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 2018  dicembre 11 Martedì calendario

Verso la procedura d’infrazione

 L’alito gelido del fronte del rigore si è sentito di nuovo due giorni fa. Dall’Europa del Nord, e da quella dell’Est, la Commissione di Bruxelles ha ricevuto messaggi ultimativi: o l’Italia delle forze ostentatamente populiste accetta le condizioni di una riduzione delle spese in deficit contenute nella manovra, o la procedura di infrazione deve andare avanti. E adesso, a poche ore dall’incontro decisivo che il premier Giuseppe Conte avrà domani a Bruxelles col presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, la situazione è di nuovo in bilico. L’ottimismo quasi d’ufficio sparso nei giorni scorsi deve fare i conti con una realtà dura.
L’Italia rischia un «processo» che ci si può anche illudere di valutare in termini morbidi, magari con una «punizione» e sanzioni dilazionate nel tempo. Una volta confermata la procedura di infrazione, il Paese si troverà sotto una sorta di ghigliottina finanziaria, che potrà essere azionata in qualsiasi momento. E comporterà costi altissimi. A Palazzo Chigi sono preoccupati, e non lo nascondono. Gli sforzi di mediazione, le aperture reciproche al G20 di Buenos Aires, i toni di colpo meno ruvidi dei vicepremier Luigi Di Maio, del Movimento Cinque Stelle, e di Matteo Salvini, leader della Lega, non sono riusciti a capovolgere la diffidenza delle istituzioni continentali; e soprattutto delle altre nazioni europee.
La crisi dei «gilet gialli» francesi, con le violenze di piazza, ha aperto un altro fronte e un’altra crepa, costringendo il presidente Emmanuel Macron a correre affannosamente ai ripari: misure in extremis e in deficit, che in teoria potrebbero favorire le richieste italiane di una manovra espansiva. Ma non è affatto detto che vada così, anzi. La debolezza francese minaccia di incattivire e irrigidire il «partito del rigore», che di colpo è riemerso e ha fatto rinculare le aperture all’Italia. Cedere fino a far arrivare il rapporto deficit-Prodotto interno lordo intorno al 2,1-2 per cento, rispetto al 2,4 iniziale, a questa Europa non basta.
Ma scendere sotto quella soglia, per un esecutivo dichiaratamente populista e prigioniero delle sue promesse elettorali, appare impossibile. L’1,8 per cento, anche solo l’1,9 per cento, viene considerato da Palazzo Chigi come una richiesta «irricevibile», almeno fino a ieri. Questo significa prepararsi a un conflitto con la Commissione foriero di un isolamento crescente dell’Italia; ed esporsi a un’aggressione speculativa della quale finora ci sono state solo le avvisaglie. Sembra che il premier Conte abbia cercato di farlo capire a tutti: politici e non. Il problema, ormai, non è se avere una procedura di infrazione «soft» o no: il problema è se si riesce a evitare che si apra, o subirla.
Comincia a essere evidente che si sta giocando con un fuoco che minaccia di bruciare altri miliardi di risparmi in euro; e che proietterebbe l’Italia in un Purgatorio di sanzioni e di controlli lungo e imprevedibile nella ricaduta finale. La campagna elettorale per le Europee non aiuta. Irrigidisce gli interlocutori, e spinge M5S e soprattutto Lega a agire con gli occhi puntati quasi esclusivamente sulle urne, più che sul governo: magari sperando che «l’onda sovranista» travolga a maggio gli equilibri esistenti, e plasmi una Commissione più indulgente verso il populismo in salsa mediterranea. Ma a Palazzo Chigi non ci si fanno troppe illusioni.
Dai contatti di queste settimane, agli occhi di chi ha mediato con la Commissione, emerge un’Europa dell’Est e del Nord iper nazionalista e iper rigorista. Destinata a essere più esigente e severa nei confronti della mancanza di disciplina finanziaria dell’Italia, non più indulgente: a cominciare dal gruppo di Visegrad che unisce le nazioni orientali additate da Salvini come alleate naturali, fino all’Austria e agli Stati baltici che accarezzano una nuova Lega anseatica. Il nucleo duro non solo del fronte del rigore, ma della «punizione» degli Stati spendaccioni. Mai dimenticare che in tedesco Schuld vuole dire debito, ma anche colpa.