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 2019  maggio 20 Lunedì calendario

Stroncatura del film di Malick «A Hidden Life»

L’eco che aveva accompagnato Terrence Malick in concorso a Cannes con A Hidden Life (Una vita nascosta) era quello del ritorno del regista-filosofo a un tipo di racconto più tradizionale e narrativo, lontano dalle astrazioni dei suoi ultimi film.
Vero? Solo in parte perché se il film si ispira alla parabola di un obiettore austriaco durante la seconda guerra mondiale, Franz Jägerstätter (interpretato da August Diehl), Malick non rinuncia alle sue visioni «panteistiche» che esaltano la bellezza del creato più di quanto non raccontino la storia di Franz.
Siamo in Austria (anche se le riprese si sono svolte per buona parte in Alto Adige) sul finire degli anni Trenta. Qualche estratto di repertorio (in bianco e nero e con il formato quadrato) ci mostra il trionfo di Hitler e le sue oceaniche esibizioni militari. Proprio l’opposto del paesino silenzioso e semideserto (ripreso in formato panoramico a colori) in cui vive Franz con la moglie Fani (Valerie Pachner) e la cui felicità familiare sembra nutrirsi proprio della bellezza dei prati e dei boschi, della maestosità delle montagne, dell’impeto dei fiumi e delle cascate. Fotografata da Jörg Widmer con lo stesso grandangolo già usato per Song to Song (e con gli stessi effetti stranianti) la prima ora del film (che ne dura tre) vuole trasmettere allo spettatore quel senso di adesione uomo-natura che spesso Malick ha inseguito e difeso nei suoi film: una meraviglia estatica e magniloquente che rischia di fagocitare tutto ma che fin qui sembra ancora funzionale alla definizione dei protagonisti. 
Quando la guerra (sempre fuori campo), mette Franz di fronte all’ideologia nazista, il film perde questo equilibrio, invaso da una voce off che ci fa sentire la coscienza al lavoro, mentre la regia abbandona la linearità narrativa per un intreccio misticheggiante di visioni estatiche, di musica tonitruante (vagamente religiosa) e di primi piani. E quando, dopo un primo periodo di istruzione Franz viene chiamato sotto le armi nel 1943, la sua scelta antimilitare diventa irrevocabile.
Il film non nega certo l’origine religiosa della decisione, ma piuttosto che approfondire il dilemma interiore che lo spinge a rischiare la vita (nei colloqui che ha resta praticamente muto), preferisce cercare di trasmettere allo spettatore il rimpianto per una vita in armonia con la natura che in prigione gli è negata. I primissimi piani si alternano ai ricordi dei pascoli sulle Alpi, invadenti accordi musicali accompagnano immagini che si vorrebbero sublimi (cascate, gole, tramonti) mentre le violenze che Franz Jägerstätter subisce in carcere e l’ostracismo della famiglia al villaggio finiscono per perdere molta della loro forza.
Il problema è proprio qui, nella sensazione che la storia reale degli uomini interessi poco a Malick (così come interessano poco o niente i discorsi in tedesco dei «cattivi» che il film non sottotitola, mentre si passa all’inglese quando la regia vuole farci capire quel che si dice), persino la riflessione religiosa di questo cattolico austriaco che divenne terziario francescano (ma questo il film non ce lo dice) finisce per restare vaga.
A lui interessa solo andare al di là del tradizionale realismo didascalico e scegliere un cinema fatto di analogie, di ellissi, di lampi visivi, che però dopo tre ore rischiano di diventare ripetitivi e controproducenti.