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 2019  marzo 17 Domenica calendario

Biografia di Achille Mauri raccontata da lui medesimo

Della vasta e ramificata famiglia Mauri, Achille è un po’ l’eccezione. La pecora smarrita e ritrovata, il talento riposto in imprese stravaganti che non sempre paga, ma arricchisce l’aneddotica. È il lombardo nato a Rimini che si lasciò sedurre dalla Roma pagana degli anni Sessanta, godendone i frutti e pagandone gli effetti. Insomma Achille è la deviazione dall’algoritmo. L’imprevisto. Anche se, incontrandolo nella sua casa milanese ultramoderna, abbiamo l’impressione di un uomo sufficientemente pacificato con la vita, come se a una certa vita avesse dato un taglio. Presidente delle Messaggerie Italiane e della veneziana Scuola dei Librai, Achille Mauri ha un ruolo riflesso nell’ambito del gruppo GeMS, la seconda realtà editoriale del paese. Per non farsi mancare l’affetto dei libri ha anche scritto due romanzi: Anime e acciughe e Il paradosso di Achille (editi entrambi da Bollati Boringhieri). La prosa è serrata nel ritmo, stralunata nel senso.
Perché passare dall’altra parte?
«Non sono io che ho saltato il fosso. È il romanzo che è venuto da me. Ha bussato in giornate di pioggia e io, come un sonnambulo, ho cominciato a scrivere. In quel momento sapevo che non potevo fare altro. Qualcuno dettava e io scrivevo. Mi sembrava di stare dentro un sogno».
Le piacerebbe stare nei sogni degli altri?
«Mi piacerebbe guidare i miei sogni. Feci un corso con uno sciamano per impararne la tecnica. Ma non ho mai capito se davvero funziona. Quando morì mio padre per un po’ ebbi un sogno ricorrente. Sono vicino a un torrente. Sullo spiazzo una tenda da campeggio, una ragazza, un paio di sci, un cavallo e un pallone. Poi improvvisamente arriva mio padre. C’è anche una barca in riva al torrente. Lui ci sale sopra e con un remo, alla maniera dei gondolieri, si allontana. Provo a inseguirlo entrando in acqua. Ma la distanza aumenta. Va verso un punto che sembra una collina, dove ad attenderlo c’è una signora vestita di bianco. Salgono lungo un sentiero e poi spariscono. Mi sveglio con un profondo senso di angoscia».
E che fa?
«Quello che si fa di solito, cerco di dargli un senso. Ma l’idea che fosse la raffigurazione della morte di mio padre non mi tranquillizzava. Non capivo la profondità di quella perdita e perché fosse accaduto a me che nella vita mi ero ampiamente disinteressato del contesto familiare, dei legami di sangue, delle discendenze. Allora vado in analisi. Faccio terapia di gruppo. Niente. Scelgo quella individuale, ma ho come la sensazione di uccidere di noia i miei analisti. Mi chiedo, a parte i soldi, perché sono lì ad ascoltare le assurde cazzate di un paziente. Puro masochismo. Una volta incrociai una cinese in uno studio e mi convinsi che era lì per frustare l’analista. Delirio? Forse. Concludo che se hai qualche problema di testa lo devi risolvere da solo».
È un modo un po’ singolare per iniziare a parlare di sé e della sua famiglia.
«Ricordo il nonno Achille. Realizzò un piccolo impero di teatri. Uomo fantastico. Alla fine dell’Ottocento portò in Europa Buffalo Bill e Toro Seduto. Nel 1905 produsse il primo kolossal del cinema italiano: La presa di Roma. Morì a 44 anni lasciando erede mio padre Umberto. Qualcosa andò storto. Il teatro Eliseo, che allora si chiamava Apollo, si incendiò. Perirono quattro ballerine. Ci fu una richiesta di risarcimento di cinque milioni. Una cifra per quegli anni enorme. A mio padre restò poco. Fu Pirandello a dargli una mano».

In che senso?
«Divenne il suo agente. O meglio il suo procuratore. Lo presentò ad Arnoldo Mondadori e in cambio Mondadori gli diede un ruolo in casa editrice».
Che ne sapeva di libri?
«Aveva sposato la sorella di Valentino Bompiani. Qualcosa ne sapeva. Anzi molto. Con la moglie e il cognato avevano creato un’agenzia letteraria. Credo ci fosse dentro anche Arnoldo Mondadori. E tutti insieme decisero di fare un viaggio in America per incontrare Walt Disney. Tornarono in Italia con un baule pieno di novità editoriali: fumetti come Mandrake, Flash Gordon e Topolino e, in un viaggio successivo, perfino Il piccolo principe di Saint-Exupéry e poi il Monopoli, che da noi nessuno sapeva cosa fosse».
