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 2019  maggio 20 Lunedì calendario

Ebrei erranti senza volerlo

Edmo Gerbi, ebreo livornese venuto al mondo nel 1874, ebbe tre figli: Antonello nato nel 1904, Giuliano (1905), Claudio (1907). La moglie di Edmo, Iginia Levi, che morì quarantasettenne nel 1926, si era data carico di allevare i tre ragazzi secondo i dettami della religione mosaica. Religione che, però, a quei tempi non era al centro dell’esistenza né del padre, né dei figli. Si può dire che nessuno di loro fosse particolarmente osservante: Antonello al censimento del 1931 si dichiarò, scherzosamente, buddista e nel 1932 uscì dalla comunità ebraica rivendicando con orgoglio la propria laicità. Nel 1938, al momento delle leggi razziali, Edmo era un agente di cambio a riposo, Antonello dirigeva l’Ufficio studi della Banca Commerciale Italiana sotto l’ala protettrice di Raffaele Mattioli, Giuliano faceva il giornalista sportivo su carta («L’Ambrosiano») e per radio (Eiar), Claudio era un apprezzato medico internista.
Erano ragazzi affermati, scapoli, poliglotti, allegri: Giuliano a Parigi fece amicizia con Joséphine Baker, che venne poi a trovarlo in Italia; Antonello di passaggio a Berlino (aveva vinto una borsa di studio su raccomandazione di Luigi Einaudi e Benedetto Croce) si presentò su un giornale locale con la seguente inserzione: «Giovane italiano settentrionale cerca compagnia femminile per migliorare il proprio tedesco (cinema, teatri, concerti ecc.). Mandare foto». A un certo punto la loro esistenza cambiò. Alla fine degli anni Trenta, come conseguenza delle citate leggi razziali, furono costretti ad espatriare. Poi nel secondo dopoguerra alcuni dei sopravvissuti rientrarono in Italia. Ma fu molto complicato riannodare il filo delle loro vite. Alle storie di questi ragazzi (e ad altre consimili) è dedicato il libro del figlio di Antonello, lo storico Sandro Gerbi, Ebrei riluttanti, che esce domani pubblicato dall’editore Ulrico Hoepli.
Il medico Claudio fu il più veloce a «capire» che cosa stava accadendo e ottenne, non senza difficoltà, il passaporto per gli Stati Uniti. Si trasferì a Boston e, successivamente (1942), a Manhattan, ebbe una clientela per lo più di ebrei italiani, «che in parte già conosceva perché rifugiati come lui», divenne il classico medico di famiglia, famoso per una battuta a cui ricorreva per rassicurare i clienti ipocondriaci: «Esistono le malattie lievi e quelle gravi; per le prime basta una spremuta d’arancia, per le seconde raccomando un paio di aspirine!».
Poi fu la volta dei suoi fratelli. Il loro padre, Edmo, fu l’ultimo a partire, verso la metà del 1939, poco prima dell’invasione hitleriana della Polonia. Così, nota Sandro Gerbi, «in brevissimo tempo, quattro ebrei più o meno secolarizzati e ben integrati nella società italiana si trasformarono loro malgrado in ebrei erranti». Un loro cugino, Paolo Treves, nella pagina conclusiva di una sua autobiografia, uscita a Londra nel 1940, ben descrisse, parlando di sé, questo stato d’animo: «L’autore di questo libro è anche ebreo. Per la verità, solo quando cominciò la lotta antisemita in Italia questo fatto emerse dal complesso della sua personalità di uomo e solo da allora se ne sentì particolarmente fiero. Prima non si era mai fermato con il pensiero su questa circostanza».
Antonello, sempre su raccomandazione di Mattioli, ebbe la fortuna di trovare un posto al Banco de Crédito del Perù e fu sostituito a Milano da Ugo La Malfa. Giuliano, il giornalista sportivo, soggiornò per qualche tempo a Parigi, dove provò anche a collaborare con il «Corriere della Sera». Cercò di aiutarlo l’allora corrispondente da Parigi Paolo Monelli. Che però nel gennaio del 1939 si vide recapitare una lettera del direttore, Aldo Borelli, il quale, dicendosi informato del fatto che «in queste ultime sere ha telefonato più di una volta il giornalista ebreo Giuliano Gerbi», invitava Monelli non solo a non farlo collaborare «né direttamente, né indirettamente», ma anche ad informare la direzione del giornale su «chi lo ha incaricato di fare per noi dei servizi da Parigi». Lettera alla quale Monelli, con grande dignità, rispondeva che era stato lui stesso a decidere di dare una mano a quel ragazzo che era «senza un soldo» e, ad ogni evidenza, «bisognoso d’aiuto urgente». In ogni caso – proseguiva Monelli – lo si era utilizzato solo come «dettatore» durante le assenze dello stesso Monelli, che l’aveva pagato personalmente senza gravare in alcun modo sui bilanci del «Corriere».
Giuliano raggiunse allora il fratello Claudio negli Stati Uniti e trovò impiego in una ditta che vendeva abiti a rate. Per un po’ cadde in depressione, ma un amico gli trovò un posto in una stazione radio di New York e in lui si riaffacciò una vena di ottimismo. Agli israeliti in America era possibile vivere come avevano vissuto in Europa fino a qualche tempo prima. Philip Roth ironizzò una volta sul fatto che un ebreo, Irving Berlin, fosse il compositore di White Christmas che, cantato da Bing Crosby, divenne il singolo discografico più venduto nella storia.

