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 2019  maggio 15 Mercoledì calendario

Appunti su De Rossi e l’addio alla Roma

Fabrizio Bocca per la Repubblica
È un tempo infame per i Capitani a Roma. È come se avessero buttato giù dal Campidoglio le statue dei Dioscuri. Che per la mitologia sono Castore e Polluce, guerrieri figli di Zeus capaci di imprese epiche, e per i romani-romanisti degli anni 2000 molto più prosaicamente Totti e De Rossi. In due anni, per dirla brutalmente, ce li siamo giocati. Con la delicatezza del cinguettio di un tweet alle 8 del mattino Daniele De Rossi, 36 anni a luglio l’icona del “Ringrazio Dio di avermi fatto romanista” - una vita da giallorosso, figlio di un giallorosso (Alberto, allenatore della Primavera), l’ultima persona, l’ultima cosa, l’ultimo capitello sbrecciato di una Roma malinconica e antica, è fuori. Liquidato da James Pallotta e i suoi supermanager. Lo vuoi fare il dirigente? No? Vuoi continuare a giocare? Niente contratto, è finita, bye bye. In meno di una giornata è tutto fatto.
Che c’è di strano? Non è che con Del Piero e Buffon alla Juve fossero andati tanto più per il sottile. Oggi così si fa. DDR è vecchio, acciaccato, dolorante, con le cartilagini logore e costa troppo per quel che può dare. Con un dettaglio, però: era, è ancora il migliore, il più tosto e forte della Roma, ma in America dove guardano score e report dei match analyst non lo sanno.
Non restano ora che le pratiche di rito, almeno un po’ meno strazianti di Totti, rapide. Non indolore, ma quasi. Un po’ di commozione, l’abbraccio ai compagni venuti a salutarlo con la maglia con scritto De Rossi e l’8 sdraiato a mo’ di segno dell’infinito, un paio di partite ancora, l’ultimo stipendio. E non potrà mancare l’armadietto da svuotare. Ci vorrà un trasloco per portare fuori tutti i ricordi da Trigoria e le maglie col 16 a citazione di Roy Keane. «Io quel cancello l’ho attraversato che avevo 11 anni, salgo in macchina che qui viene da sola in automatico. C’ho passato un vita, questa è casa mia».
DDR è tosto, orgoglioso, un duro. Come dice lui a Roma si vive bene, il “romanismo” per quanto spesso sia stucchevole e opprimente è un valore. Il Chuck Norris del calcio italiano avrebbe voluto dunque chiudere con la Roma ed evitarsi il fastidio di un contratto da strappare chissà dove, negli Usa, in Giappone o gli Emirati, ma non può dolersene più di tanto. Non è che Chuck Norris quando rimane senza pistola s’arrenda, ti picchia a mani nude. E così la summa del suo addio è tutta in una frase che scava un baratro tra lui e la società, tra la Roma di ieri e quella di oggi, tra la verità e l’ipocrisia di chi pensa che il calcio sia prima di tutto industria e business. In parte qualcosa che lo divide anche da Totti, ora sull’altra sponda. «Certo che il distacco c’è. Io volevo continuare e loro no. Se mi dicono che ho la stoffa da dirigente, bene allora da dirigente dico che il contratto a un giocatore come me lo avrei rinnovato. Perché io quest’anno non ho giocato molto ma ho giocato bene». Vecchio sì, ma state sbagliando. Lo pensano anche i tifosi che riempiranno l’Olimpico per la sua gara d’addio, il 26 maggio contro il Parma, già quasi sold out.
«Oggi è un giorno triste, sei stato e sarai sempre mio fratello» gli ha detto Totti. Il vecchio capitano è entrato in banca e lui è rimasto nel fumo delle barricate. Totti s’è messo in giacca e cravatta, De Rossi se ne va a scegliersi il gran finale chissà dove nel mondo. Perfino in Italia lo vorrebbero ancora. Seicentoquindici partite nella Roma e 117 in Nazionale il centrocampista Campione del Mondo 2006, lo stesso piglio di Tardelli, paragonato a Gerrard del Liverpool che dopo 17 anni se ne andò ai Los Angeles Galaxy, solo 2 anni fa lo avrebbe voluto l’Inter. Prima ancora Mancini se lo sarebbe portato volentieri al City.
Fino all’ultimo ha mantenuto lo sguardo torvo, il viso raramente inciso da un sorriso, la barba hipster a camuffarne i sentimenti. Daniele De Rossi non è mai del tutto uscito dal lato oscuro della forza. Quella maniera feroce, incontrollata, fuori di testa, troppo spesso cattiva, di giocare a pallone: la gomitata ai Mondiali a McBride, i cazzotti a Mauri nel derby, espulsioni e squalifiche lo hanno segnato.
