte ad un Far West.
Sotto i minimi tabellari
Scorrendo le liste dei contratti nazionali catalogati dal Consiglio nazionale per l’economia ed il lavoro si scopre così che, ad esempio, nel settore metalmeccanico tra il contratto siglato nel 2016 da Federmeccanica e Assistal con le tre principali sigle confederali (Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil), ovvero «il» contratto per antonomasia delle nostre tute blu, il minimo retributivo è pari a 1.310,80 euro al mese mentre l‘intesa raggiunta lo stesso anno dalle meno note Adli (l’Associazione datori di lavoro italiani di Padova) e Famar, ovvero la «Federazione autonoma dei movimenti associativi di rappresentanza nazionale» che ha sede a Vicenza, abbassa il minimo tabellare a 1.000 euro tondi. Si tratta del 23,6% in meno. Nel campo dei trasporti tra il contratto 2016 Anita-Fai-Conftrasporto-Cna-Casa-Claai-Confartigianato / Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti e quello siglato 2 anni dopo che vede come prima firmataria la Esaarco, acronimo che identifica la confederazione Esercenti, Agricoltura, Artigianato, Commercio (che dichiara di avere in questo comparto 8.031 iscritti su un totale di 113mila) e a seguire da Cepa-Sai-Fer con una galassia di sigle sindacali (Ciu-Si Cel, Fenals Cgel, Onaps, Fisnalcta Ugl) la differenza sale al 27,9%. Nel primo caso il minimo retributivo è infatti pari a 1.328,17 euro contro i 958,70 del secondo. Infine gli alimentaristi. Il contratto del settore pesca del 2014 firmato da Federpesca e Fai-Cisl, Flai-Cgil, Uila-Uil fissa il minimo retributivo per un mozzo impegnato in attività di pesca d’altura a 1.104,78 euro, quello firmato 4 anni dopo da Cnl (Confederazione nazionale del lavoro, sede legale a Roma e sede operativa a Vibo Valentia), l’Osnapi (l’Organismo nazionale dei professionisti della sicurezza, privacy e informatica, di cui almeno formalmente si fatica a comprendere la competenza in materia) e la Federazione italiani lavoratori dipendenti (Fild) si ferma invece ad appena 698,85 euro, con uno scarto che tocca il 36,8%.
Babele di accordi
La convenienza tra gli «altri» contratti e le intese stipulate dai sindacati confederali con le principali associazioni d’impresa è evidente. E non a caso negli ultimi anni il numero di contratti «nazionali» di lavoro depositato al Cnel è letteralmente esploso toccando a fine 2018 quota 888, ovvero il 123,1 % in più di 10 anni fa quando erano «appena» 490. Di queste 888 intese ben 229 riguardano il settore del commercio e 110 enti ed istituzioni private. Poi ce ne sono 72 nell’edilizia, 66 nel campo dei trasporti, 53 in agricoltura, 43 per le aziende di servizi, 42 che riguardano poligrafici e settore dello spettacolo, 40 alimentaristi e agroindustria, 33 i chimici, 32 i tessili, 31 sia i meccanici che il comparto credito e assicurazioni, 20 il settore della pubblica amministrazione, mentre in tutti i restanti campi se ne contano altri 86. Solo negli ultimi 8 anni l’edilizia è passata da 28 a 72 accordi (+257,1%), il commercio da 91 a 229 (+251,6%) mentre in agricoltura sono in pratica triplicati passando dai 18 del 2010 ai 53 del 2018 (+294,4%).
Rimedi possibili? La risposta che arriva dalla politica, dai 5 Stelle come dal Pd, si chiama salario minimo. Soluzione, soprattutto quella governativa, rilanciata proprio in questi giorni da Di Maio, ma poco gradita ai sindacati e associazioni d’impresa tradizionali (Confidustria, Confcommercio, Confesercenti, ecc.) visto che presenta diverse controindicazioni. Sul piano più tecnico, a parte l’attività di vigilanza operata dall’Ispettorato nazionale del lavoro, va registrata l’iniziativa del Cnel. Il presidente Tiziano Treu, nelle scorse settimane, ha infatti depositato in Senato una specifica proposta di legge per istituire d’intesa con l’Inps un codice unico dei contratti collettivi nazionali di lavoro in modo da mettere a sistema le rispettive informazioni e costituire un primo nucleo di un’anagrafe comune dei contratti. L’Inps potrebbe così utilizzare questa nuova numerazione per svolgere con più efficacia le proprie finalità istituzionali, a partire dalla verifica del rispetto dei minimali contributivi, ed otterrebbe anche una mappatura costantemente aggiornata dello stato della contrattazione collettiva di livello nazionale. «Ed una volta a regime questa attività comune con l’Inps – ha spiegato Treu annunciando l’iniziativa legislativa – consentirà anche di associare a ciascun contratto reperibile nell’archivio Cnel il numero di lavoratori dipendenti ai quali è applicato e di capire quale o quali contratti collettivi di lavoro possano essere considerati il riferimento all’interno di un medesimo settore e quindi di tracciare la linea di demarcazione fra pluralismo contrattuale e pratica sleale».