Dal settembre del 1943 (dopo l’armistizio che aveva diviso l’Italia in due: al Sud la parte del Paese alleata agli anglo-americani, al Nord la Repubblica sociale controllata dai tedeschi) a Giuliano Gerbi fu affidato un commento radiofonico giornaliero della «Voice of America» con il nome Mario Verdi. I fascisti repubblichini reagirono con rabbia a quella rubrica. Alcuni attacchi della stampa della Rsi alle sue trasmissioni dall’America sono ricordati nel libro di Gianni Isola Cari amici vicini e lontani. Storia dell’ascolto radiofonico nel primo decennio repubblicano, edito dalla Nuova Italia: «L’ex redattore sportivo Giuliano Gerbi, alias Mario Verdi», scrisse un giornale della Repubblica di Salò, «ha abbandonato le cronache ciclistiche per le radio concioni retribuite in dollari. Allora sarà come dire: dalla foratura alla foraggiatura, dall’Arena all’avena, dal Giro d’Italia al Tiro all’Italia!». Ma il successo di queste trasmissioni fu tale che – per la colonia italo americana – esse furono fatte proseguire anche nel dopoguerra e si guadagnarono l’elogio del primo presidente della Repubblica italiana: Luigi Einaudi. 
Anche il padre dei tre ragazzi, Edmo, all’epoca sessantaseienne, emigrò negli Stati Uniti per poi raggiungere Antonello in Perù. Per lui, però, allontanarsi dall’Italia fu un dramma e «a poco a poco i sintomi delle sue nevrosi divennero sempre più gravi e imbarazzanti». Litigava con l’impiegato di un ufficio postale non capacitandosi che non capisse l’«idioma di Dante»; comprava scatole e scatole di farmaci che, alla sua scomparsa, furono trovate intonse; si convinse che la moglie di suo figlio volesse avvelenarlo; poco prima della morte (gennaio 1944) annunciò al nunzio apostolico Fernando Cento (futuro cardinale) di volersi convertire; ma il religioso, ritenendo che quel desiderio non fosse basato su solide convinzioni, rifiutò di impartirgli il battesimo. Ebbe poi un funerale ebraico.
Finita la guerra, Claudio decise di restare negli Stati Uniti. Giuliano provò a farsi riassumere dalla Rai per occuparsi di ciclismo, ma gli fu preferito, scrive Sandro Gerbi su una testimonianza di Antonio Piccone Stella, Mario Ferretti, «un più giovane giornalista sportivo con non trascurabili trascorsi fascisti», con la motivazione che in tempi in cui non esisteva il fotofinish Ferretti era in grado di comunicare subito al pubblico degli ascoltatori l’ordine preciso con cui i corridori avevano tagliato il traguardo. Poi Giuliano rientrò ugualmente nel suo Paese d’origine e lo stesso fece Antonello. Adesso era venuto il tempo dei loro figli, tirati su in modo laico, ma con una particolare attenzione a gergo e rituali ebraici.
A proposito di gergo il libro contiene alcune gustose notazioni: l’uso del termine «negro» è quello del padre di Natalia Ginzburg in Lessico famigliare (Einaudi) e sta per persona dai modi goffi, impacciati, che si veste in modi inappropriati, non sa andare in montagna, non parla le lingue straniere. C’è poi lo schlemihl, il pasticcione che vende la propria ombra al diavolo in cambio di un borsello vuoto; il nebbish (come sostantivo) indica il classico perdente, timido e timoroso, «cugino primo dello schlemihl». C’è ancora il meshugge, un mattoide, un essere assurdo e lunatico, appartenente alla «categoria degli stravaganti che compaiono in tante pagine della letteratura yiddish».