Diciotto campionati di A tutti nella Roma, se non è l’ultima bandiera quasi. La vecchiaia gli ha dato responsabilità e profondità, una capacità zen di saper resistere e anzi farsi una ragione, un punto d’onore non aver vinto scudetti a ripetizione ma solo un paio di Coppe Italia perdute nel tempo.
Valerio Mastandrea, profondamente romanista, è la sintesi perfetta di questa filosofia dolcemente rassegnata, che trova soluzione a tutto, anche uno scudetto lì dove non c’è o c’è stato appena prima di lui: «Come 18 anni fa, una festa per lui in ogni quartiere. De Rossi è il nostro scudetto perenne e va sventolato in ogni parte di Roma».
Forse è solo un arrivederci. Figlio di un allenatore, De Rossi studierà e farà l’allenatore. Forse anche alla Roma. L’avevamo già capito. La sera del 13 novembre 2017, Ventura si rivolse a lui per farlo entrare durante il lugubre Italia-Svezia che ci buttò fuori dai Mondiali: «Ma porca mignotta, che metti me? Metti Insigne, dovemo vince, mica pareggià!». Gli avessimo dato retta...


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Luca Valdiserri per il Corriere della Sera
Nel 2012 Daniele De Rossi diede la notizia del suo rinnovo con la Roma a bordo di un taxi guidato da Diego «Zoro» Bianchi. Sketch studiato con l’amico Valerio Mastandrea. Un’esplosione di entusiasmo giallorosso. Ieri mattina un tweet del presidente Pallotta ha ufficializzato che Roma-Parma del 26 maggio sarà l’ultima partita di De Rossi in giallorosso: «Ci commuoveremo tutti quando Daniele indosserà per l’ultima volta la maglia ma rispettiamo la decisione di proseguire la sua carriera da calciatore, anche se, a quasi 36 anni, sarà lontano da Roma. Le porte del club, per lui, saranno sempre aperte, con un nuovo ruolo, in qualsiasi momento deciderà di tornare».
DDR voleva giocare ancora un anno e chiudere la carriera con una maglia sola come Francesco Totti, che lo ha salutato così: «È un giorno triste. Voglio solo dirti che sei stato e che rimarrai per sempre il mio fratello di campo acquisito». Più secco Nainggolan: «Una storia già vista». Dalla Roma che il 10 aprile 2018 battè 3-0 il Barcellona in Champions sono andati via Alisson, il Ninja, Strootman, De Rossi, Di Francesco e Monchi. Molto presto toccherà a Dzeko e Manolas. Demolizione più che ricostruzione.
La sostanza è che De Rossi va per i 36 anni, in questo campionato ha dovuto saltare molte partite per infortunio e la Roma senza Champions dovrà tagliare gli ingaggi. È alle porte una squadra più giovane e meno costosa, magari affidata a Gian Piero Gasperini. Quanto meno, quella di Pallotta è una scelta chiara. Sono le modalità della comunicazione a stupire: De Rossi ha saputo della decisione solo lunedì pomeriggio e ieri ha raccontato la sua schietta versione. I quattro punti fondamentali sono stati:
1) il rapporto con il presidente Pallotta e il consigliere Baldini: «Chissà, forse un giorno parlerò anche con loro. Decide la società, qualcuno deve mettere un punto. Mi è dispiaciuto che ci siamo parlati poco. Le distanze non aiutano... Io voglio ancora giocare, loro non vogliono»;
2) la sensazione di essere stato scaricato già da tempo: «Ho quasi 36 anni e non sono scemo, l’avevo capito: se non ti chiamano mai in dieci mesi, è tutto chiaro»;
3) l’idea sorprendente che ogni porta sia aperta per il futuro, compresa un’altra squadra italiana anche se l’ipotesi più probabile restano gli Stati Uniti: «Il 27 maggio vado in vacanza, visto che quelle di Natale le ho passate a Trigoria ad allenarmi per recuperare dall’infortunio, e poi mi cerco una squadra. Dove? Ne devo parlare con la mia famiglia e il mio procuratore»;
4) il rifiuto di un nuovo ruolo a Trigoria, visto che i centri di potere sono a Boston, Londra e Città del Capo: «Mi dicono che potrei essere da subito un bravo dirigente, ma io da dirigente mi sarei rinnovato il contratto. Quando ho giocato l’ho fatto bene. Il ruolo non mi attira, l’impressione è che si possa incidere poco. Faccio fare il lavoro sporco a Francesco e magari lo ritroverò più avanti».
