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 2019  gennaio 26 Sabato calendario

Intervista a Bruno Zanin

A quasi mezzo secolo dalla consegna del premio Oscar ad Amarcord, il protagonista Bruno Zanin ha avuto una di quelle sorprese che ti cambiano la vita. In peggio: ha scoperto che non può avere la pensione come attore. «Mi sono rivolto a un patronato di Domodossola. Dall’estratto conto Inps risulta che, nei 143 giorni trascorsi sul set fra gennaio e luglio del 1973, ero dipendente del Tennis club Diano Marina. Assurdo. Per aver diritto alla minima, dovrei versare altri cinque anni di contributi». 
Zanin abita ai piedi del monte Rosa, a Vanzone, in una vecchia baita. I capelli del Titta Biondi, che nel capolavoro di Federico Fellini incarnò l’amico d’infanzia del futuro regista, sono diventati grigi. Dal 2018 riscuote l’assegno sociale concesso ai meno abbienti: 470,90 euro al mese. «Per arrotondare, ho inventato il libro a chilometro zero». Parla del suo romanzo autobiografico Nessuno dovrà saperlo, scaturito da una violenza sessuale subita a 13 anni, a opera di un missionario che poi si sarebbe impiccato in Venezuela. «Chi legge questo libro, non lo dimenticherà», ha scritto Ferdinando Camon. Fu pubblicato la prima volta dall’editore Tullio Pironti e tradotto anche in spagnolo. Ora l’autore se lo ristampa in proprio e lo invia a chi ne fa richiesta attraverso la sua pagina Facebook. 
Com’è possibile che un attore figuri all’Inps come giardiniere? 
«Non ho mai messo piede in quella località ligure, anzi, a dirla tutta, nemmeno so dove sia. Magari il Tennis club Diano Marina apparteneva al produttore Franco Cristaldi. Eppure sul libretto di lavoro c’è il timbro del legale rappresentante “Società F.C. Srl Amarcord”. Mi sono spariti i contributi su altri film, produzioni Rai in appalto, spot pubblicitari, un paio di fotoromanzi, una stagione teatrale. Addirittura dal carteggio Enpals-Inps risulta che a retribuirmi come attore ci furono persino due società di scommesse sportive». 
Crede che anche Fellini fosse in regola come raccattapalle o allibratore? 
«Come no». (Ride). 
Che tipo era il regista? 
«Insuperabile. Pochi potevano eguagliarlo. Mi scelse per caso fra il pubblico di Cinecittà, dopo che il suo amico Gustavo Adolfo Rol, il sensitivo torinese, gli aveva profetizzato: “Smetti di cercare il protagonista. Ti troverà lui”. Appena scritturato, a me Rol disse: “Sta’ attento, Zanin. Federico è un vampiro”». 
Addirittura. 
«Era istrione, ruffiano, egocentrico, bugiardo patologico. In pubblico affettuoso marito della moglie Giulietta Masina; dietro le quinte tirannico carceriere di Anna Giovannini detta la Paciocca, amante tenuta a sua disposizione dentro una torre di avorio. Governava la troupe in modo imperioso, urlava, pareva Mosè sceso dal Sinai. Tolse il saluto al fratello Riccardo, colpevole d’aver firmato un film da due soldi con il cognome Fellini. Per una beffa del destino morì nella stessa stanza del Policlinico Gemelli di Roma dov’era spirato il congiunto». 
Non starà esagerando? 
«Chieda a Moraldo Rossi, il suo primo aiuto regista. Comunque con me Federico era tenerissimo. Mi scriveva letterine gentili. Si vantava d’avermi raccomandato a Giorgio Strehler per Il campiello al Piccolo di Milano. Saputo che ero senza soldi, mi scritturò per Ginger e Fred, pagato profumatamente per non fare nulla nel ruolo di un paziente bendato, quindi irriconoscibile: secondo lui dovevo restare per sempre il Titta di Amarcord». 
Le voleva bene. 
«E io a lui, moltissimo. Mi ha dischiuso una carriera durata quasi vent’anni e interrotta solo per mia volontà. Non gli ho perdonato due bidoni. Quando mi diede buca in un ristorante cinese di via Cavour, a Roma, dov’ero ad aspettarlo con uno dei miei due figli, all’epoca undicenne, armato di macchina fotografica per immortalare l’evento. E quando a Parigi recitavo in francese Eugène Ionesco al Théâtre de la Ville. Mi aveva promesso di venirmi a vedere con Giulietta Masina. Gli feci tenere due posti in prima fila alla première. L’indomani trovai in camerino un biglietto di scuse: era dovuto andare a cena con la moglie dall’ambasciatore italiano. Peccato che il diplomatico la sera prima fosse con la consorte a teatro proprio per incontrarvi Fellini. Era fatto così. Nella sua villa di Fregene imitava al telefono la voce della colf per non farsi trovare: “Il maestro non è in casa”». 
Mi risulta che lei abbia avuto rapporti un po’ spigolosi nel mondo del cinema, per esempio con Gian Maria Volonté. 
