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 2018  novembre 26 Lunedì calendario

Biografia di Roberto Mancini

Roberto Mancini, nato a Jesi (Ancona) il 27 novembre 1964 (54 anni). Allenatore. Commissario tecnico della Nazionale italiana (dal 14 maggio 2018). Già tecnico di Fiorentina (2001-2002), Lazio (2002-2004), Inter (2004-2008; 2014-2016), Manchester City (2009-2013), Galatasaray (2013-2014) e Zenit S. Pietroburgo (2017-2018); vincitore di quattro Coppe Italia, due Supercoppe italiane, un Campionato inglese, una Coppa d’Inghilterra, un FA Community Shield e una Coppa di Turchia. Ex calciatore. Già giocatore di Bologna (1981-1982), Sampdoria (1982-1997), Lazio (1997-2000) e Leicester City (2001), militante anche nella Nazionale Under-21 (1982-1986) e nella Nazionale maggiore (1984-1994); vincitore di due Campionati italiani, sei Coppe Italia, due Supercoppe italiane, una Supercoppa Uefa e due Coppe delle Coppe. «Ho un sogno: vincere da ct ciò che non ho vinto da calciatore. Un Mondiale» • Figlio di un falegname emigrato in gioventù in Germania e di un’infermiera, crebbe giocando a calcio sotto lo sguardo di don Roberto Vigo nell’oratorio della chiesa di San Sebastiano e nel campetto dell’Aurora Jesi, cui il padre, ex mezzofondista e dirigente dell’associazione sportiva, lo fece tesserare ancora bambino. «Roberto da piccolo? “Molto bello e molto discolo: era iperattivo, trovava sempre qualcosa da fare e un modo per farsi male”. […] Marianna Puolo, […] energica e amorevole mamma del Mancio, […] ricorda con orgoglio le marachelle del figlio, al quale perdonava tutto. “Aveva quel sorriso smagliante da monello che ti ammaliava. Come facevi a restare arrabbiata?”. E così, neppure quella volta che appena quindicenne rubò la sua Audi nuova e si schiantò contro un albero riuscì a punirlo. “Eravamo in vacanza a Senigallia. Dico a mio marito: ma guarda quello, ha la macchina uguale alla mia. E lui: non è uguale, è la tua! E vediamo in diretta l’incidente, e Roberto che viene fuori terrorizzato, ma al tempo stesso ridendo a crepapelle…”. […] Roberto è sempre stato un figlio educato e allegro. “Gli bastava un panino col prosciutto per essere felice”. Ma dal pallone non lo separavi neanche con la forza. “Si mise a giocare pure il giorno della prima comunione. Appena uscito dalla chiesa si accorse che nel campetto dell’oratorio la sua squadra stava perdendo, allora si tolse la tunica bianca, entrò e segnò”» (Elvira Serra). «Il regalo che chiedevo a Natale ogni anno era sempre lo stesso: le scarpe da calcio (allora di pezza) e un pallone di cuoio». All’Aurora Jesi «si mette in mostra, tanto da attirare l’interesse di alcune grandi squadre. Lo nota il Milan, che qualche tempo dopo averlo osservato in un torneo decide di prenderlo. All’epoca […] i club chiamano i giovani via lettera cartacea. Ma per un disguido […] la lettera arriva ad una squadra avversaria dell’Aurora, la Real Jesi. Che tiene nascosta la lettera. Qualche mese dopo, Aldo Mancini va a Casteldebole, poco fuori Bologna, per parlare con i dirigenti rossoblù. L’affare che porterà il tredicenne Mancini al Bologna si conclude a Senigallia, al ristorante di Peppino, specialità pesce: 700 mila lire subito, 5 milioni più tardi. Con quei soldi, l’Aurora compra i pulmini nuovi per la squadra» (Alessandro Oliva). «A tredici anni sono stato preso e portato a Bologna, dove il calcio mi obbligava a essere già grande. Ho studiato fino al quarto geometri, ho letto, ma poco, perché il calcio non ti dà respiro: uno o due allenamenti al giorno, mangiare, dormire, il ritiro; non rimane mai un po’ di tempo per pensare e vivere come quelli della tua età». «Il mio obiettivo era giocare a calcio, e rimasi stupito quando compresi che il Bologna mi avrebbe riconosciuto un rimborso spese (90 mila lire al mese!): ero perplesso perché venivo pagato per giocare