Si chiude così un’avventura partita dal settore giovanile, con 18 anni di prima squadra, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana, più il Mondiale 2006 e l’Europeo 2004 Under 21 con l’Italia: «Se avessi la bacchetta magica metterei qualche trofeo in più nella bacheca. Ho avuto spesso l’impressione che mancasse un passo per diventare fortissimi ma non posso entrare nei conti economici di un club». Su tutto, una grande tristezza: «Mi immaginavo zoppo e incerottato, con loro che mi dicevano: vai avanti lo stesso!». La Roma non è mai stata così poco romana e romanista.



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Mimmo Ferretti per Il Messaggero
Da una parte la voglia di continuare a giocare con la Roma; dall’altra la decisione di non rinnovargli il contratto, con il club pronto a far restare De Rossi in azienda (cit. Fienga) ma con mansioni inedite. Tutte fuori dal campo. Non si è arrivati ad un accordo perché Daniele vuole continuare a fare il calciatore («Ma loro non hanno voluto»), anche lontano dalla Capitale e forse nel nostro campionato (occhio all’estero, cioè Usa), e pure perché - analizzando il suo virgolettato - non condivide la gestione della Roma attuale. Da qui il suo no all’offerta formulatagli dal ceo Fienga di restare/entrare nei quadri societari. 
Le sue parole aiutano a capire l’intera questione. «Il non rinnovo del contratto mi è stato comunicato ieri (lunedì, ndr), ma ho trentasei anni e non sono scemo. Ho vissuto nel mondo del calcio: se nessuno ti chiama per un anno o per dieci mesi, nemmeno per ipotizzare il contratto, la direzione è quella». Nessuno, insomma, a Trigoria si è preoccupato di affrontare la faccenda nei tempi giusti. Ci ha provato un paio di volte l’ex ds Monchi («Mi aveva rassicurato»), che però a marzo ha fatto i bagagli ed è tornato in Spagna. E da quel momento in poi, come riferito da Fienga, nella Roma ha regnato tanta, troppa confusione. «Ci siamo parlati poco quest’anno, un po’ mi è dispiaciuto. Le distanze a volte creano questo... E spero che si migliori perché sono un tifoso della Roma». Chiarissimo il riferimento al presidente James Pallotta, che da oltre un anno non mette piede a Trigoria. Con una frecciata anche a chi rappresenta il bostoniano nella Capitale e che, al di là del mea culpa di Fienga, non ha preso in considerazione la faccenda nei tempi e con i modi dovuti. Problema sottovalutato? Troppo rinviato, piuttosto. «Non ho rancore nei confronti di nessuno, parlerò col presidente un giorno... E con Franco Baldini (sdoganato per la prima volta in Casa Roma, ndr)». Baldini, dunque, esiste. E da lontano detta la linea e suggerisce molte mosse a Pallotta. Una figura che nell’azienda (AS Roma, si chiama) non c’è, ma in realtà c’è. Eccome. «Io a un giocatore come me avrei rinnovato il contratto, perché quando ho giocato ho fatto bene e nello spogliatoio non creo problemi, anzi li risolvo. Se fossi un bravo dirigente, come dice Fienga, mi sarei rinnovato il contratto».
IL LAVORO SPORCO
Poi, una frase che non lascia spazio a dubbi sui motivi che l’hanno portato a dire no alla scrivania. «Fare il dirigente non mi attira particolarmente, anche se qui a Roma avrebbe un senso diverso. La sensazione è che, anche guardando chi mi ha preceduto, ancora si possa incidere poco (e guardava Totti... ndr), si possa mettere poco in un ambiente che conosciamo bene. Faccio fare il lavoro sporco a Francesco e un giorno se cambierò idea lo raggiungerò. E’ vero che mi accoglieranno a braccia aperte, ma mi piacerebbe fare il lavoro che vorrei fare». Traduzione: non voglio fare la fine di Totti, che due anni dopo il suo ingresso in società non ha ancora un ruolo operativo definito. Parole che alimentano le ombre sull’attuale ruolo del Capitano, ma che - osservando la realtà - non fanno una piega. Totti era lì, a due passi da Daniele. In silenzio, un po’ defilato. «Oggi è un giorno triste. Oggi si chiude un altro capitolo importante della storia dell’As Roma, ma sopratutto di Roma... della nostra Roma», il post di Francesco più tardi. 