Infine lo scroccone o accattone immortalato nel 1894 dall’inglese Israel Zangwill in Il re degli schnorrer (Marietti). Il protagonista del libro di Zangwill è un ebreo sefardita decaduto, ma di nobili ascendenze, che esercita con molto decoro la sua professione di mendicante nel ghetto di Londra tra Sette e Ottocento, sfruttando i sensi di colpa che assediano la psiche degli ebrei più facoltosi (nella fattispecie ashkenaziti). Per riuscire lo Schnorrer deve essere coltissimo e dotato di notevole chutzpah, ovvero faccia tosta. Non a caso «in sinagoga partecipa a lunghe discussioni teologiche con i suoi potenziali benefattori». Talché, scrive Gerbi, «occorrerebbe forse rivedere il giudizio comune sugli schnorrer»; se il termine corrisponde a uno scroccone da quattro soldi può anche essere svillaneggiato, ma, nel caso possegga le straordinarie qualità descritte da Zangwill, è decisamente un modello da imitare: «Chi in qualche modo lo aiuta, anche solo invitandolo a cena, non ha che da essergli grato».

Così, quasi impercettibilmente, con una dissertazione sui termini sopravvissuti nel lessico ebraico si giunge all’ultima generazione degli «ebrei riluttanti», quella dei nati negli anni Quaranta o poco dopo, alla quale appartiene l’autore del libro. Qui si parla del viaggio dell’autore ventenne in Israele a ridosso della guerra dei Sei giorni (1967), dove intuisce i problemi di cui tratterà qualche decennio più tardi Ahron Bregman, in La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei territori occupati (Einaudi). Israele è un Paese da cui Sandro Gerbi si allontana quasi volentieri: «Ripartii per l’Italia con un senso di sollievo; Israele è un Paese tanto diverso e tanto ricco di contrasti da generare spesso nei visitatori occasionali un senso di claustrofobia», confessa. E in cui lui stesso tornerà solo nel 2010, quarantatré anni dopo. Racconta del suo essere ebreo (laico) e di sinistra con ampi riferimenti ai libri di Maurizio Molinari, La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993) edito da Corbaccio, e di Matteo Di Figlia, Israele e la sinistra. Gli ebrei nel dibattito pubblico italiano dal 1945 a oggi, pubblicato da Donzelli.
Tornato in Italia, Sandro Gerbi fu colpito dalla «superficialità delle argomentazioni e dalla scarsa conoscenza storica» degli «ebrei di destra che sostenevano Israele ad ogni costo». Anche se poi cita qualche «colossale abbaglio» della sua parte, quella degli «ebrei di sinistra» che Israele invece criticavano in eccesso. Il giovane Gerbi è amico adesso del re della Borsa di Milano Renato Cantoni e del banchiere Raffaele Mattioli: è lui (sembra incredibile!) a presentare l’uno all’altro. C’è nel libro il gustoso racconto di un incontro con il filosofo György Lukács a fine 1969. Un’altrettanto sapida descrizione di Ugo Stille – sulle orme del libro di suo figlio, Alexander, La forza delle cose. Un matrimonio di guerra e pace tra Europa e America, (Garzanti) – che gli offre l’occasione di stringere la mano della bellissima Lauren Bacall, ma anche al già chiacchieratissimo finanziere Michele Sindona, incontrato per caso tra la Seconda e la Terza Avenue di New York: Sindona gli porse la mano e, racconta Gerbi, «per educazione dovetti contraccambiare»; di colpo l’«effetto Bacall» svanì e – aggiunge – «mi ritrovai contaminato per l’eternità».
Si parla poi dell’agente letterario Erich Linder – di cui al libro Il dio di carta. Vita di Erich Linder (Avagliano) di Dario Biagi – che rivelò a Grazia Cherchi come considerasse che l’esercizio del potere per il potere denotasse «un carattere vile e non di rado abietto». Ma che è probabile abbia collaborato, in momenti decisivi, con i servizi segreti israeliani. Un caleidoscopio di immagini tra cui rientrano anche quelle del suo rapporto con Indro Montanelli. Tutti «ebrei riluttanti» o, come nel caso di Montanelli, grandi amici degli «ebrei riluttanti».