a calcio e divertirmi! Attirai l’attenzione del settore giovanile rossoblù, e dopo solo 3 anni (appena sedicenne) esordii nella squadra Primavera. Sono stati anni emozionanti e duri. […] La prima panchina di Serie A la devo al caso. L’allenatore Radice, cercando un sostituto per un infortunato della prima squadra e non reperendo Marco Macina a scuola, convocò me». Il 6 settembre 1981, l’esordio in Coppa Italia (Bologna-Reggina 2-2); una settimana dopo, il 13 settembre, il debutto in Serie A (Bologna-Cagliari 1-1): «Quando Burgnich mi mandò in campo la prima volta avevo i denti che battevano per la paura: “tatatatatatata”, avanti così cinque minuti. Non lo dimenticherò mai». «Il primo goal in Serie A arrivò a meno di un mese dall’esordio: fu la mia prima rete a cristallizzare il definitivo pareggio del 2-2 al minuto 78 di Como-Bologna. La prima delle 9 reti che riuscii a realizzare nel mio primo campionato nella massima serie. […] Il presidente Paolo Mantovani fu incuriosito dalla mie capacità e mi portò nella sua Sampdoria. Una follia: per un sedicenne pagò al Bologna 2 miliardi e mezzo delle vecchie lire (rapportato ad oggi significherebbe pagare 40 milioni di euro) più 4 giocatori. Il direttore sportivo del Bologna Paolo Borea, che era passato alla Sampdoria, fu decisivo nel convincermi a seguirlo a Genova». «E pensare che se Boniperti avesse anticipato di un giorno una certa telefonata… “Sliding doors. Chiamò il Bologna il mattino dopo la chiusura del mio trasferimento alla Samp. Se le due telefonate fossero soltanto arrivate assieme, io avrei spinto per la Juve. Ne ero tifoso. Era la prima stagione di Platini, l’avrei iniziata in panchina: ma con Michel avrei trovato in fretta la maniera di integrarmi, e avreste visto molte belle giocate”» (Paolo Condò). «Solo a questo punto compresi che non avrei potuto fare altro che il calciatore, il lavoro più bello del mondo. Il mio sogno si stava realizzando: lo compresi quando molti club mi volevano e Mantovani scelse me nonostante il prezzo. Miglioravo e iniziavo a capire che potevo farcela, dovevo sviluppare il fiuto per il goal e per la vittoria. Non volevo essere una meteora: era la mia chance, non potevo perdere. Ero consapevole che tutto poteva finire in un istante. […] In blucerchiato arriva la mia consacrazione, grazie anche a mister Vujadin Boškov, che ha reso la mia giovinezza straordinariamente bella. […] A Genova vinco il mio primo scudetto, quattro Coppe Italia, una Supercoppa di Lega (con un mio gol…) e una Coppa delle Coppe. Alla Samp trovo un feeling molto intenso con il mio compagno di reparto Luca Vialli: eravamo diversi ma molto affiatati, come due poli che si attraggono. Insieme diventiamo i “gemelli del gol” per la nostra intesa sotto porta: sentivo che un assist per un mio compagno era come segnare. Conoscevo Luca perché eravamo compagni in nazionale Under-21 e l’avevo più volte esortato a venire alla Samp. Dopo di lui, pezzo pezzo, arrivarono tutti grandi talenti alla corte del presidente Mantovani, e la squadra cresceva. Era un momento magico: un gruppo di amici che divenne un gruppo di campioni. […] Era il 1990, la squadra era pronta (dopo 8 anni di crescita) al primo scudetto della Samp: volevamo essere la storia di quel club. Ricordo in modo lucido il momento in cui compresi che era il nostro anno: in aereo, durante il viaggio di ritorno da Napoli a Genova, subito dopo la vittoria per 4-1 conquistata contro il Napoli di Maradona (che aveva vinto lo scudetto l’anno precedente). Abbiamo avuto la forza di ribaltare il risultato di 1-0 a favore del Napoli in un 2-1 e poi 4-1 a favore della Samp. Due goal di Vialli, due goal miei… I tifosi del Napoli a fine partita erano in piedi ad applaudire la Sampdoria. In quel momento compresi che potevamo vincere il campionato di Serie A: dipendeva solo da noi, eravamo pronti. Scudetto