Infine, il tasto probabilmente più doloroso per la piazza. «Un piccolo dispiacere che ho è che negli anni tante volte ho avuto la sensazione che la squadra diventasse molto forte, molto vicina a quelli che vincevano, poi è stato fatto un passo indietro. Sono leggi del mercato: alcuni possono permettersi una macchina ed altri macchine diverse. Non posso farne una colpa, non entro nei numeri ma spero che la Roma con lo stadio possa diventare forte». 



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Stefano Carina per Il Messaggero
Giuseppe Giannini, come Francesco Totti, è uno dei pochi che sa realmente quello che sta provando in queste ore De Rossi. Anzi, il Principe – rispetto ai suoi successori – visse addirittura una duplice beffa. Perché impossibilitato a salutare la tifoseria in campionato all’Olimpico il 12 maggio del 1996 contro l’Inter (era squalificato), lo fece con una festa postuma (nel 2000), rovinata da un mix di amore nei suoi confronti e rabbia della tifoseria verso la precedente gestione, a tre giorni dalla vittoria dello scudetto della Lazio.
Trova analogie con il suo addio?
«Tante ma è trascorso tanto tempo e alcune persone non ci sono più. Sarebbe indelicato».
Come ha reagito quando è venuto a conoscenza della notizia? «Male. Sono nervoso, amareggiato, deluso. Un altro pezzo di storia che viene scaricato e allontanato. Mi dispiace, meritava ben altro. Uno che fa oltre 600 presenze con la Roma non può essere salutato con mezz’ora di conferenza stampa o un ringraziamento via tweet. Mi auguro solo che non sia un’indicazione del prossimo tecnico. L’unica cosa che mi ha fatto sorridere è quando Daniele ha detto che la sua auto va in automatico a Trigoria. Mi ha rubato una frase di 20 anni fa. Da casa impiegavo 12 minuti e posso raccontarle anche come erano posizionate le buche».
Dopo l’addio, lei fece un’esperienza allo Sturm Graz e poi accettò offerte dal Napoli e dal Lecce. E fu rimproverato.
«In molti si dimenticano che lo feci soltanto per Mazzone. A Napoli, quando il mister venne allontanato dopo un mese, andai subito in sede e rescissi il contratto».
Che cosa consiglia a De Rossi?
«Di andarsene al mare con la famiglia il giorno di Roma-Parma. Sarebbe un segnale forte. C’è poi il rischio, come accadde con me, che un giorno di festa si trasformi in una contestazione forte nei confronti del club. Tanto la gente che gli vuole bene, ora che lo sa, andrà in trasferta per salutarlo».
In città, alcuni lamentano una presa di posizione di Totti nella vicenda. Condivide la critica?
«Francesco sa come la penso. Tre mesi fa ci siamo incontrati e mi sono permesso di dargli qualche consiglio. Su tutti, quello di andare dal presidente, parlargli e chiedere un ruolo importante. Ognuno poi fa quello che ritiene più opportuno. Se a lui sta bene così...».


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Giulia Zonca per La Stampa
Un modo indolore per salutare Daniele De Rossi non esisteva e così la Roma ne ha scelto uno sbagliato. Non si accompagna una bandiera alla porta soprattutto quando sai che è l’ultima in circolazione. Ma neanche si aspetta la pensione: le bandiere non la raggiungono mai. 
De Rossi nasce bandiera. L’infanzia a Ostia, il papà allenatore, la Roma addosso, in giallorosso a 16 anni. Tanto predestinato da essere Capitan Futuro, un eroe dei fumetti erede dell’unico uomo che è riuscito a guardarlo dritto negli occhi mentre lui diceva addio. Un’esistenza a essere il nome dopo Francesco Totti e poi te lo ritrovi di fronte proprio quando sei pronto a svoltare, uno specchio che sancisce la fine di un’epoca. La fine di una travolgente storia di amore.
Solo lo sguardo fisso di chi è passato dalla stessa vita può raccontarla. Solo lì la malinconia che serve a definire il momento è tanto violenta da essere assoluta. Totti a braccia conserte con l’aria di chi sentirà più di chiunque altro l’assenza: «Sei stato e rimarrai per sempre il mio fratello di campo acquisito». Ecco, uscire dall’ombra di un uomo che viene dipinto sui muri di Roma era praticamente impossibile e De Rossi ci è riuscito perché la sua tempra glielo ha permesso, perché la totale assenza di retorica nella sua testa, nelle sue parole, nel suo gioco gli ha dato la lucidità per non sentirsi mai in ombra.
