Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  dicembre 12 Mercoledì calendario

Biografia di Ben Bernanke

Ben Bernanke (Ben Shalom B.), nato ad Augusta (Georgia, Stati Uniti) il 13 dicembre 1953 (65 anni). Economista. Già presidente della Federal Reserve (2006-2014). «Sì, ho passato notti insonni. Soprattutto negli ultimi quattro mesi del 2008. Ma non c’era tempo per pensare: dovevamo occuparci di risolvere i problemi. Credo di essermi sentito un po’ come un guidatore che sta per cadere con la macchina dal ponte e manovra per evitarlo. È solo dopo che rifletti e dici: “O mio Dio…”» • Primo dei tre figli di una famiglia ebraica. «Il nonno Jonas, ex ufficiale austroungarico, prigioniero di guerra in Russia, arrivò negli States durante la Grande depressione e comprò una piccola farmacia a Dillon, cittadina al confine tra le due Carolina. Il giovane Ben Shalom suona il sax, gioca a football, compone poesie e anche un romanzetto, ma soprattutto studia, mentre il padre gestisce la farmacia e la mamma bada alla casa mantenendo le tradizioni kosher. […] Le foto lo ritraggono ragazzino con gli occhiali già primo della classe, il giovane più intelligente della sua città» (Stefano Cingolani). «I suoi sogni di ragazzo morirono per una stella alpina, un “edelweiss”, la parola nella quale Ben Shalom Bernanke inciampò a undici anni nella finale nazionale di ortografia a Washington nel 1964, perdendo l’invito al più popolare show televisivo del tempo. […] Una parola che lui, nipote di un immigrato austriaco, avrebbe dovuto conoscere benissimo. […] "Il mio momento di gloria sfumato per non avere ricordato che ‘edelweiss’ finisce con due ’s’ – confessò – mi spinse a rituffarmi nello studio". […] In quella famiglia, come in tante famiglie di emigrati ieri ebrei o italiani, oggi cinesi e indiani, regnava l’imperativo dello studio, come unico, sicuro sentiero per scalare il sogno americano. Ben eccelleva in tutto, senza mai dare l’impressione di essere più di un ragazzo timido: i concorsi di ortografia, la matematica, persino il trombone, che suonava nella banda marciante del liceo, e infine nei test di ammissione all’università, dove segnò 1590 punti sul massimo di 1600» (Vittorio Zucconi). «Dopo Harvard, prende il dottorato al Mit e incontra la giovane Anna, che frequenta il Wellesley, college per signorine “bene”. Si sposano presto e fanno due figli. Ben si fa crescere un barbone nero e comincia a perdere i capelli. Ma la sua carriera accademica miete un successo dopo l’altro. Senza perdere quell’aria di bonomia e il sorriso gentile. […] A Princeton, dove ottiene la cattedra, diventa uno dei maggiori esperti sulla Grande depressione» (Cingolani). «A Princeton […] resta 17 anni filati, arrivando a dirigere il dipartimento di Economia. A metà 2002 entra nel board della Fed, e nel giugno 2005 passa alla guida degli economisti di Bush. Fino a quel momento […] non gli veniva attribuita alcuna affiliazione politica. Anzi: finché stava alla Fed era considerato l’apolitico stratega che consigliava lucidamente Greenspan [Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve dal 1987 al 2006 – ndr]. Prima nel portare i tassi fino al livello incredibilmente basso dell’1% – la discesa avviata all’indomani dell’11 settembre 2001 – e poi, dall’estate 2004, nel rialzarli. […] Una doccia scozzese che ha funzionato per la crescita, meno – dice Bernanke – per i conti pubblici» (Eugenio Occorsio). «Già nel febbraio 2000 si era cominciato a parlare di lui come di un possibile erede di Greenspan; il motivo ai giornali lo aveva offerto lui stesso, con un articolo sul Wall Street Journal – scritto a sei mani con altri due economisti – titolato "Cosa succederà quando Greenspan se ne sarà andato?". Ipotesi che era diventata quasi per tutti una certezza quando […] George W. Bush lo aveva nominato presidente del Council of Economic Advisers, l’organismo di analisti e consulenti economici della Casa Bianca, che oltre ad essere una carica tecnica è un incarico che necessita dell’imprimatur politico e della piena fiducia del presidente. Leale a Bush e repubblicano come il presidente, ma stimato anche dai democratici» (Alberto Flores D’Arcais). Fu infatti Bernanke che Bush scelse come successore di Greenspan, quando finì il