che arrivò “formalmente” nella penultima giornata di quella stagione a Lecce, ma “sostanzialmente” alla terzultima giornata nella partita contro l’Inter (in cui Pagliuca parò tutto) terminata 2-0 a favore della Sampdoria. Fu questa per me la partita decisiva di quel primo scudetto. Fu la vittoria dell’amicizia e del lavoro di tutti (del presidente, dei dirigenti, dell’allenatore, della squadra e dei fedeli tifosi sampdoriani). […] Nella stagione 1991/92 con la Samp ebbi l’opportunità di disputare una finale della Coppa dei Campioni contro il Barcellona del grande Johann Cruijf e di Pep Guardiola: sfiorammo l’impresa perdendo ai tempi supplementari per un gol di Koeman al minuto 112. Quella partita rimane il mio unico, vero rimpianto. Un dolore forte: sapevamo che alla Samp quella sarebbe stata “la nostra prima e ultima occasione". Dopo la finale della Champions era finito un ciclo. Il presidente Mantovani (che era uno molto avanti) comprese che doveva vendere alcuni campioni per finanziare un’altra grande Sampdoria acquistando in quel momento giovani promesse, i futuri campioni con cui vincere ancora. L’estate del 1993 iniziò il suo progetto. Ricordo una telefonata: vedevo partire tutti, così gli dissi “Presidente, vado via anch’io, perché senza i compagni come possiamo vincere…”. La sua reazione, dopo avermi mandato a “quel paese” ed appeso il telefono, fu l’acquisto di 4 giocatori come Platt, Jugović, Gullit ed Evani. Avrebbe venduto tutti, ma non me. Ed io non potevo andare in un club diverso da quello di Mantovani. Poi accadde l’imprevedibile… Il presidente Mantovani non ebbe il tempo ed il modo di realizzare il suo progetto: il 14 ottobre 1993 un grande uomo lasciò questa vita. […] Nel 1997 è tempo di nuove esperienze: decido di cedere alla lusinghe del presidente della Lazio Sergio Cragnotti e alla grande bellezza della città eterna Roma. C’era stato un incontro anche con Moratti ed un’ipotesi Inter, superata dalla velocità e tempestività di Cragnotti. L’incontro con il presidente della Lazio a Milano fu importante: voleva vincere, e sentivo che avrei potuto chiudere la mia carriera di calciatore conseguendo altri trofei. Decisivo nella scelta Lazio fu la prospettiva di un allenatore come Sven-Göran Eriksson. Arrivai a Roma a 32 anni: tutti pensavano la mia carriera fosse già finita, invece… Si aprì un ciclo di vittorie del quale fui protagonista assieme all’allenatore Eriksson, ad Attilio Lombardo e a campioni del calibro di Juan Sebastián Verón e Sinisa Mihajlović. Arrivò il mio secondo scudetto, la mia seconda Coppa delle Coppe, battemmo il Manchester United e ci aggiudicammo la Supercoppa europea. Portammo a casa due Coppe Italia e una Supercoppa di Lega». «Eriksson gli insegna la calma sfiancandolo a tennis e Mancini gli fa da secondo, giocatore-allenatore, cose viste più tra i dilettanti che in serie A. Ma […] sembra frastornato, va in Inghilterra per giocare col Leicester City, poi torna in Italia e a marzo 2001 diventa tecnico della Fiorentina, la prima panchina: uno dei suoi desideri più forti e ardenti, finalmente realizzato. Roberto non potrebbe allenare stando alle regole della Figc, commissariata, […] ma, dopo un tira e molla che vede le dimissioni di Azeglio Vicini da presidente degli allenatori e la rivolta di molti colleghi, le regole diventano più elastiche grazie al commissario Gianni Petrucci; i detrattori hanno sempre sussurrato che fu decisiva l’amicizia col potente banchiere Cesare Geronzi, capace di fare pressioni su una Federazione debole» (Francesco Caremani). «La Fiorentina è un pianeta in ebollizione. Cecchi Gori è un padrone ingestibile. Il Mancio riesce comunque a vincere la Coppa Italia. L’11 gennaio del 2002 però anche lui si arrende. Aveva capito che non c’era futuro, e infatti pochi mesi dopo la Fiorentina fallirà ripartendo dalla C2. Il ghiaccio è