«Teneva le distanze, ma non solo con me. Per assomigliare allo statista dc nel film Il caso Moro, mi trattava come se fossi davvero un brigatista. Un 9 aprile, mentre recitavamo, giunse negli studi della De Paolis una grande torta di compleanno. Lui credeva che gliel’avesse mandata Armenia Balducci, la sua compagna di allora. Ne diede una fetta a tutti, tranne che a me. Quando scoprì che il dolce mi era stato regalato dal mio agente, rimediò una porzione fra i presenti. “Non sapevo che compissimo gli anni nello stesso giorno”, si scusò. “Non sembri un ariete. Per me sei del segno del calamaro. Butti inchiostro per nasconderti, solo tu sai da che cosa”». 
Perché rinunciò al mestiere di attore? 
Il sensitivo Rol mi disse: «Sta’ 
attento, Federico è un vampiro» 
Per non farsi trovare a casa, al telefono imitava la voce della colf 
«È un mondo di cartapesta, di non realtà. Il luogo ideale per alcuni, una gabbia di sofferenza per altri. Io non ho fatto nulla per entrarvi, vi sono stato portato in braccio dalla fortuna. Volevo indietro la mia vita selvaggia di prima». 
Da allora di che ha campato? 
«Mi sono buttato in avventure scriteriate, come quella di andare in Bosnia a fare per tre anni il Brancaleone degli aiuti umanitari fai da te. Ci ho ricavato corrispondenze di guerra per la Radio Vaticana, Der Spiegel, Famiglia Cristiana, una volta anche per il Corriere della Sera. Dopo un periodo di depressione nera, ho ripreso a girare il mondo». 
Dov’è stato di recente? 
«A camminare per tre mesi in Turchia, sulla via Licia, sentiero impervio con panorami inimmaginabili. Mentre ero lì, un giovane film-maker comasco, Alberto Gerosa, mi ha chiesto via Facebook se fossi disposto a lavorare in un documentario-verità che stava girando a Hong Kong. Il personaggio che dovevo impersonare era un prete accusato di pedofilia, fuggito all’estero per evitare l’arresto. Così ho tirato dritto fino in Cina». 
Come riesce a pagarsi questi tour? 
«La provvidenza ogni tanto mi fa l’occhiolino. Per la parte a Hong Kong, per esempio, mi hanno ben retribuito. Vivo di poco o niente, giro con lo zaino, dormo in tenda. Non ho l’auto, non ho vizi, non fumo, non assumo droghe. Ho amici che mi vogliono bene, il miglior investimento che potessi fare nella vita. E nessuno di loro è famoso, se si escludono Raffaele La Capria, il suo ex genero Francesco Venditti e il compianto Edward Melcarth, il pittore-scultore prediletto dal miliardario Malcom Forbes che affrescò l’hotel Pierre di New York e disegnò gli occhiali di Peggy Guggenheim. Mi raccattò in una calle veneziana e mi educò. Andavo a colazione dalla collezionista con lui e il mio cane Whisky». 
So che ha compiuto molte volte il Cammino di Santiago di Compostela. 
«Non mi tiri dentro a competizioni di questo genere, le odio, “io ne ho fatti tre”, “e io quattro”, “ma io li ho fatti d’inverno”. Il Cammino di Santiago è diventato la via Veneto di un tempo. Pochi lo affrontano con lo spirito delle origini. I pellegrini fighetti lo percorrono per sfoggiare materiale tecno da migliaia di euro, Zanin per ammazzare la disperazione che ogni tanto gli serra la gola». 
Qual è il suo più grande desiderio? 
«Chiedere scusa a tutte le persone che ho ferito e scandalizzato con comportamenti da filibustiere. Vorrei dire al regista Marco Tullio Giordana che sono molto addolorato per aver perso la sua amicizia. Mi ha rivelato un dono, la scrittura, che non sapevo di possedere. È una gran bella anima, non lo sento da una quindicina di anni. Colpa mia. Talvolta mi capita di essere cattivo perché le mie rotelle non sempre funzionano». 
Da chi ha avuto di più nella vita? 
«Dalla buonanima di mia madre Adele, che mi ha insegnato sin da piccolo a credere nel bene, a perdonare, a dare una mano a chi è in difficoltà. Ho avuto un’infanzia edenica nei campi del Veneziano. Portavo i fiori alla Madonna, ripetevo all’infinito la giaculatoria “Gesù e Maria ve vogio tanto ben” insegnatami da mia nonna Teresina, cadevo in estasi. Durante una di queste trance, vidi una donna che affogava con due bambine in un canale. La sera ne parlai in casa. L’indomani fu trovata una mamma annegata con le figliolette: s’era suicidata». 
Crede ancora in Dio? 
«Sì, ma ultimamente sono più dubitante che credente. Temo che Lui non si fidi più dell’umanità, che ci abbia abbandonato al nostro destino. In duemila anni di cristianesimo lo abbiamo troppo deluso. Siamo egoisti, intolleranti, pronti a maltrattarci a vicenda, finti. Sento di essere fasullo anch’io. Recito una commedia infinita. Lo dimostra questa intervista, in cui ho fatto di tutto per sembrare simpatico, intelligente e originale». 
Può dirsi felice? 
«A volte mi capita di esserlo per qualche momento: un gatto che viene a strofinarsi tra le mie gambe, un cane che mi scodinzola, un bimbetto che mi sorride, un amico che mi telefona. Cose minime eppure enormi. Quanto l’infelicità di non riuscire più a godere d’essere vivo in questo mondo sgangherato che mette paura».