Che anno era?
«I primi anni Trenta. Tornarono negli anni Quaranta. Raccontava mio padre che una sera si mise a giocare a Monopoli con Arnoldo, Valentino e Mario Gasbarri. Non fecero altro che litigare. E Arnoldo sentenziò che era un gioco rissoso, inventato per abituare a perdere. Non possiamo distribuirlo noi, disse. E lo cedette a Giochi Preziosi. Mai errore fu più clamoroso».
Arnoldo aveva la Mondadori, suo zio Valentino nel 1929 fonda la Bompiani e suo padre?
«Dal 1934 al ’38 mio padre fu direttore commerciale della Mondadori e direttore amministrativo della Bompiani. Poi arrivarono le leggi razziali. Giulio Calabi proprietario delle Messaggerie decise di espatriare. Come ebreo temeva le persecuzioni. Con la famiglia andò a Parigi dove raggiunse il genero Franco Modigliani, che diventerà un grande economista, e poi tutti insieme andarono a New York. Mio padre entrò prima con una quota azionaria nell’azienda che rilevò interamente dopo la guerra».
E lei in tutto questo?
«Io nasco a Rimini il 4 settembre 1939. Ero l’ultimo di cinque figli. Silvana la più grande, che poi avrebbe sposato Ottiero Ottieri, Ornella, che si sarebbe occupata soprattutto di musica, Luciano che avrebbe preso in mano l’azienda dopo la morte prematura di nostro padre, Fabio — forse la personalità più complessa e affascinante — e io».
Immaginava che Fabio Mauri sarebbe diventato un artista importante?
«Che fosse predisposto lo intuimmo quando durante la guerra proprio a Rimini, dove eravamo rifugiati, un gruppo di uomini armati ci ammazzò il maiale. Fabio lo avvolse in un lenzuolo di lino, fino a farne una specie di sudario che chiamò la "sindone del maiale": quella credo fu la sua prima opera».
Era un uomo tormentato.
«Aveva una sensibilità estrema, nessuno più di lui avvertiva la pesantezza e l’orrore del mondo. Era stato allievo di Roberto Longhi, amico stretto di Pasolini. A un certo punto interruppe i rapporti con la famiglia. Venimmo a sapere che tutto quello che era accaduto agli ebrei durante la guerra, in quella sequenza di orrori indicibili, aveva avuto un effetto devastante sulla sua psiche».
Cosa gli aveva provocato?
«Nei primi anni Cinquanta cominciò ad alternare crisi mistiche e ricoveri in cliniche psichiatriche. Voleva entrare in convento ma ne usciva in barella. Fu anche ricoverato nel manicomio di Villa Turro, lo stesso che accolse Alda Merini, e lo curavano indifferentemente con dosi massicce di morfina ed elettroshock. Ci volle molto tempo perché riacquistasse un equilibrio. Uscito dall’ospedale fece per otto anni l’insegnante nel Villaggio del fanciullo a Civitavecchia».
Lei pensa che questa lunga e drammatica esperienza nel dolore e attraverso il dolore sia servita alla sua maturazione d’artista?
«Non c’è dubbio che abbia contribuito e del resto molte sue opere richiamano proprio quell’attraversamento drammatico. La malattia, come lui disse, gli chiuse gli occhi. La guarigione gli consentì di aprirli per dare forma alla profondità della vita».
E la sua vita quanto è stata profonda?
«La mia vita è stata per lungo tempo un gioco di superfici e di inquietudini. Scuole in Svizzera primo impiego nell’editoria. Mi presentai da Arnoldo Mondadori, il mio padrino, con una cartella di miei lavori. Non l’aprì neppure. Mi disse: guarda Achille qui hai tutto da imparare, quello che hai fatto finora non serve a nulla. Mi spedì nell’ufficio grafico. Dopo un anno in cui temperavo matite me ne andai».
Dove?
«In Iran. Un’azienda che conoscevo aveva inventato una nuova composizione di bitume con cui asfaltare le strade. Il mio compito era di fornire una serie di informazioni tecniche ai camionisti. Lavoravo in condizioni estreme: 45-50 gradi il giorno e meno 15 la notte. Restai laggiù due anni, lavorando persino per lo Scià. Alla fine tornai in Italia con molti soldi e un’invidiabile collezione di tappeti. Ero ricco. Comprai una Ferrari usata. Ho sempre amato le belle macchine. Ricordo che una tarda mattina andai a prendere mio padre. Quando mi vide disse: non ti azzardare più a farti vedere con quella roba, vendila altrimenti non ti parlo più».