quasi ventennale mandato del «Maestro» alla guida della Fed. «Era il 1° febbraio del 2006, quando il nipote del droghiere austriaco giurò. La finanza americana pompava e succhiava spensieratamente miliardi immaginari, preparando l’acqua nella quale sarebbe sprofondata. Ben non l’aveva previsto. L’estate del 2008, quella che costò a Bush i resti del suo prestigio e agli ideologi del mercato autoregolatore molta della loro credibilità, lo vide sballottato tra decisioni contraddittorie e confuse. Davanti a un mondo in apnea da terrore globale, iniettò miliardi per salvare almeno il guscio di famose case finanziarie come la Bear Stearns e per puntellare colossi vacillanti come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Citigroup, Bank of America, mentre permise, dopo un week end di tregenda e di discussioni non-stop, alla Lehman Brothers di andare a picco [il 15 settembre 2008 – ndr]. "Fu in quel momento – dirà poi John Mack, il presidente di Morgan Stanley conosciuto come ‘Big Mac’, il superpanino McDonald’s – che pensammo che Ben fosse stato travolto dalla crisi e che il cielo stesse per caderci in testa". Non cadde, perché, dopo lo sbandamento, Ben Bernanke tornò ai suoi papiri e ripescò la soluzione che lo studio della Grande depressione gli aveva suggerito. Aprire le dighe del credito e inondare un’economia inaridita con più miliardi di quanti mai, nella storia dell’economia, fossero piovuti in così breve tempo da un governo. […] Tra gli starnazzi di "statalismo" e di "socialismo" lanciati dalle oche del liberismo massimalista, Ben, divenuto discretamente l’ufficiale pagatore per la guerra del nuovo generale Barack Obama, "riuscì a salvare un malato che sembrava ormai terminale", come ha ammesso anche il più pessimista fra i catastrofisti, Nouriel Roubini della New York University» (Zucconi). «Lehman fu lo shock che salvò tutti gli altri. In nome del contagio sistemico, che poteva sprofondare l’intera finanza mondiale nel disastro, passò lo slogan "mai più un’altra Lehman". Nasceva così la dottrina "too big to fail": ci sono colossi finanziari troppo grandi perché li si possa lasciare fallire (con il corollario del "too big to jail": nessun mega-banchiere è finito in carcere). 600 miliardi finirono nel fondo Tarp per i salvataggi bancari. […] Dopo il Tarp ebbe inizio l’èra segnata da uno straordinario protagonismo delle banche centrali, con l’esperimento estremo di politica monetaria condotto dalla regina fra loro: la Federal Reserve americana. Un esperimento fatto di massicci acquisti di bond sui mercati, per azzerare il costo del credito e inondare di liquidità l’economia. I rialzi poderosi delle Borse mondiali, Wall Street in testa, sono strettamente legati a questa terapia d’urto» (Federico Rampini). «Nelle scelte di politica monetaria e bancaria, Bernanke ricorda molto il dottor Frankenstein: prima ha contribuito a creare un mostro – la finanza ombra –, ma poi ha avuto almeno il merito di ingabbiarlo; infine però, invece di iniziare a smontarlo, ha preferito continuare a nutrirlo, lasciando ad altri […] l’onere di affrontare il problema. […] Il Bernanke prima della crisi verrà ricordato come uno degli autori – inizialmente in coabitazione con il suo predecessore Alan Greenspan – dell’azzardata politica monetaria e bancaria che ha costituito il detonatore prima e il propellente poi della Grande crisi. Negli anni che vanno dall’inizio del millennio al 2007, la politica della Fed è stata eccessivamente espansiva dal lato della gestione dei tassi di interesse ed eccessivamente lassista per quel che riguarda la politica di regolamentazione e vigilanza bancaria. La stella polare della fase lassista della Fed è stata nei fatti la crescita illimitata del debito privato, in tutte le sue possibili forme. La crescita del debito doveva essere funzionale a una crescita economica stabile ed equilibrata: dare a tutti la possibilità di indebitarsi sembrava la forma insieme più efficiente e democratica di disegnare la politica finanziaria; quindi bassi tassi e deregolamentazione dovevano andare a braccetto. L’effetto aggregato è stata la crescita straordinaria della cosiddetta finanza ombra, caratterizzata da dimensioni inedite, complessità crescente e interconnessione sempre più profonda