La riforma bloccata
Confindustria, Cgil, Cisl e Uil per contrastare il fenomeno dei contratti pirata nella loro riforma della contrattazione hanno invece previsto di misurare anche la rappresentatività delle imprese oltre a quella dei sindacati. L’intesa, frutto di mesi e mesi di confronto, risale a inizio 2018 ma per diventare operativa richiede che il ministero del Lavoro sblocchi la convenzione con l’Inps per avviare la certificazione e, soprattutto, che il Parlamento adotti una specifica legge sulla rappresentanza. Cosa che, nonostante i ripetuti appelli da parte di sindacati e imprese, finora non si è concretizzata.•«È così», ti rispondono sempre. C’è arrendevolezza e rassegnazione in ognuna delle operaie che si incontrano setacciando a fondo il nostro Mezzogiorno. Paesini sperduti nell’ultimo lembo della Calabria o nel cuore della Sicilia e fabbrichette dove i contratti pirata sono/sembrano praticamente l’unica soluzione per avere un lavoro. Dove prevale una forma di sudditanza psicologica che fa dire loro «guadagno poco, ma intanto lavoro», ed questo che alla fine importa. «È una cosa che lascia allibiti – racconta Giovanni Rizzuto della segreteria nazionale della Femca, il sindacato che rappresenta anche i tessili della Cisl -. È vero che queste donne in questo modo portano a casa un secondo stipendio che di questi tempi, soprattutto al Sud, vale oro. Ma ragionando così poi firmano tutto quello che c’è da firmare, si mettono a lavorare a testa bassa e nessuna di loro si ribella. “Qui funziona così – è la risposta che danno quando chiedi spiegazioni -. L’importante che mi diano un lavoro, non importa se poi è malpagato”».
Rizzuto, dopo aver girato in lungo ed in largo tutto il Sud, e dopo aver incontrato tante lavoratrici con stipendi che sprofondano anche a 5-600 euro al mese, assieme a Paolo Tomassetti dell’Adapt, ha pubblicato da poco con le Edizioni Lavoro un volume sul «Dumping contrattuale nel settore moda». Una vera ricerca sul campo e al tempo stesso un’interessante analisi su un fenomeno, che soprattutto nel campo dell’industria tessile, per effetto del reshoring che negli ultimi tempi ha portato tante produzioni a rientrare in Italia, è letteralmente esploso.
«Come prima cosa – osserva il sindacalista – è difficile definire i perimetri dei vari contratti “pirata”, perché può capitare pure che un “façonista” ne applichi uno del commercio. Così come è altrettanto difficile immaginare di aprire vertenze a causa della dimensione relazionale che caratterizza i rapporti tra le persone in tanti paesi del Mezzogiorno». Poi, in questa jungla, è pure difficile individuare «associazioni d’impresa che nascono e muoiono rapidamente, oppure altrettanto rapidamente cambiano denominazione, grazie ad una pletora di consulenti del lavoro che offrono questi contratti come se fossero prodotti commerciali». Quanto alle loro controparti sindacali «non si fanno mai vedere in fabbrica. Fanno i contratti e rinnovi, ma non li vede mai nessuno: non fanno assemblee nè incontrano mai i lavoratori». «Comunque – prosegue Rizzuto – in certe zone d’Italia se i salari sono sotto i minimi è anche per una responsabilità ben precisa del “sistema moda” in cui sono inserite tante di queste imprese. Un comparto dove le filiere si contraddistinguono per la frammentazione, la complessità e l’ampiezza. E dove, man mano che si scende lungo la catena del valore, le condizioni dei lavoratori peggiorano. Se pensiamo al comparto dei façonisti -specifica il segretario della Femca -parliamo di piccole manifatture che si fanno la guerra una con l’altra abbassando di continuo i prezzi pur di accaparrarsi una commessa. Per questo noi sosteniamo che il problema è a monte ed è un problema di redistribuzione del reddito o se vogliamo di marginalità di queste imprese, che oggettivamente devono iniziare a farsi pagare di più visto che il costo del lavoro arriva anche al 70% del loro giro d’affari».
Il risultato è che di vertenze individuali se ne fanno poche e l’unica arma che ha il sindacato, come è avvenuto ad esempio in provincia di Lecce, è quella di costruire «contratti di prossimità», in deroga ai contratti nazionali, «anche spingendosi al limite massimo consentito dalle regole. Si fa di tutto pur di superare il dumping contrattuale -sintetizza Rizzuto – con la speranza poi, nel giro di qualche anno, di riuscire a riallinearli. Detto tutto questo, deve essere chiaro che la nostra non vuol essere una caccia alle streghe, non indichiamo nessuna sigla come responsabile di questa situazione, ma diciamo che c’è un problema di sistema. Su cui urge intervenire».