rotto. Robi inizia una nuova carriera. Con la stessa fame di vittorie e con la stessa voglia di incidere. Se in Inghilterra l’allenatore manager è una consuetudine, in Italia è qualcosa di rivoluzionario. Mancio torna in una Lazio travolta dai problemi di Cragnotti. Lui recita quasi tutte le parti in commedia. E tiene in piedi una delle squadre del cuore. Convincendo tutti di essere un fuoriclasse anche seduto in panchina. Moratti lo porta all’Inter. È il momento di Calciopoli. Una bufera. Ma il tecnico di Jesi sa navigare in tutte le acque. Spavaldo e sicuro come sempre. Nel 2006/07 vince il titolo con cinque giornate di anticipo e con una striscia di 17 successi consecutivi. Il problema è che Mancini vuole gestire tutto. Forse invade il territorio di Moratti, che dopo l’eliminazione in Champions con il Liverpool lo esonera. Mancio studia, aspetta il momento per la rivincita. Occasione che arriva grazie ai soldi degli sceicchi che acquistano il Manchester City. Mancio vince la Premier. È un manager all’inglese. Decide acquisti e cessioni. Pretende un rapporto diretto ed esclusivo con il proprietario. E, quando il City ingaggia un ds, Begiristain, il buon Mancio se ne va» (Luca Calamai). «La mia più grande gioia è stata vincere la Premier League da straniero, in un modo che meriterebbe un film come Febbre a 90° sull’Arsenal». «13 maggio 2012, all’Etihad di Manchester: il giorno che gli ha cambiato l’immagine, creato il mito di coach vincente. Ultima di Premier League, il City e lo United primi a 86 punti. Ma ai Citizens basta battere il Queens Park Rangers, non un’impresa, per portare a casa il titolo dopo quarantaquattro anni d’inferno. Una passeggiata, ma invece la partita si inchioda sull’1-1, che poi diventa 2-1 per il QPR. Cinque più recupero. Gli saranno sembrati cinquecento, mentre urlava da bordo campo con il cuore in gola. E Dzeko la mette di testa, e Aguero a un passo dalla morte fa il 3-2» (Maurizio Crippa). «Il 30 settembre 2013 viene ingaggiato dal Galatasaray: nella sua prima esperienza turca ottiene un’insperata qualificazione agli ottavi di Champions eliminando la Juventus. Il suo primo anno termina con la vittoria della Coppa di Turchia, mentre in campionato conquista il 2º posto, che comporta la qualificazione diretta in Champions League. L’11 giugno 2014 lascia la squadra turca esercitando la clausola liberatoria. Nel 2014 torna all’Inter, subentrando a stagione in corso a Walter Mazzarri. Apre la sua seconda esperienza in nerazzurro con un pareggio nel derby, seguito dalla qualificazione ai sedicesimi di Europa League nel giorno in cui compie 50 anni. Eliminato dal Napoli nei quarti di Coppa Italia, non raggiunge per la prima volta la finale del torneo sulla panchina interista. L’Inter, uscita negli ottavi di Europa League, chiude il campionato in ottava posizione mancando, per la prima volta sotto la sua gestione, l’accesso alle coppe continentali. Nel torneo 2015/16 i nerazzurri, malgrado un girone d’andata vissuto in testa alla classifica, incappano in una crisi agli inizi del 2016, che spinge la società a riconsiderare la sua posizione. Fallito l’ingresso alla finale di Coppa Italia anche per questa stagione, l’Inter chiude il campionato al quarto posto entrando in Europa League. In estate a causa di attriti con la nuova proprietà si dimette. Dopo quasi un anno di pausa, il 1° giugno 2017 Roberto Mancini diventa allenatore dello Zenit San Pietroburgo. Dopo 44 panchine, con 21 vittorie, 13 pareggi e 10 sconfitte, risolve di comune accordo il suo contratto» (Monica Generali). Nel frattempo, infatti, aveva realizzato un suo antico desiderio, conquistando la panchina azzurra. «L’Italia riparte da Roberto Mancini, scelto perché è stato quello che non ha avuto esitazioni a dire sì quando interpellato. E solo il cielo sa quanto servisse una persona convinta alla Nazionale come alla