con le banche tradizionali, quelle cioè il cui debito viene utilizzato come mezzo di pagamento. […] Bernanke ha grandi responsabilità nell’avere prima assecondato, e poi proseguito e anche difeso la politica del suo predecessore. Emblematici esempi dell’incapacità di Bernanke di ripristinare una gestione ordinata sono l’espansione monetaria a ridosso della crisi e l’ondivaga gestione delle crisi bancarie – si salva Bear Stearns, si lascia fallire Lehman Brothers. […] Esplosa la crisi nel 2008, Bernanke ha saputo gestirla in modo molto efficace. L’eccesso di lassismo aveva portato il sistema a una crisi sistemica; in una tale situazione, ci sono due possibilità: cercare di correggere subito l’eccesso di lassismo, passando a una politica monetaria restrittiva; ovvero accomodarlo, cercando di far passare la crisi di fiducia attraverso ulteriori iniezioni di liquidità. Negli anni Trenta la Fed aveva scelto la prima opzione, compiendo un clamoroso errore: quando il sistema economico è talmente avverso al rischio da avere una sete di liquidità insaziabile, negargliela può essere fatale. In una trappola della liquidità – geniale intuizione di Keynes – la politica monetaria non può che essere espansiva, per ripristinare la stabilità finanziaria, mentre a nulla serve in termini di crescita economica, che va stimolata con altre politiche. Bernanke ha correttamente scelto la seconda opzione, facendo assumere all’espansione monetaria connotati inediti in dimensione e modalità, inclusa l’assunzione di rischio. […] Passata la fase più critica della crisi finanziaria, occorreva affrontare un suo frutto altrettanto doloroso: la recessione economica. Con il passare dei mesi, la politica della Fed veniva messa davanti a un bivio: […] continuare ad alimentare la trappola della liquidità, ovvero disegnare un percorso di uscita? […] La politica monetaria è rimasta passivamente ultra-espansiva, e la regolamentazione è ancora lassista. Come prevedibile, l’effetto sulla crescita è stato incerto e decrescente; sicuramente positivo invece quello sui profitti dell’industria bancaria e finanziaria» (Donato Masciandaro). «L’affidamento alle politiche monetarie è stato considerato da taluni eccessivo. Ma, con l’ostinazione del Congresso ad imporre una stretta fiscale dalle tempistiche grottesche, la Fed è rimasta l’unica istituzione in campo. In definitiva, la Fed è riuscita ad affrontare la crisi e le sue conseguenze in un contesto particolarmente complesso. E il suo presidente ha avuto in ciò un grande merito» (Martin Wolf). Il 31 gennaio 2014 Bernanke concluse il suo secondo mandato alla presidenza della Fed: a subentrargli fu Janet Yellen. «Negli otto anni alla guida della Federal Reserve, Ben Bernanke vantava redditi annuali da circa 200.000 dollari. […] Ora l’ex governatore è impegnato in una raffica di discorsi con banchieri, hedge fund manager e leader aziendali che […] gli permetteranno di incassare milioni di dollari. […] Nel mondo degli investitori, che gravita in larga parte intorno alla Fed e alle sue politiche monetarie, la parola di Bernanke è pagata a peso d’oro: tra i 200.000 e i 400.000 dollari è il suo compenso per partecipare a conferenze che vanno dal Medio Oriente all’Asia, passando per l’Europa. […] In molti casi Bernanke tiene discorsi senza chiedere compenso, e un suo portavoce ha tenuto a ricordare le “centinaia di migliaia di dollari” da lui donati in beneficenza. Nonostante la sua fitta agenda di conferenziere in giro per il mondo, l’ex capo della Fed trascorre la maggior parte del suo tempo come esperto di economia alla Brookings Institution» (Paolo Mossetti). Allontanatosi da tempo dal Partito repubblicano, nel 2018, a proposito della riforma fiscale varata dall’amministrazione Trump, ha dichiarato: «Lo stimolo è arrivato nel momento sbagliato. L’economia è in fase di piena occupazione. Lo stimolo avrà effetti molto positivi quest’anno e l’anno prossimo, e poi nel 2020, come Wile E. Coyote, l’economia Usa finirà nel precipizio» • «Tanto Alan Greenspan era stato oscuro, intuitivo, rapsodico, quanto è chiaro, razionale, prevedibile Bernanke. Il suo incubo è la depressione economica, il suo faro è Milton Friedman, dalla cui opera fondamentale sulla storia monetaria degli Stati Uniti ha