Lui è il ragazzo che ha vinto un Mondiale in cui ha rischiato il linciaggio. Squalificato per una gomitata plateale, accusato di aver lasciato nei guai la nazionale in cui a 22 anni era già un perno, ha incassato gli insulti e si è ripresentato in finale. Freddo davanti al rigore che altri non avrebbero avuto il coraggio di tirare e che lui non aveva alcuna intenzione di schivare: «Senza non mi sarei sentito campione». Con è stato molto di più, e ci ha messo pure la dedica al portiere della Francia Barthez: «E mo’ buttace li guanti». 
Non è stata l’unica battuta da Romanzo criminale e neanche l’unica gomitata: «Mi si chiude la vena». Di quello si pente, del resto no. 
Fedele alla causa tanto da restare dove a un certo punto ha capito non avrebbe mai vinto abbastanza. Ha mancato lo scudetto di Capello (esordio l’anno successivo) e lo ha rincorso per una carriera che è riuscita a essere superlativa persino senza. Centrocampista nell’anima, capace di tenere insieme la squadra e di cambiarle il ritmo, con un acronimo da stato decaduto, DDR, che ben ne riassume le scelte di confine. I tatuaggi brutti che significano qualcosa, il matrimonio sbagliato su cui non ha voluto sentire ragioni e l’ostinazione di chi può cambiare ma non tornare indietro, non prendere strade diverse. Lo fa ora, solo perché quella che ha scelto è arrivata al capolinea prima di lui e forse andrà negli Usa, patria della donna di cui è innamorato, con cui si è risposato. Con cui ride sereno.
Ha ancora una partita in casa sua, Roma-Parma, e spezzerà il cuore perché scioglie l’unica certezza rimasta. L’ultimo argine tra un passato tanto sicuro da avere una faccia e gli anni fluidi senza fissa dimora. Figurarsi bandiere.


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Antonio Padellaro per il Fatto Quotidiano
Cosa ha detto Daniele? Da quando è meno presente sul campo la sua voce, la vera voce della Roma, si è fatta più limpida, più autentica, più indispensabile. Ascoltarlo a fine partita mi ha sempre aiutato a stemperare la rabbia, a ragionare quando sragiono, a sorridere insieme a lui quando il sorriso gli spunta sotto la barba, e andiamo a letto contenti. In un mondo di fake men, di patentati avvelenatori di pozzi, di cosiddetti comunicatori che passano il tempo a comunicare i loro cattivi umori e personali fallimenti, ascoltare De Rossi significa sapere che lui c’è. Che c’è la persona di cui ti fidi, capace di esprimere concetti semplici, argomentati, in un italiano corretto perché chi parla bene pensa bene. Bello immaginarlo nello spogliatoio mentre incoraggia i più anziani e cazzia i più giovani, con le parole giuste di un capitano che non si fa chiamare capitano perché capitano lui lo è e basta. Puro godimento guardarlo allo stadio mentre prevede lo sviluppo del gioco, e se le gambe non sono più le stesse eccolo mentre entra col tempo giusto sull’avversario, magari con una stecca sulla caviglia tanto per capirsi. E fa niente se nello slancio esagera e si becca un bel rosso e la vena pulsa. DDR c’è.
Cosa ha detto Daniele? Che il presidente non lo ha chiamato, che il consigliere del presidente non lo ha chiamato, che dopo tanti anni ha capito che era finita perché nessuno glielo ha detto. Fino all’altroieri, quando il chi glielo dice è toccato al manager Guido Fienga, triste e solitario: brutto mestiere congedare un sentimento e farsi odiare da una città. Daniele ha detto che non sarà mai un dirigente se dirigente significa strappare quella maglia e cacciare un capitano che, chissenefrega degli acciacchi, sa ancora lanciarsi da un’area all’altra per spingere il pallone dentro la rete, come a Genova con la Sampdoria, e gridare al cielo con i pugni chiusi e restituire speranza. Cos’altro ha detto, e non ha detto, Daniele? Che nello spogliatoio non ci sarà più nessuno a spronare i vecchi e a cazziare i giovani, con uno sguardo. Che non sarà più lui a darci equilibrio, a tenerci calmi, con la lingua italiana e la trasparenza dei pensieri. Voce la sua, spenta la quale ci sarà tempo e spazio solo per gli avvelenatori di pozzi, per massacrare la Roma e spargere sale sulle ferite. Che se per gli americani nella Roma business is business, questa volta James Pallotta ha sbagliato i conti di brutto perché con De Rossi viene cancellata una voce essenziale per un marchio che vende emozioni. Hai ceduto i pezzi più pregiati, hai sbagliato allenatore e direttore sportivo, solo un miracolo ti può mandare in Champions, ti fai snobbare dallo juventino Antonio Conte, la tifoseria cade in depressione, ti era rimasta una grande bandiera e tu cosa fai, l’ammaini (questo Daniele non lo ha detto, ma forse lo ha pensato).