Federcalcio tutta. […] Mancini ha rinunciato a un contratto fino al 2020 con lo Zenit San Pietroburgo, con uno stipendio di 12 milioni. Con l’Italia la durata è la stessa, ma i milioni sono 4 in due anni: una differenza enorme anche per uno che, di suo, sta assai bene. Si presenta dopo alcune esperienze che ne hanno appannato il profilo, e forse proprio per questo ha scelto di dare una sterzata. Lo Zenit di cui sopra, con cui ha mancato la qualificazione Champions. Prima ancora il flop del ritorno all’Inter e l’esperienza negativa con il Galatasaray. L’Italia, però, ritrova un profilo che aveva saputo essere vincente prima come giocatore e poi come allenatore, in patria come all’estero. L’esatto contrario di ciò che era stato il fallimentare Gian Piero Ventura» (Leo Lombardi). «Roberto Mancini, ct con la sciarpa, ci ha decisamente ben impressionato: dopo i mesi degli esperimenti, le cantonate alla “Balotelli in campo nonostante i 100 chili di stazza”, ha deciso di puntare su un assetto preciso (affidato a giocatori tecnici) e un’idea di gioco che esclude tutta una serie di mezze tacche impresentabili. L’Italia non è affatto guarita, ma oggi ha una prospettiva e, per fortuna, tutto il tempo per oliare il meccanismo che ben ha funzionato nei match contro Polonia, Portogallo e Stati Uniti. Si dirà “facciamo pochi gol e manca il bomber”, e questa è una verità incontrovertibile, ma già essere passati da “siamo una banda di scappati di casa” a “ci manca l’attaccante per concretizzare la mole di gioco” è certamente un bel passo avanti» (Fabrizio Biasin) • «Durante la sua carriera da calciatore, il nuovo ct azzurro non ha mai avuto un rapporto idilliaco con la Nazionale, tra litigi eccellenti, sfoghi clamorosi e prestazioni scadenti. L’opposto di quanto fatto con le maglie di club, vedi Sampdoria e Lazio. Il rapporto problematico di Mancini-calciatore con l’Italia inizia nel 1984, quando il fantasista di Jesi non ha ancora compiuto 20 anni. Sulla panchina della Nazionale siede Enzo Bearzot, un sergente di ferro che mal sopporta chi non rispetta le sue regole. […] Il rapporto tra Bearzot e Mancini non decolla. E si rompe definitivamente quando, a New York, il fantasista della Sampdoria scappa dal ritiro per farsi un giro tra i grattacieli di Manhattan. Cartellino rosso. […] Le porte dell’Italia […] si riaprono nel 1986 grazie al nuovo tecnico azzurro Azeglio Vicini, con cui Mancini gioca molto e bene nel biennio precedente in Under-21. Vicini lo stima e lo convoca per l’amichevole contro la Grecia, dove gioca uno scampolo di partita. Ma il ragazzo è una testa calda, e nel gennaio 1987, dopo Atalanta-Sampdoria, dichiara ai giornalisti che "i tifosi, anziché picchiarsi tra loro, dovrebbero invadere il campo e suonarle a certi arbitri". Dichiarazioni che dovrebbero costargli la maglia azzurra in virtù delle norme di comportamento stabilite dal presidente della Figc, Franco Carraro. Ma Vicini lo difende, e lo convoca per Euro 1988. Qui, durante la partita contro la Germania Ovest, segna il suo primo gol in Nazionale e lo festeggia nel peggiore dei modi, esultando in modo polemico contro i giornalisti in tribuna stampa. Troppo anche per Vicini, che dopo la sconfitta in semifinale contro l’Urss lo toglie progressivamente dalla formazione titolare preferendogli il "principe" Giannini. Durante i Mondiali di Italia ’90, Mancini non gioca neppure un minuto. […] Il rapporto problematico con la Nazionale continua quando sulla panchina azzurra si siede Arrigo Sacchi. Mancini fa parte del gruppo ma non piace al "vate di Fusignano" per la sua anarchia tattica. Nel 1994 dice addio alla Nazionale con un’ultima presenza contro la Germania in un’amichevole pre-mondiale. Da calciatore Mancini ha collezionato complessivamente 36 presenze e 4 gol. Numeri deludenti per quello che senza dubbio è stato uno dei calciatori