ripreso la teoria dell’elicottero: una banca centrale può sempre evitare una deflazione e, quindi, una crisi di lungo periodo, facendo cadere la liquidità nel sistema, come acqua da un elicottero per irrorare i campi colpiti dalla siccità. Da allora lo chiamano “Helicopter Ben”. […] Mai come questa volta gli studi accademici sono serviti anche nella vita reale. Teoria e prassi a braccetto per superare la crisi finanziaria peggiore dopo quella del 1929. La lezione numero uno è stata evitare un atteggiamento passivo della Banca centrale. L’interventismo, a volte frenetico, gli ha provocato critiche sia dai colleghi accademici sia dal Congresso, che ha respinto l’idea di una Fed troppo potente. Ma Helicopter Ben non ha smesso di far piovere moneta su un sistema finanziario disseccato dal panico, come le fauci di una fiera sul punto di essere uccisa. Migliaia di miliardi di dollari, e non basta: tassi d’interesse a zero, prestiti a tutti, dai fondi d’investimento alle rate per l’automobile; il bilancio della Banca centrale si è riempito di titoli marci ed è cresciuto di ben tre volte. “Siamo arrivati molto molto vicini a una nuova depressione”, confessa al Time, “i mercati erano in shock anafilattico”. E per lui niente è peggio della depressione: né l’iperinflazione, né i megadeficit, né i crediti cinesi. “Capire la Grande depressione è il Sacro Graal della macroeconomia”, ha scritto nella sua raccolta di saggi. “Non abbiamo ancora in alcun modo le nostre mani sul calice, ma abbiamo compiuto un progresso sostanziale verso la comprensione della depressione”» (Cingolani) • «Gli chiedo quanto tempo gli ci è voluto per riprendersi dopo aver lasciato la Fed. […] “Ventiquattr’ore circa”, dice. “‘Sollievo’ è una parola un po’ forte, ma sono molto felice di essere tornato alla vita civile. Seguo da vicino quello che succede nell’economia, quello che succede nella Fed. Ma non ho più la responsabilità di prendere quelle decisioni difficili. Era un grosso fardello”. […] “Sì, io ritengo che la Fed qualche ruolo nella crisi l’abbia avuto, ma non tanto nella politica monetaria quanto nel fatto di non aver tenuto sotto controllo, insieme agli altri organismi di regolamentazione, l’erogazione di mutui inadeguati e l’eccessiva assunzione di rischio che stava pervadendo il sistema. Questo, insieme alle vulnerabilità strutturali dei mercati della raccolta fondi e così via, ha portato al panico”. […] Gli chiedo se pensa che il miglioramento della capacità di resistenza delle banche sia adeguato. “A prevedere che tutto andrà bene c’è solo da rimetterci, perché o tutto va bene, e in questo caso nessuno si ricorda della tua previsione, oppure succede qualcosa, e in questo caso…”. Si ricordano della tua previsione, intervengo io. Bernanke continua: “Il mio mentore, Dale Jorgenson, di Harvard, diceva sempre (e lo diceva anche Larry Summers) che ‘se non perdi mai un aereo, significa che trascorri troppo tempo negli aeroporti’. Se escludi assolutamente qualsiasi possibilità di una crisi finanziaria di qualunque genere, probabilmente significa che stai riducendo troppo il rischio, in termini di crescita e innovazione dell’economia”. […] Per finire gli faccio la domanda forse più importante a proposito della crisi. Sarebbe stato possibile evitare il fallimento della Lehman nel settembre del 2008? “No”, risponde fermamente. “Era assolutamente inevitabile. Senza un compratore, non c’era nessuno che garantisse le loro passività, e nessuno gli avrebbe prestato un soldo. Tutti i creditori, le controparti, i clienti le stavano addosso. E, se avessimo prestato soldi alla Lehman e in qualche modo fossimo riusciti a inventarci qualche garanzia fasulla, violando la legge, la società sarebbe diventata di nostra proprietà, ed era una società non solvibile”. Aggiungo che fu solo grazie al fallimento della Lehman che il Congresso finalmente concesse i poteri necessari per il salvataggio (attraverso il Tarp, Troubled Asset Relief Program). “Alla fine, qualcosa sarebbe successo”, concorda lui. Sotto la guida di Bernanke la Fed, a prescindere dagli errori commessi prima della crisi, ha contribuito a salvare gli Stati Uniti e il mondo da un disastro. L’umanità dovrebbe essere riconoscente, penso mentre me ne vado. L’umanità, essendo umana, in