Si era dato alla bella vita.
«Mi piaceva il lusso. Poi ho lavorato alla Fiat con Valletta. Non volevo tornare all’ovile e mia madre scriveva inutili lettere a Giulio Einaudi implorandolo di assumermi».
Alla Fiat cosa faceva?
«Organizzavo un po’ di contabilità industriale. Ma non era per me. Scoprii il cinema e il solo posto dove si faceva era Roma. Venni a viverci nel 1960. Trovai una casa in via del Babuino. Sopra di me abitava l’attore Philippe Leroy, sotto Achille Campanile. Lavoravo per la televisione, progettavo documentari, pubblicavo riviste».
Documentari e riviste di che tipo?
«Feci una rivista sul paranormale. Si chiamava Pianeta. Me la ricordo bene perché fu il biglietto da visita con cui andai nel Dahomey, patria del vodoo e dell’animismo, a girare un documentario sulla magia nera».
Non ci posso credere.
«Ci vennero a prendere con un’automobile lunga 12 metri. Il Re sedeva dietro. Un gigante ci scortò fino al villaggio. Ogni tanto ci fermavamo lungo la strada: comprò o prese una capretta, poi delle galline, perfino dei topi vivi. Disse che sarebbero serviti per la cerimonia. Mi chiamavano "Madame" per via della carnagione molto chiara e i capelli lunghi. La cosa non mi piaceva affatto».
La cerimonia si tenne?
«Iniziò la notte successiva: sentimmo un rumore di tamburi, vedemmo gente danzare e bere. Poi si mosse verso di noi un corteo di sacerdotesse. In testa c’era una specie di gigantessa con una collana di conchiglie e i seni al vento. Mi saltò addosso mimando una specie di coito. Era una scena surreale. Filmammo tutto. Pensai che in Africa non succede mai niente di banale».
Quell’esperienza le è servita?
«Sono diventato animista. Capisco perfettamente il loro sentimento di abbandono alle cose come fossero vive. Ero talmente affascinato dall’Africa che nel periodo in cui ero a New York, ad occuparmi di libri d’arte, proposi a Woody Allen di fare un musical sul quel continente».
Come lo contattò?
«Gli mandai la sceneggiatura e lui mi fece telefonare invitandomi al Café Carlyle, dove tutti i lunedì sera suonava il clarinetto. Ero in apprensione e incuriosito. Andai con la mia amica Idalla Luria che aveva lavorato con Bernardo Bertolucci al Piccolo Buddha. Quando arrivammo era già seduto a tavola con un altro ospite che si alzò subito cedendoci il posto. Scoprimmo che lui invitava quattro o cinque persone diverse a distanza di pochi minuti l’una dall’altra. A noi ne toccarono in tutto sette. Tolti i preamboli ci restarono tre minuti duranti i quali lui ci disse che non gliene fregava niente del musical, dell’Africa e di tutti coloro che gli proponevano delle idee per dei film».
Allora perché vi diede appuntamento?
«Non lo so, forse per essere al centro dell’attenzione o per accanirsi col genere umano. Sembrava che recitasse una parte dei suoi film. Ce ne andammo piuttosto allibiti. Tornai a Roma. Nel 1963 era morto mio padre. Non pensavo fosse così duro il colpo».
Come reagì?
«Male: prima l’analisi, come le ho detto, poi mi smarrii tra donne e gioco d’azzardo. Persi cifre considerevoli. I miei fratelli mi vennero a riprendere e mi portarono a Milano. Ero pieno di debiti. Lavorai alle Messaggerie per due anni senza stipendio. Credo che volessi una via di uscita. E loro mi hanno aiutato a trovarla. Fu una sana riconversione dell’anima».
Come si definirebbe?
«Sono una persona che per sfuggire da sé stessa si cerca».
Si è ritrovato?
«Non lo so o meglio: lo sai solo quando arrivi all’ultima curva. Certe volte penso che si nasce vecchi e si muore bambini».
I suoi libri parlano molto di persone che non ci sono più.
«È il mio dialogo con i morti. Mi mancano i miei fratelli, tutti scomparsi. E allora mi ostino a immaginarmeli mentre vengono a visitarmi. Mi mancano Umberto Eco con cui ho condiviso un’amicizia profonda e Inge Feltrinelli, la donna che ha sprovincializzato Milano. Ho girato il mondo e forse avrei ancora voglia di conoscere luoghi e persone nuove e poi mi dico: Achille rallenta, tanto la tartaruga non la puoi superare».