più talentuosi della sua generazione. Il Mancio lo sa, e ha accettato la proposta della Federcalcio proprio per questo: far dimenticare i suoi peccati di gioventù e regalare alla Nazionale un nuovo ciclo vincente» (Roberto Bordi) • «La cura del dettaglio per Mancini è uno stile di vita, in campo quando allena e fuori per lanciare messaggi: non solo di moda, soprattutto di pace e beneficienza. La sciarpa così cool si è trasformata nel tempo in un’iniziativa in favore del piccolo orfanotrofio di Le Crèche di Betlemme. Per un lungo periodo ne ha indossata una prodotta dalla Totus Tuus: il nome richiama il motto apostolico di papa Giovanni Paolo II. La moda si è così legata alla preghiera più universale che esista: il Padre nostro, stampato sulla sciarpa in dieci lingue diverse, dall’aramaico di Gesù passando per l’arabo, l’ebraico, il russo, il latino. […] La sciarpa è stata anche il dono di pace scelto da Mancini per chiudere la lite con l’allenatore del Napoli, Maurizio Sarri, che in un gelido martedì di Coppa Italia nel gennaio di due anni fa gli gridò: “Stai zitto, frocio. Siediti, finocchio”. Isterie di campo, arrivarono le scuse. Mancini le accettò, ma chiese a Sarri un gesto: indossare la sciarpa con il Padre nostro la domenica dopo. Invito accolto, pace fatta» (Guido De Carolis) • Tre figli dalla prima moglie: due maschi, Filippo e Andrea, con trascorsi da calciatori, e una femmina, Camilla, studentessa. Nell’agosto 2018 si è sposato in seconde nozze con l’avvocato Silvia Fortini. «Si è occupata lei della tormentata rescissione di contratto con i russi dello Zenit San Pietroburgo, e sempre lei era al suo fianco quando a metà maggio ha firmato il nuovo impegno con la Federcalcio italiana» (De Carolis) • Cattolico. «Era nella anglicana Inghilterra, quando Benedetto XVI se ne andò. Ma lui, in conferenza stampa, davanti ai cronisti stupiti, se ne volle ricordare: “Questa è stata l’ultima domenica per il Papa, e io voglio ringraziarlo per quello che ha fatto in questi otto anni”. In pellegrinaggio a Medjugorje, nel 2012, ci portò la moglie e la figlia» (Crippa). «Dio mi è sempre stato vicino: mi ha indicato le strade e le compagnie giu­ste» • «È stato un fuoriclasse del livello di Baggio. Il che significa avere il calcio dentro, pensarlo in modo categorico e personale, avere la capacità di vederlo dove gli altri vedono solo spazi vuoti» (Mario Sconcerti). «Un suo problema è di non aver mai coltivato la diplomazia e il paraculismo: alle molte ovvietà del calcio, ogni tanto Mancini aggiunge cosa pensa davvero. Ragiona a pelle» (Marco Ansaldo) • «Vede per sé una lunga carriera? “No, non farò come il Trap. Questo è un lavoro stressante”. Che cosa le pesa di più? “Mettere in panchina qualcuno. Io ho giocato, sento sulla pelle il dispiacere che provano loro. E purtroppo so che per me non cambierà mai”. L’allenatore è un uomo solo? “Solissimo. Siamo in tanti solo quando vinciamo. Ma chi fa questo mestiere lo sa”. Quali maestri gliel’hanno insegnato? “Boškov e Eriksson. Diversi per età, carattere e stile di gioco, entrambi mi hanno trasmesso molto”» (Guido De Carolis e Alessandro Pasini) • «A volte penso che uno come Mantovani non sia mai esistito. È stato un so­gno, un uomo troppo grande per es­sere vero». «Se fossi andato via dalla Sampdoria quando ero giovane, avrei raccolto una collezione di Palloni d’oro e in Nazionale non avrei fatto vita grama. Ma non ho alcun rimpianto. Era più importante rimanere accanto a Paolo Mantovani, e quell’esperienza vale più di tanti scudetti e di tanti Palloni d’oro». «Tra cent’anni come vorrebbe essere ricordato? “Come un grande calciatore”.  Non allenatore? “Vuole scherzare? È molto più divertente fare gol che vederlo fare. Non se ne rendono conto, i giovani d’oggi. Buttano via vita e carriera. Meglio una partita in A che mille notti in discoteca”» (Gaia Piccardi).