Cos’altro resta? Che il 26 marzo, due anni dopo Francesco Totti, all’Olimpico ci sarà un altro addio, e saremo di nuovo lì a mangiarci il cuore (destino di chi si affeziona alle persone e non alle figurine). Che forse si tratta solo di aspettare che Daniele, un giorno, ritorni tra noi come allenatore. Il problema è che lui di anni ne ha 36. Io 73.




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Andrea Cuomo per il Giornale
Che a Roma poi non erano mica tutti tottiani. C’erano anche i derossiani, quelli come noi: seguaci di una chiesa minore del romanismo, religione nettamente più praticata nella città dove ha il fermoposta anche il cattolicesimo, culto da pellegrini ciabattoni.
I tottiani erano - o forse sono - popolani, paciocconi, buonisti, sempre con la lacrimuccia appesa al ciglio. Core de ’sta città, come recita l’inno di Antonello Venditti, uno che sul romanismo di rito cantautoriale ci ha costruito una carriera. I derossiani sono - o forse erano - più cattivi, acidi, guerrieri, più espliciti. Pane al pane, vino al vino. Rosso, questo, come il cartellino che De Rossi Daniele si è visto sbandierare davanti agli occhi diverse volte, visto che era uno che, come Totti, ha il grilletto del cervello facile: ogni tanto gli parte la brocca e chi ci va sotto ci va sotto. Danielino quando era un pischello rischiò anche di rovinare il Mondiale dell’Italia 2006 che invece qualcuno lassù aveva deciso dovesse vincerlo. Escogitò una gomitata in faccia a tale McBride degli Stati Uniti, fu buttato fuori e l’Italia quella partita rischiò di perderla. Si beccò quattro partite di squalifica ma tornò in tempo per realizzare uno dei rigori della serie che schiantò la Francia in finale. E da reietto si fece eroe. Due anni dopo invece da eroe divenne reietto sbagliando un rigore ai quarti di finale contro la Spagna dopo aver trascinato l’Italia nelle prime partite. Perché con De Rossi va sempre così, il fango e il velluto insieme.
De Rossi vale tre o quattro volte meno di Totti nell’epos giallorosso, e mai si potrà immaginare addio pari per gigantismo e quantità di lacrime versate a favor di telecamera di quelle che innaffiarono il 28 maggio 2017 il «ciaone» del Pupone al calcio. Eppure negli annali risulta che lui, De Rossi da Ostia, ha giocato 117 partite in nazionale, meno solo di Buffon, Cannavaro e Maldini, il doppio (più una) di Totti da Porta Metronia (58), che ha segnato in azzurro 9 gol e De Rossi 21. Totti quindi è sempre stato più romanista che italiano, e De Rossi entrambe le cose, perché quel carisma ruvido che a Roma trovava sempre occupato a causa dell’ingombrante suo compagno, in azzurro si esprimeva con maggiore continuità, senza obbligo di prenotazione. 
Ma i due resteranno sempre nella storia giallorossa non solo perché ne hanno dominato un quarto di secolo ma anche per come ne sono stati esodati, Totti ridotto da Spalletti a una figurina triste e De Rossi ignorato, mai chiamato per un rinnovo che si era capito mai sarebbe arrivato. Colpa di una dirigenza lontana dalla città e dallo Zeitgeist dei tifosi, ma anche dei due calciatori, sempre incapaci di immaginarsi fuori dal raccordo anulare, eroi di trofei quasi mai vinti, ciascuno a rimpiangere un passato che poteva essere diverso e altrove, diverso se altrove. Ma del resto uno che da capitan futuro è diventato direttamente capitan passato senza passare mai per capitan presente sa bene che con i tempi verbali non si scherza. 



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Matteo Pinci per la Repubblica
ROMA — La conferenza stampa l’ha voluta lui, subito, anche se gli consigliavano di posticiparla di 7 giorni: forse per sfogare ciò che gli frullava nello stomaco. Per capire bisogna tornare alle 17 di lunedì: appuntamento tra il Ceo della Roma, Guido Fienga, e Daniele De Rossi. Tre ore insieme a parlare, ma il cuore del messaggio il capitano della Roma l’aveva annusato da tempo: «Non mi rinnoveranno il contratto». Lunedì quel sospetto rafforzato da mesi di dialoghi è diventato una certezza: finisce qui, Daniele. Il motivo gli è stato esposto: la parola chiave a Trigoria è ripartire. Da zero. La squadra quest’anno ha fallito, il club ha scelto Gasperini a cui chiederebbe di ricominciare da un gruppo “vergine”. E che possa sostenere ritmi elevati per ricostruire un’ossessione del lavoro. Chiaro il contrasto con la figura di De Rossi, totem ingombrante dai muscoli ormai fragili. «Ma posso giocarle, 15/20 partite», la replica caduta nel vuoto.