maggioranza non è riconoscente» (Wolf) • Nell’ottobre 2015 Bernanke ha pubblicato il libro The Courage to Act: A Memoir of a Crisis and Its Aftermath («Il coraggio di agire. Memoriale di una crisi e sue conseguenze»). «A lui quel coraggio non è mancato, fino al punto di introdurre un meccanismo come il Quantitative easing, che segna “la fine dell’ortodossia”. […] Nel racconto di Bernanke […] c’è il ricordo di quando, il giorno dopo Lehman Brothers, ha salvato Aig (la gigantesca compagnia che assicurava le assicurazioni), con un prestito di 85 miliardi di dollari che scosse il Congresso. “È una sua decisione e una sua responsabilità”, gli disse il potente senatore Harry Reid, leader dei democratici. Bernanke se l’è assunta senza scaricarla sull’amministrazione Bush. […] L’ex presidente della Fed […] leva il dito contro le responsabilità tedesche e i ritardi della Banca centrale europea. “La Bce sotto la leadership di Mario Draghi alla fine ha realizzato un vasto programma di quantitative easing – scrive Bernanke –, ma non è cominciato fino al 2015, quasi sei anni dopo che programmi simili sono stati messi in opera negli Usa e nel Regno Unito”. Francoforte ha suonato a lungo una musica diversa. Berlino e i suoi alleati nell’eurozona “hanno spinto troppo duramente e troppo presto per l’austerità fiscale in Paesi (Germania compresa) che non avevano problemi fiscali a breve termine, mentre nello stesso tempo resistevano ad azioni monetarie non convenzionali”. […] L’ex banchiere statunitense non è un keynesiano “spendi e spandi”; segue la dottrina fiscale americana secondo la quale il bilancio pubblico va usato come un organetto: si gonfia quando c’è la recessione e si sgonfia con la ripresa. Negli Stati Uniti è successo esattamente questo dopo il crollo del 2008. Per Bernanke, la politica fiscale in equilibrio è neutrale nel senso che non ostacola né stimola di per sé l’attività economica. Ciò vuol dire che l’austerità va bene quando la produzione e l’occupazione aumentano: allora si mette fieno in cascina per i tempi delle vacche magre. Perché arrivano, non c’è dubbio. L’ex capo della Fed sottolinea con orgoglio che questa volta non sono stati commessi i madornali errori degli anni ’30, ma non è stata certo eliminata la possibilità di una nuova crisi. L’economia resta ciclica: il problema è capire quando arriva la bufera, e soprattutto avere a disposizione gli strumenti per affrontarla» (Cingolani) • «Un uomo calvo, con la barba grigia e gli occhi stanchi. Non ha una naturale attitudine al comando, non è un parlatore che incanta, non possiede nessun carisma tipico di chi occupa i giganteschi uffici di Washington. I suoi argomenti non sono mai partigiani o ideologici; sono metodici, fondati sui dati e sull’ultima letteratura accademica. Quando non sa una cosa, non bluffa. È professorale, certo, dato che ha trascorso la maggior parte della sua carriera come professore. […] È timido e non fa parte del circuito dei party che domina la capitale; preferisce mangiare a casa con la moglie, lavare i piatti e portare via l’immondizia. Fanno insieme le parole crociate o leggono. Perché Ben Bernanke è un nerd» (Michael Grunwald nel dicembre 2009, sul numero di Time che incoronò Bernanke persona dell’anno). «Sovrumana capacità di compromesso, di razionalità e soprattutto di rassicurazione. […] Nessuno […] ricorda di averlo mai sentito gridare. Quando gli fu chiesto perché, la sua risposta fu semplice, quasi talmudica: […] "Se gridi nel silenzio, sembri un pazzo. Se gridi quando tutti urlano, nessuno ti sente"» (Zucconi) • Grande tifoso della squadra di baseball dei Washington Nationals • «Non si può dire che abbia sempre ragione, ma non si può mai dire che non sia il più preparato» (Paul Krugman) • «Bernanke sarà senza dubbio ricordato come uno dei migliori presidenti della Fed. C’è voluta però una eccezionale iperattività per salvare il mondo dalla rovina economica. Questo la dice lunga sulle fragilità del “magnifico” sistema finanziario globale di oggi e sulla fiducia che in esso si può riporre. Bernanke ha salvato la baracca. Ma ha anche lasciato irrisolte questioni decisive per il futuro delle banche centrali, della moneta e della finanza. Bisognerà occuparsene. Sono questioni fondamentali» (Wolf).