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 2019  marzo 24 Domenica calendario

Intervista a David Grossman

«Ho scoperto il potere della letteratura quando avevo nove anni e mezzo. Lo ricordo perfettamente. Ero a una cerimonia commemorativa della Shoah, insieme a molti altri bambini della mia età. L’oratore parlava e a un tratto io ebbi l’assoluta percezione che parlasse di me, della mia gente, della mia storia. Mi guardai intorno e in quel momento mi sembrò di essere l’unico che aveva capito. Avevo quella sensazione perché mesi prima mio padre mi aveva portato un libro del grande scrittore yiddish Sholem Aleichem. Me lo aveva consegnato e mi aveva detto: “Leggi David e capirai”. Mi ci ero tuffato dentro e avevo scoperto come era stata la vita di mio padre prima che fosse costretto a lasciare la Polonia, nel 1936: per settimane, mesi, ero stato trasportato in un altro mondo. Allora non lo sapevo ma grazie a Sholem Aleichem avevo scoperto il potere della letteratura, quel tenere insieme i vivi e i morti, la presenza e l’assenza che è l’essenza stessa dello scrivere». A spingere David Grossman, 65 anni, a riflettere sulla narrazione e i suoi significati è la sua partecipazione agli Eventi Letterari di Monte Verità in programma ad Ascona, in Svizzera, dall’11 al 14 aprile. “Sulle spalle dei giganti” è il titolo della settima edizione del festival e il tema da cui parte la conversazione con uno dei grandi maestri della letteratura israeliana e mondiale.

Signor Grossman, lei parla di letteratura e di narrazione. E viene da un Paese che dell’arte di narrarsi è maestro: si è mai chiesto come mai un Paese come Israele, con un’estensione geografica limitata e una popolazione di pochi milioni di persone, sia riuscito a trasmettere un’immagine tanto grande di sé stesso al mondo? Libri, cinema, serie televisive...
«È una domanda complessa. E se devo trovare una risposta, non posso che scavare nel passato. Sin dall’inizio della sua storia, la gente di Israele è stata la gente della parola, del libro. Siamo stati noi a dare al mondo la Bibbia, il libro fra i libri. La parola ci ha tenuto uniti nei secoli della diaspora: di generazione in generazione ci siamo raccontati chi eravamo e perché eravamo al mondo. Credo che sin dal principio in questa piccola tribù ci sia stata un’abilità speciale nella narrazione, e che ci sia ancora oggi. Se leggete la Bibbia con attenzione scoprirete che è un capolavoro di narrazione. Io, da ateo, lo faccio da ventinove anni insieme a un gruppo di amici: la sfogliamo con la lente di ingrandimento, come facevano gli ebrei antichi, attenti a ogni parola, a ogni significato nascosto. Quando fai questo lavoro sin dalla prima infanzia, come per generazioni noi abbiamo fatto, ti abitui a guardare alla realtà come a qualcosa con un significato nascosto, da svelare, come a un enigma da decifrare e da spiegare. Nel farlo noi ebrei abbiamo creato il nostro mito: e abbiamo imparato a pensarci e a raccontarci come qualcosa di molto più grande di ciò che in realtà siamo».
Parlando di narrazione, lei, Abraham Yehoshua e Amos Oz, da poco scomparso, siete stati per anni le voci di Israele: i giganti, per tornare al tema da cui siamo partiti. Ma a guardare il suo Paese oggi, non sembra che dentro i confini della nazione siate stati molto ascoltati...
«Lo siamo stati, ma non tanto come speravamo. Il potere della paura e del racconto dell’odio oggi sono così forti che le cose di cui per anni io, il nostro amato Amos e Abraham abbiamo parlato sono sempre meno accettabili. La situazione è sempre meno incoraggiante per quelli come noi e verrebbe facile chiudersi nella paura e dire che siamo destinati a vivere nell’odio. Ma le assicuro che a resistere a tutto questo non siamo poi così pochi: basta guardare alla nuova generazione di scrittori che ha seguito le nostre orme».
Torniamo ai giganti: a parte Aleichem, lei ha indicato come fonti di ispirazione Primo Levi e Bruno Schulz. Ci spiega perché?
«Ho scoperto Primo Levi quando avevo diciannove, vent’anni e sono stato toccato dalla sua profonda umanità. La maniera in cui ha narrato la vita nei campi nazisti, la perdita di umanità di cui è stato testimone sono qualcosa che mi accompagna costantemente. Quante volte guardiamo alle persone senza più avere nei loro confronti uno sguardo umano? Non è quello che sta accadendo da voi in Italia con i migranti e le politiche di Matteo Salvini? Io non voglio idealizzare la situazione, ma credo che avere uno sguardo di compassione, come quello che ha avuto Levi, sia importante ancora oggi. Quanto a Schulz, è per me un mentore e una fonte costante di ispirazione. Leggerlo è un modo per rinforzare gli anticorpi contro la tentazione di cadere nell’apatia e nella grettezza».

Se dovesse trovare un filo conduttore fra i tre nomi che ha fatto quale sarebbe?
«Direi che mi hanno insegnato l’abilità di resistere di fronte all’arbitrarietà. È una linea rossa che attraversa i miei libri. In ognuno di essi c’è qualcuno chiamato ad affrontare una situazione arbitraria, che sia l’Olocausto, una forza militare o una passione altrui. Aleichem, Levi e Schulz mi hanno insegnato a non essere solo una vittima, ma a reagire: e questa per me come ebreo e come israeliano, come scrittore e come uomo, è una cosa importantissima. Personalmente l’ho sperimentato dopo la morte di mio figlio Uri (ucciso durante la guerra in Libano del 2006, ndr): ero paralizzato dal dolore e solo quando ho trovato le parole per dirlo, per scriverlo, sono riuscito a non essere più solo una vittima ma a ritrovare la vita. Colma di dolore, ma di nuovo mia».
C’è un’altra cosa che per lei è da anni importantissima: il processo di pace con i palestinesi, che pare ormai perduto in un labirinto. A che punto siamo?
«Come ho già detto, nel mio Paese domina la paura. Eppure sono convinto che se ci fosse un leader così coraggioso da mostrare una strada diversa rispetto a quella che perseguiamo molti lo seguirebbero. Le cose potrebbero cambiare. Questo avrebbe conseguenze anche sul discorso che facevamo all’inizio, quello su come noi israeliani ci raccontiamo. Mi piacerebbe che il giorno in cui finalmente arrivasse la pace, noi israeliani abbassassimo la fiamma sotto la nostra immagine, che tornassimo un po’ più con i piedi per terra, e come popolo iniziassimo a vivere una vita più normale. Che iniziassimo a vederci come una nazione come le altre e non come un simbolo. Sono stanco di essere parte di un popolo che ha una Storia più grande di sé: desidererei un po’ di normalità».