C’è poi un altro punto che pesa nelle valutazioni della Roma. Ed è quello del gruppo. Da settembre, la squadra ha accusato il club per il depauperamento tecnico: in particolare si sono esposti i suoi leader, “offesi” dalle cessioni di colleghi che stimavano come Strootman e Nainggolan. Rinunciare ai “polemici” serve ad azzerare gli alibi della squadra che troppo presto, e troppo spesso, ha tirato i remi in barca in questa stagione.
De Rossi si è convinto che dietro il suo addio ci fossero regie occulte: da qui il riferimento velato al presidente Pallotta e all’ex dg, oggi consigliere ombra, Franco Baldini, estraneo però alla scelta. In realtà la decisione ha certificato altro: la marginalità del Totti dirigente, ferito da questo addio che troppo deve avergli ricordato il proprio. E del tutto escluso dalla decisione: lo ha detto tra le righe proprio De Rossi («I dirigenti qui non possono incidere, spero che Francesco possa contar di più») quasi ventilandone un possibile addio («Spero di ritrovarlo, se tornerò»). Polemico col club pure Florenzi: «Se vuoi rispetto devi dare rispetto».
Non ha potuto prendere la decisone di restare, De Rossi, potrà scegliere dove andare. Senza preclusioni: «In Italia? Vediamo». Voci ricorrenti dicono che Conte sarebbe felicissimo di averlo all’Inter. Uno dei soci di Pallotta ha detto a De Rossi che lo proporrà alle squadre di Mls, il campionato americano: lui accetterebbe solo New York o Los Angeles.


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Massimiliano Castellani per Avvenire
«Svegliarsi un giorno a Roma...», canta Niccolò Fabi, e scoprire che il Futuro è dietro le spalle di Daniele De Rossi, che saluta e se ne va. “Capitan Futuro”, il gladiatorio uomo con la fascia della Roma, dopo 18 anni da trascinatore, sempre in prima linea, ha salutato romanamente le sue schiere a Trigoria: «Se vedemo! ». Ma è un addio molto amaro (che è anagramma di «a Roma»), «perché certi amori non finiscono», canta un altro incupito tifoso romanista, Antonello Venditti, alla notizia dell’ennesima “dismissione” di un capitano giallorosso. La Curva Sud prova ancora il magone al ricordo del “Totti Day”: 28 maggio 2017, Olimpico in lacrime davanti al monologo – stile barcarolodi Lando Fiorini – del “Pupone” e famiglia.
«Francè nun ce lassà», urlava disperata la giovane Sara di «svegliati è primavera». Il milanese snob seduto al caffè di San Babila guardava quelle immagini e commentava sgranocchiando l’olivetta: «Tac, la solita sceneggiata romana». Vero. Questa, nonostante le buche che ne fanno il più grande campo da golf a cielo aperto, è la città anche dei Fori imperiali, delle cento fontane ma anche della risata grassa, di Rugantino e del Marchese del Grillo e anche quella poetica e smaliziata di Gioacchino Belli che era un romano rispettoso e ammiratore di Milano. Nonostante questo lungo letargo delle istituzioni, a Roma è il popolo che comanda, almeno quando si tratta di ricordare la meglio gioventù che passa o è passata su un campo di pallone. Anche Pier Paolo Pasolini, romano d’adozione, aveva chiaro in testa il concetto e si sentiva libero e felice solo quando poteva andare in gol sui campetti spelacchiati delle borgate. Il Poeta è stato assassinato all’Idroscalo di Ostia, «la città degli Spada», per la pubblica ottusità, ma soprattutto, il cuore antico della Roma imperiale e che ha dato i natali a Daniele De Rossi, classe 1983. Anche i murales a Ostia parlano di lui, del “Capitan Futuro”, dell’ex ragazzino figlio di Alberto De Rossi, il vero «papà» della Roma, l’allenatore di tutti i pischelli nati e cresciuti negli ultimi vent’anni nel nobile vivaio giallorosso, Daniele compreso. Daniele è stato l’allievo migliore, un predestinato, come Totti. Don Fabio Capello lo lanciò in prima squadra a 18 anni, ottobre 2001, sfida di Champions Roma-Anderlecht (1-1). Sulla maglia giallorossa il biondino ostiense portava stampato lo scudetto appena vinto dalla Roma, mentre lui, in diciotto anni quel tricolore l’ha sfiorato tante volte senza afferrarlo mai. In compenso si è rifatto