Il Messaggero, 9 dicembre 2018
Nino D’Angelo e il figlio Toni
13 novembre 2015. Parigi vive una delle sue notti più tragiche. Alle 21.19 un uomo si fa saltare in aria all’ingresso dello Stade de France. Solo tre minuti dopo la città viene scossa da un’ondata di attacchi terroristici. Alle 21.40 un’auto si ferma davanti al Teatro Bataclan, dove si stanno esibendo gli Eagles of Death Metal. Il resto è storia: cupa, violenta, inamovibile. Più di 130 vittime, di cui 90 uccise proprio dentro la sala concerti di Parigi.
Tre anni più tardi, un padre e un figlio discutono in uno dei camerini del Bataclan. Nino D’Angelo si sta preparando per la sua esibizione del 1° dicembre. Ha già fatto un giro in teatro e le scene di quel novembre nero riemergono all’improvviso: «Toni, secondo te devo dire qualcosa prima del concerto? Mi fa impressione stare qui di fronte a 1500 persone e non dire niente». Il figlio gli consiglia di non fare nessun discorso. «Gli ho detto che secondo me ormai i francesi hanno bisogno di andare avanti. Al Bataclan hanno chiamato tutti, da Sting a Francesco De Gregori, proprio per dare una risposta di futuro e di pace».
Toni D’Angelo fa il regista cinematografico (nel 2015 il suo film Filmstudio Mon Amour vince il Nastro d’Argento assegnato dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani), ha 39 anni ed è il figlio maggiore di Nino (il minore, Vincenzo, è giornalista sportivo). Quando non è sul set, cerca di seguire ancora il padre, di accompagnarlo nei momenti per lui più significativi. «Volevo andare a Parigi e stare dentro al Bataclan con un animo diverso. Tutti noi abbiamo bisogno di trasformare la tragedia. Quel fatto ha colpito non solo i francesi, ma il mondo intero».
Per esorcizzare la paura della morte e giocare da tifosi del calcio e della vita, a un certo punto Nino D’Angelo si è messo sulle spalle anche la bandiera del Napoli, cantando Quel ragazzo della Curva B. «Molti francesi che stavano lì erano figli o nipoti di italiani, alcuni erano d’origine napoletana» dice il cantante e compositore che a 61 anni rappresenta l’anima più popolare di Napoli: «Il fatto che io simboleggi proprio questo, per i miei figli è stato un bene ma anche un male».
«Io sono un personaggio popolare, ho fatto film di cassetta, il cinema-cinema non mi ha voluto. A parte Pupi Avati, a cui sarò sempre grato perché mi ha scelto per Un cuore altrove. Poi c’è stata anche la colonna sonora di Tano da morire di Roberta Torre. Ma il cinema artistico io non l’ho mai fatto. Sono nato in un quartiere popolare, sono figlio di uno scarparo e ho la licenza di terza media. Però ero bravo a scrivere, è una cosa strana questa, che mi porto ancora dietro».
Nino D’Angelo dice tutto questo come se ci fosse dietro una sottile vergogna, con l’umiltà di chi ha conosciuto la povertà e sa cosa significa produrre un cambiamento vertiginoso sull’asse verticale delle generazioni.
«La mia vita è come quella delle favole. All’improvviso un ragazzo che vende i gelati alla stazione Garibaldi si mette a cantare, passa un tipo che lo sente e gli offre di fare i concertini ai matrimoni, poi le sceneggiate, il cinema, e si finisce a Parigi».
Il padre parla la sua lingua, che è quella napoletana. Il figlio ha uno spiccato accento romano: «Avevo sei anni quando la mia famiglia si trasferì a Roma. Resto però napoletano nello spirito. Ad ogni modo, per tutti noi D’Angelo passare da Roma a Napoli è come fare una passeggiata». Toni è cresciuto con gli inseparabili padre e madre (Nino conosce la moglie Annamaria quando lui ha 17 anni e lei 12), ma ha frequentato l’Università a Bologna, laureandosi con una tesi sul cinema di Abel Ferrara: «Sono gli anni in cui frequentavo i centri sociali, ero molto più radicale di oggi». Lì avviene il salto immaginifico, la decisione di fare cinema: «Ero un ragazzino presuntuoso che frequentava il Dams. Poi sono andato a vedere L’Imbalsamatore di Matteo Garrone: rimasi folgorato». Dopo una serie di videoclip e cortometraggi, nel 2007 Toni D’Angelo gira il suo primo lungometraggio, Una notte, e capisce che per il personaggio del tassista suo padre è il miglior candidato.
«Io ero veramente molto preoccupato, soprattutto per lui. Uno come me può essere ingombrante, sul set non parlavo mai per paura di sbagliare. Quando lavori per tuo figlio, vuoi soltanto che il suo film vada bene» ricorda Nino. «Mio padre è un attore molto sottovalutato, e soprattutto per me era l’unico che potesse reggere quel ruolo: una specie di Caronte del popolo che traghetta dei napoletani borghesi (tornati in città per la morte di un loro compagno) in una Napoli notturna, autentica» spiega il regista, oggi padre di due figli, Maia di 11 anni e Edoardo di 5. Nel 2016, quando prepara Falchi, chiede di nuovo al padre Nino di lavorare con lui, questa volta come compositore della colonna sonora: «Ho dovuto insistere per convincerlo: temeva che in giro si dicesse che favorivo mio padre».
Nino D’Angelo dirige oggi il Teatro del Popolo Trianon Viviani di Napoli (esperienza che fece già nel 2006, ai tempi di Bassolino). «Era diventato un garage e la camorra se ne stava appropriando. Per me portare teatro e musica in un quartiere a rischio come Forcella, dove la fortuna è l’unica medicina che questi giovani possono avere dalla loro parte, è un fatto importante». Il teatro è dedicato a Raffaele Viviani, il grande drammaturgo napoletano che per Nino è un po’ come un nume tutelare: «Viviani mi ha insegnato tutto. Mi ha insegnato come scrivere, come fare teatro, come dare voce a chi non ce l’ha». «Quando ero piccolo, mi portava dietro le quinte per assistere alle sceneggiate interviene ma quello che più mi ricordo sono i concerti degli anni Ottanta. Per me mio padre era come Michael Jackson. L’unica cosa che a lui interessava invece era che io leggessi Viviani. Quando l’ho fatto, negli anni universitari, ho capito perché. Viviani era uno del popolo».
Pop. Popolare. Uno del popolo. La radice è sempre la stessa. Nella prossima primavera, D’Angelo junior girerà il remake di Milano calibro 9 di Fernando Di Leo (del 1972), «un film di ambizioni anche commerciali che avrà come set Milano, Francoforte e Marsiglia». Un noir che, come in tutti i film di Toni, può contare su una struttura melò. «Io sono un fan del cinema di Hong Kong della fine degli anni Novanta, che ha rappresentato una via di mezzo tra l’action movie e il melodramma classico. Sono film che non sono molto diversi da quelli con Mario Merola ma, mentre i primi sono apprezzati dalla critica, gli altri sono snobbati. Ecco, questo mariomerolismo è la cosa più vera che mi porto dentro e l’ho ereditata da mio padre».