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 2018  dicembre 09 Domenica calendario

Belli, il commedione romano, anzi universale

«Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: si chiama Belli». Sono le parole stupite di Charles Augustin de Saint-Beuve, grande critico dell’Ottocento. La lode è del tutto anomala perché è scritta sulla fiducia. Saint-Beuve, infatti, non incontrò mai Belli e probabilmente non lo lesse nemmeno. A parlargliene era stato lo scrittore russo che più di tutti ha maneggiato la satira, il grottesco, l’irriverenza: Nikolaj Gogol’, che di passaggio a Roma nel 1838 assistette a una delle recitazioni di Belli nel salotto della principessa Volkonskaja. Aveva un talento da giullare, il Belli. Pare che si mettesse un berretto di panno nero in testa e con un’espressione impassibile sul volto, da attore consumato, recitasse quei sonetti che, anche se inediti, erano sulla bocca di tutti (e non solo a Roma: Giuseppe Mazzini ne legge uno a Londra, ricopiandoselo minutamente sui suoi appunti). Gogol’ ne è rapito a tal punto che quando su un vascello diretto a Marsiglia incontra Saint-Beuve, non si trattiene dal raccontargli quella serata per filo e per segno.
Quest’aneddoto mi sembra interessante non solo per le personalità che coinvolge, ma perché quegli elogi si contrappongono all’incomprensione di cui Belli è vittima in patria, nella sua «Romaccia», e alla scarsa considerazione che della sua opera hanno avuto critici, studiosi e autori di antologie scolastiche in tempi ancora piuttosto recenti.

Gogol’ e Saint-Beuve, invece, col loro entusiasmo non solo fanno luce su una Roma che a quei tempi era ostaggio di antiquari e accademici (così appariva anche a Leopardi nel 1822), ma sfilano l’opera in questione dalla municipalità e dal colore locale. Ecco perché quelle parole vanno ricordate: perché restituiscono la levatura di Belli e trasformano la sua poesia, come dice Pietro Gibellini, da poesia dell’Urbe a poesia dell’Orbe.
Giuseppe Gioachino Belli è una personalità complicata e contraddittoria, caustica e bifronte. Dietro un’esistenza riservata e schiva – era un impiegato statale – ribolle un magma di contestazione e di irriverenza che lo rende senza dubbio il nostro poeta più maledetto. In vita pubblica solo versi in lingua, soprattutto satire, componimenti tutto sommato privi di mordente, in cui il sarcasmo è quasi sempre bonario e addomesticato. Ma dietro questo poeta pubblico, che omaggia una sua raccolta ai piedi di Pio IX, ne prolifera un altro clandestino, che macina 2.279 sonetti in vernacolo in un giro d’anni relativamente breve (dal 1831 al ’47, ma con varie interruzioni). Il realismo nella nostra letteratura forse nasce proprio qui e non è un caso che tra i suoi primi e più sinceri ammiratori ci sarà Giovanni Verga, un altro nome che per grandezza e per provenienza conferma quanto Belli fosse veramente poeta del mondo e non della città.
Ma se questa doppia dimensione, di poeta pubblico e clandestino, italiano e dialettale, regge per inquadrare i percorsi della sua scrittura, non bisogna credere che i personaggi dei sonetti romaneschi dicano ciò che Belli non ha avuto il coraggio di pronunciare con voce propria. Da quest’accusa il poeta si difendeva già nell’introduzione al libro che per una vita intera ha preparato, riscritto, annotato, bruciato e ancora riscritto. Il realismo e la verità dei sonetti sono piuttosto quelli della commedia umana. Il progetto del poeta, infatti, è quello di dar voce alla plebe, di scendere tra gli straccioni e le prostitute, di ritrarre lo stuolo dei cardinali e dei popolani che aggrediscono il potere sfacciato della chiesa e del suo papa-re, di sbozzare ritratti di ragazze madri e di mendicanti, di sfaccendati da osteria e di instancabili bottegai. Ma soprattutto, come nota sempre Gibellini, nel «commedione» ci sono le donne: «Alla loro visione del mondo, ai loro drammi e ai loro affetti» Belli lascia uno spazio insolito per la sua epoca.
Questo e molto altro sono i sonetti romaneschi, ma sempre un unicum inscindibile di voci e di sguardi, su cui generalmente ha prevalso un Belli di volta in volta ridotto a un solo aspetto: triviale, satirico, osceno e, ovviamente, anticlericale. Se questa è stata da una parte la sua fortuna, dall’altra è stata una sventura perché i critici, in nome di questa parzialità, l’hanno sempre tenuto a debita distanza dai grandi del suo tempo e guardato con un sospetto maggiore di quello riservato a Carlo Porta, l’altro grande poeta in dialetto della sua stagione. A proposito: Porta è un autore fondamentale perché è dalla sua dichiarata imitazione che nasce il Belli romanesco. È dall’osservazione di Milano («la città benedetta» la chiamerà dopo averla visitata) che Belli intuisce quanto Roma e il dialetto dovranno essere centrali nel «monumento» che egli vuole lasciare.

Belli realizza tutto questo con una coscienza formale e linguistica priva di incertezze: mentre Manzoni risciacqua i panni del suo romanzo («il primo libro del mondo») e Leopardi libera la canzone, Belli accumula sonetti. È sicuro che la misura corta dei 14 versi e l’indipendenza di ogni componimento non gli impediranno di creare un quadro unitario, fluido come una prosa. Si farà pelle e voce dei popolani, evitando miracolosamente che situazioni e personaggi diventino ricorrenti o, peggio, stereotipati. Il piccante, il satirico, l’anticlericale, dunque, certamente ci sono, ma nel flusso del «commedione» si alternano con una sapienza incredibile, restituendoci una varietà che le antologie che si sono susseguite in modo incontrollato hanno puntualmente neutralizzato.
I bersagli del popolo sono quelli di sempre. Bersagli politici (su tutti: Gregorio XVI e i cardinali, anagrammati in «ladri-cani») e bersagli assoluti (il sesso, la fame, la morte), che insieme danno forma alle paure, all’aggressività, alle contraddizioni, all’ignoranza della parte più bassa della comunità. A guidare il poeta in questa discesa agli inferi della Città Eterna non sono gli scrittori più grandi del suo tempo, che pure Belli conosce e ammira. Il suo maestro e il suo autore è Dante, è in lui che si specchia: l’Alighieri esiliato da Firenze, Belli confinato dentro Roma; l’Alighieri coraggioso nello scegliere il volgare, Belli nell’adottare il dialetto: entrambi capaci di un plurilinguismo che restituisce la varietà del mondo, con i suoi slanci e le sue meschinità.
La nuova edizione dei sonetti romaneschi curata da Pietro Gibellini assieme a Lucio Felici e Edoardo Ripari per Einaudi ha meriti molto importanti. Il modo in cui i curatori guardano al Belli si inserisce nella tradizione interpretativa di Giorgio Vigolo, il primo che, nell’edizione mondadoriana del 1952, ci mise davanti alla genialità del poeta romano. Ogni singolo sonetto è corredato da un apparato di note molto articolato, mai compilativo, capace di raccontare la genesi di ogni singola creazione nella sua intimità. È un lavoro ampio e completo – monumento del monumento, verrebbe da dire – che fa sperare di lasciarci per sempre alle spalle interpretazioni di Belli riduttive e ormai da superare. Da oggi, c’è la possibilità di riscoprire nella sua pienezza una voce graffiante, poetica, satirica, che si fa beffe dell’arroganza della politica e che schernisce il potere con un’irriverenza e una libertà di parola che lasciano stupefatti ancora oggi. Soprattutto oggi.