in Germania nel 2006, da protagonista, nel bene e nel male, della vittoria della Coppa del Mondo. Per Marcello Lippi «Daniele è titolare irremovibile» ma nella partita contro gli Stati Uniti alza il gomito su McBride e si becca quattro giornate di squalifica. Il volto rosso fuoco di De Rossi quel giorno fece il giro del mondo. In quella espressione c’era tutta la grinta e la rabbia agonistica del lupo che voleva azzannare il Mondiale e invece se ne doveva tornare delittuoso e castigato in tribuna. Ma Lippi gli vuole bene, come tutti i mister che l’hanno allenato alla Roma, perché al coraggio e alla generosità di “Capitan Futuro” tutti riconoscono il dovuto rispetto a cominciare dal ct Roberto Mancini. Così, alla finale mondiale del 9 luglio De Rossi partecipa all’apoteosi sotto il cielo di Berlino: nel secondo tempo entra e prende il posto di fratel Totti. E anche in questa staffetta azzurra-giallorossa campione del mondo, sta scritta la storia di una dualità che non ha mai conosciuto problemi di convivenza. Daniele ha sempre rispettato Francesco come il suo capitano e viceversa Francesco non lo ha mai considerato un vice ma un «capo» a tutti gli effetti. Entrambi hanno stipulato un patto di sangue con la Roma. Totti pur di restare, ha rinunciato a un contratto faraonico con il Real Madrid che magari gli avrebbe garantito qualche Pallone d’Oro da mettere nella bacheca di casa.
De Rossi disse «no thank you» anche a sir Alex Ferguson che lo considerava il miglior centrocampista del mondo e lo voleva a tutti i costi al Manchester United. Totti ha sopportato tutto per amore della Magica, a cominciare dal pressing asfissiante di una città che lo ha elevato al rango di ottavo re di Roma, salvo poi impedirgli di farsi una passeggiata in libertà in via del Corso. De Rossi ha resistito anche a scene da Romanzo Criminale quando è stato minacciato e ferito dalla malavita romana che si era insinuata nel suo primo matrimonio. Allora mise su la barba e risistemò la maglia dentro i calzoncini per affrontare un altro decennio a petto in fuori. Fino a ieri, quando ha fissato il giorno di arrivederci Roma, il 26 maggio contro il Parma sarà la sua ultima partita in giallorosso. Vero che la società non naviga nell’oro e che fino a qualche tempo fa con i suoi 6,5 milioni a stagione De Rossi era il giocatore italiano più pagato della Serie A, ma margini per trattenerlo fino al 20° anno di militanza ci sarebbero stati. Ma mister James Pallotta continua a recitare, e male, il ruolo di un Americano a Roma, senza avere nè l’arte e tanto meno la parte di Alberto Sordi. Il sor Claudio Ranieri, il supplente inglese tornato da Londra al capezzale romanista, non ha potere per fermare la fuga di “Capitan Futuro” il quale però non dà l’addio al calcio. De Rossi che possiede quell’audacia che è mancata a capitan Totti, vuole spendere gli ultimi scampoli di carriera lontano da Roma. La solita fake da blog parla di una chiamata di Pep Guardiola al Manchester City, ma con tutto il rispetto per le immense capacità di adattamento di De Rossi, in questo momento per stare al ritmo- partita della frenetica Premier League, al buon Daniele servirebbe una bombola d’ossigeno per affrontare i febbrili 90 minuti come piacciono a Nick Hornby. E sempre a differenza di Totti, De Rossi oltre al romanesco e l’italiano parla un ottimo inglese, affinato anche con la complicità della compagna, Sarah Felberbaum, attrice e modella di origine anglo-statunitense. Ed è la seconda patria della bella Sarah, gli Stati Uniti, che potrebbe accogliere “Capitan Futuro”: un paio d’anni alla Pirlo a New York, piuttosto che nella Boston del patron “traditore” Pallotta che non riesce o non vuole trattenere l’ultimo core de Roma. Il destino è amaro come questo addio, ma già scritto: dopo il Pupone e Capitan Futuro, ora quella fascia che scotta, tocca al braccio di
 core de nonna Florenzi. A lui l’onere e l’onore di seguire l’insegnamento di Francesco e Daniele, capitani coraggiosi e di lungo corso, ma soprattutto rari uomini di calcio, da «una squadra, una vita».