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 2018  dicembre 09 Domenica calendario

Così Philip Roth correggeva l’amico

La prima bozza di Il clamore a casa nostra, memoir dello scrittore americano Benjamin Taylor, è fitta di annotazioni vergate a mano. Consigli, critiche, apprezzamenti. Le ha scritte Philip Roth, di cui Taylor è stato uno degli amici più stretti. A lui aveva consegnato il dattiloscritto che l’autore di Pastorale americana gli restituì con commenti quasi a ogni pagina riguardo alla struttura, al contenuto, all’ortografia, al ritmo, insomma a tutti gli aspetti della scrittura. «Che fortuna ho avuto ad avere un critico così generoso in uno stadio iniziale del libro» racconta a «la Lettura» Taylor. «“Rallenta!”; “Questa non me la bevo nemmeno per un minuto”; “Potresti per favore DESCRIVERE (in maiuscolo) queste persone?”: ecco, i suoi commenti sono così. Tutto molto doloroso e molto utile». 
Benjamin Taylor ha conosciuto Philip Roth nel 1995. È l’anno del suo esordio: un saggio su genio e modernità. Era una genio Roth? Taylor non ha dubbi. «Ha fatto esplodere le regole della scrittura di fiction. Ha rivoluzionato la letteratura mondiale. Ci ha dato molto di più da vedere e da sapere. Senza di lui saremmo inestimabilmente più poveri. I suoi libri dureranno quanto la scrittura stessa», risponde.
Tra i due nasce un legame molto stretto: nel 2001 Roth gli manda le bozze de L’animale morente e, da allora, Taylor sarà il primo a leggere i suoi testi. Nel 2007 lo scrittore scomparso il 22 maggio scorso dedica all’amico Il fantasma esce di scena e, nel corso degli anni, gli invierà bozze, dattiloscritti e testi olografi che Taylor, dopo la morte dello scrittore, ha donato alla Firestone Library di Princeton. 
Tre scatoloni di materiali catalogati e messi a disposizione degli studiosi, tra cui i primi 8 fogli scritti a mano di Operazione Shylock (settembre 1990-maggio 1991) e testi personali, comprese lettere e brani autobiografici che testimoniano le riflessioni sulle difficoltà del vivere mentre la vecchiaia avanza. Persino un grande poster (con dedica) contenente l’intero testo di Everyman (2006) in caratteri minuscoli su sei colonne, commissionato da Roth stesso come regalo per gli intimi. Quell’amicizia speciale sarà l’oggetto del prossimo libro di Benjamin Taylor. Inutile chiedergli qualche anticipazione: «Philip era solito dire che la strada per l’inferno è lastricata di lavori in corso. Meglio non discutere delle proprie intenzioni. È il prodotto finale che conta». Anche la bozza annotata da Philip Roth de Il clamore a casa nostra è negli archivi della Firestone Library. Nel frattempo il libro ha fatto la sua strada e ora è uscito in italiano tradotto da Nicola Manuppelli per Nutrimenti. Inizia il 22 novembre 1963 a Forth Worth, Texas, quando Benjamin, scolaro undicenne («ero un bambino schifosamente bravo come la maggior parte di quelli come me, ebrei e futuri omosessuali...»), entra in classe mentre la maestra sta spiegando i Fenici. Mostra il palmo alzato annunciando: «Mi ha stretto la mano! Questa mano». A stringergliela è stato John Fitzgerald Kennedy, nel comizio tenuto dalla piattaforma montata su un camion di fronte all’Hotel Texas, prima di mettersi in viaggio per Dallas. Poche ore dopo verrà assassinato. 
A partire da quel ricordo Taylor srotola una biografia concentrata in 12 mesi che è nello stesso tempo l’efficace biografia di una nazione. «C’è una figura retorica per questo: la sineddoche, la parte per il tutto. Mi è piaciuta l’idea di un anno – spiega – che possa rivelare la storia essenziale: personale, familiare e nazionale».

Autore di due romanzi e di molte opere di saggistica, tra cui una biografia di Marcel Proust, curatore di un volume di lettere di Saul Bellow, Taylor si cimenta per la prima volta con un memoir. «Diciamo – spiega – che il mio interesse per l’autobiografia è aumentato con gli anni. Come giovane romanziere consideravo un fallimento dell’immaginazione affidarmi a ciò che è realmente accaduto. Inventiva, non candore era la mia parola d’ordine. Ma dopo aver compiuto sessant’anni mi è venuto in mente che la mia storia di famiglia era, dopo tutto, un autentico racconto americano e che solo io potevo narrarlo. E che se non l’avessi fatto sarebbe stato destinato a svanire senza lasciare traccia. Inoltre, quello che è successo tanto tempo fa si era finalmente risolto in una narrazione, non era più solo un guazzabuglio, solo “una dannata cosa dopo l’altra”, per parafrasare Hemingway. È così: dopo i 60 anni la luce cambia. Vedi il passato in modo più compiuto: che cosa è successo veramente, qual è il suo significato. Sei finalmente maturo per il momento autobiografico». Nel libro Taylor scrive che se gli venisse offerta la possibilità di rivivere da capo la sua vita direbbe di no. «Di nuovo giovane? Quando la più grande soddisfazione è stata invecchiare? Giovani per cosa? Sopportare di nuovo i mille tumulti naturali? Quando ciò che voglio ora è guadagnarmi la mia tomba? Ho già scelto e pagato il lotto». Al centro del memoir, intenso e ironico, ci sono l’amore, il rapporto con i genitori, l’ambiente ebraico in cui è cresciuto, la scoperta della sessualità, i problemi di salute, l’antisemitismo che pervade la società americana di quegli anni, nella convinzione che «qualsiasi anno avessi scelto avrebbe mostrato lo stesso coraggio e le stesse fragilità che mi segnarono tra gli 11 e i 12».
Dopo lo shock dell’omicidio del presidente americano il protagonista e con lui il mondo intero si ritrovano a chiedersi che cos’abbia significato quell’evento per la storia. L’ucronia, un gioco che molti hanno praticato: «Mentre la storia non rivela le sue alternative, si può facilmente immaginare che il peggiore errore della politica estera americana, la guerra del Vietnam, avrebbe potuto essere evitato se Kennedy non fosse morto. Don DeLillo definisce gli spari a Dealey Plaza quel mezzogiorno del 1963 come “i sette secondi che hanno dato una botta al secolo americano”. Non potrei dirlo meglio». 
Quello che cerca nella fiction, dice Taylor «è una comprensione sistematica della natura umana in ogni sua minuta particolarità. Due esempi per le mie letture giovanili sono Ritratto di signora  di Henry James e I Buddenbrook di Thomas Mann». Tra i suoi libri c’è anche Naples declared, un omaggio alla città che Taylor deve interamente «alla generosa tutela» della sua defunta amica Shirley Hazzard, una scrittrice «che conosceva il golfo, la sua storia, le persone e che mi ha fatto conoscere tutte le particolarità partenopee. Quanto mi manca!».