La Stampa, 5 aprile 1968
Martin Luther King, l’uomo che predicava la non violenza caduto vittima dell’odio razziale.
«Non troverò pace finché la segregazione razziale non sarà morta in America», disse Martin Luther King, poco più che ventenne quando era ancora studente al seminario Grozc in Pennsylvania. Arrestato, incarcerato, picchiato selvaggiamente, sfuggito più di una volta per puro caso ad attentati, per tredici anni rimase fedele ai suoi princìpi pacifisti: «La protesta non violenta – era solito affermare – è l’arma più potente per una minoranza. Sono convinto che se noi cediamo alla tentazione di una violenza nella nostra lotta per la libertà, le generazioni future dovranno sopportare una lunga e desolata notte di amarezza e il nostro precipuo lascito ad esse sarà un interminabile regno del caos». Per le sue idee moderate, era più accetto ai bianchi che ai negri: fra la sua gente, fra gli estremisti dei musulmani neri, egli aveva i più irriducibili nemici. Ne ammiravano il coraggio, la forza del carattere, la sincerità profonda che ispirava ogni sua azione, e tuttavia lo odiavano: erano convinti che la sua parola ritardasse la vittoria della loro razza, una vittoria che doveva risolversi nell’annientamento dei bianchi. Nato ad Atlanta, in Georgia, il 15 gennaio del 1929, l’anno della grande crisi, da un pastore battista, si laureò in teologia a Boston, e abbracciò la carriera ecclesiastica del padre. Nel ’55, dopo aver completato i suoi studi a New York e a Parigi, accettò una desolata parrocchia di Montgomery, nel cuore del Sud razzista. Dapprima i suoi parrocchiani nutrirono una certa diffidenza per questo pastore intellettuale dai modi quasi raffinati; mese dopo mese egli si conquistò l’anima dei fedeli con semplicità, con parole umane, comprensibili a tutti. Il 4 dicembre di quell’anno iniziò la sua battaglia. Fece distribuire un manifestino che diceva: «Da domani non userete più l’autobus per recarvi al lavoro, in città, a scuola, al mercato. Un’altra donna negra e stata arrestata e gettata in carcere perché ha rifiutato di cedere il posto su un autobus della città. Andate al lavoro a piedi, o chiedete un passaggio a un autista negro». Il boicottaggio dei trasporti pubblici durò 381 giorni, oltre un anno di terrore. I razzisti bruciarono i negozi della gente di colore, lanciarono attentati dinamitardi contro le loro case. I negri guidati da King non rispondevano alle violenze. Lasciavano sfogare il furore dei bianchi e cantavano il loro inno, la Montgomery Story: «Se non posso sedere fra gli altri, secondo la legge della mia terra, camminerò sotto la pioggia e sotto il sole, finché la legge non sarà cambiata nella mia terra». Luther King conobbe per la prima volta la prigione, ma la Corte Suprema dichiarò incostituzionale la segregazione sugli autobus di Atlanta. Sposato, con quattro figli, negli anni seguenti divenne un simbolo delia rivolta negra: accorreva ovunque divampasse la fiamma della violenza. Fra l’unico uomo in tutti gli Stati Uniti capace di far ritornare la pace in un ghetto nero in rivolta. Egli riusciva dove fallivano i reparti in assetto di guerra della Guardia nazionale, i gas lacrimogeni, le cariche, i Black Muslims dicevano: «Luther King è un venduto, un nemico del nostro popolo». Ma i razzisti sapevano che un suo sermone era più pericoloso degli esacerbati inviti all’annientamento, alla morte, alla distruzione di Malcolm X. Nel 1962 guidò la campagna nazionale a favore dello studente Meredith che si era visto rifiutare l’iscrizione dall’Università di Oxford nel Mississippi. Meredith riuscì a frequentare i corsi, e Luther King finì di nuovo in prigione. Gli spararono e lo ferirono di striscio al collo, gli lanciarono contro un candelotto di dinamite che rotolò ai suoi piedi ma non esplose. Amico di John Kennedy, seguito da milioni di americani e non solo di colore, la sua popolarità era al culmine: a lui guardavano tutti i diseredati degli Stati Uniti, di qualunque colore fossero. Nel ’63, la rivista Time lo proclamò uomo dell’anno. L’Università di Yale gli conferì la laurea ad honorem con questa significativa motivazione: «Come la vostra eloquenza ha infiammato il sentimento offeso della Nazione, così il vostro tenace rifiuto di opporre la violenza all’ingiustizia ha aumentato il nostro sentimento di vergogna». Nel 1964, secondo negro nella storia, gli fu assegnato il Premio Nobel per la pace (nel ’60 era andato al leader sudafricano Albert Luthuli). Martin Luther King lasciò i 33 milioni del premio al suo movimento e dichiarò: «Non considero il Nobel come un onore personale ma come un omaggio alla disciplina, all’accorto senso della misura e al coraggio di milioni di negri e di bianchi di buona volontà che hanno seguito la via della non violenza, cercando di instaurare un regno di giustizia e una legge d’amore in tutto il Paese». Lo scrittore americano e monaco trappista Thomas Merton scrisse che Luther King «è certamente il più grande esempio di fede cristiana in azione nella storia sociale degli Stati Uniti». Mentre i «musulmani neri» andavano predicando che ogni negro oggi vivente in America è il frutto di una lontana violenza, di uno stupro del ladrone bianco sulla schiava negra e rifiutavano questa paternità subita arrivando a cancellare il cognome con una simbolica «X», Martin Luther King affermava con profonda consapevolezza storica e sociale: «Il destino dei negri americani è legato a quello dell’America. Sarebbe un’assurdità cercare di sfuggire al nostro passato e al nostro presente. I negri debbono vedere nell’America la loro patria, e non possono risolvere i loto problemi con la fuga, ripudiando un’eredità che è qui in America. E per cattiva che sia questa eredità, la soluzione del problema va cercata qui dove siamo nati e cresciuti, dote i nostri padri hanno lavorato per due secoli». Roberto Giardina