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 2018  novembre 09 Venerdì calendario

Di che cosa sono fatti i sogni

"Questa notte ho sognato che ero vicino alla finestra e lei è venuta da me...”. Comincia così, in data 23 ottobre 1875, il diario onirico di Arthur Schnitzler. È il sogno di un tredicenne che sarebbe diventato il maggiore scrittore e drammaturgo della Secessione viennese. “Lei” è la figlia dei vicini di casa: primo amore di Schnitzler, inseguita in sogno ai tempi del ginnasio. Molte altre ombre visiteranno lo scrittore addormentato, costruendo la trama di un’autobiografia notturna che oggi riveste un grande interesse letterario, documentale e, anche, psicoanalitico. Il diario contenuto in Sogni, ora ripubblicato dal Saggiatore, si conclude il 10 ottobre 1931, undici giorni prima della morte di Schnitzler. Mezzo secolo di sogni, dunque, di “un ricercatore della psicologia del profondo”. La definizione è di Freud.
I due uomini non ebbero contatti fino al 1922; in una lettera il fondatore della psicoanalisi confesserà poi a Schnitzler di averlo evitato quasi di proposito, mosso da “una sorta di paura del doppio”. “Ho avuto l’impressione” gli scrive “che Lei attraverso l’intuizione – ma in verità attraverso una raffinata autopercezione – sapesse tutto ciò che io ho scoperto con un faticoso lavoro sugli altri”.
Schnitzler in realtà nutriva diversi dubbi sulle teorie di Freud. In particolare, riteneva che la sua insistenza sui simboli onirici (per cui, per esempio, un bastone rimanda sempre al fallo) avesse l’effetto di “smantellare il sogno”, di fargli perdere il suo primo significato. È un’idea molto vicina a quella della psicoanalisi moderna, per cui il sogno è essenzialmente una forma di pensiero immaginifico, e come tale non va decrittato, ma elaborato. Quello che conta, prima di tutto, sono le emozioni che suscita.
Dice Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, autore con la germanista Agnese Grieco del saggio introduttivo al volume Sogni. 1875-1931 di Arthur Schnitzler (il Saggiatore): “Ciò che di questi sogni mi ha colpito è il loro carattere di laboratorio inconscio e narrativo. Materiale onirico non proposto per interpretarne in senso classico il contenuto, ma per portare alla luce, come si fa oggi in seduta, il narratore che è all’opera nei sogni”. Questo è infatti uno degli obiettivi della psicoanalisi moderna: più che interpretare il sogno, entrare in contatto con la parte di noi inconscia che lo ha concepito. “Prendiamo, per esempio,  questo appunto-lampo onirico: “Volo nudo per la Ringstrasse nei dintorni del Burgtheater. Molto imbarazzante e penso: per paralizzare l’imbarazzo mi figurerò che è un sogno"”. Schnitzler dialogava con il proprio Io sognante. Ed è anche su questo genere di interferenze che oggi si sofferma la psicoanalisi.
Dietro questo cambiamento ci sono, ovviamente, anche l’avvento delle neuroscienze e la nascita di un nuovo filone di ricerca. Quando nel 1953 Eugene Aserinsky scoprì il sonno rem (la fase del sonno caratterizzata da un’intensa attività cerebrale e da rapidi movimenti oculari), si capì anche che un soggetto svegliato in questa fase ricordava dei sogni, mentre non ricordava nulla se il risveglio avveniva in una fase non-rem. Il passaggio successivo fu dire: i sogni sono solo storie inventate dal cervello per cercare di dare un senso alla tempesta cerebrale del sonno rem. Un duro colpo per la psicoanalisi.
Poi però le neuroscienze hanno portato avanti la ricerca sul sogno, nella convinzione che la sua fisiologia nascondesse qualcosa di più complesso. E la storia ha dato loro ragione. Luigi De Gennaro è professore di Psicofisiologia del sonno normale e patologico alla Sapienza di Roma e il suo gruppo di ricerca ha contribuito allo studio della base neurale dei sogni. “Se sogniamo di alzare un braccio” spiega “si attivano sostanzialmente le stesse aree cerebrali di quando il braccio lo alziamo davvero. Inoltre abbiamo scoperto che si ricorda un sogno soltanto quando nel sonno il cervello ha presentato una precisa attività elettrica, la stessa che si attiva di giorno per la memoria episodica. L’idea che emerge da questi studi è che l’attività cerebrale che produce il sogno sia simile a quella che produce il pensiero”.
Nel 2017, uno studio diretto dal neuropsichiatra Giulio Tononi (Università del Wisconsin) ha identificato anche l’area cerebrale in cui nascono i sogni. Si trova nel lobo occipitale ed è stata battezzata “zona calda corticale posteriore": l’attività onirica è associata a uno specifico cambiamento nello schema di attività di quest’area. Per dimostrarlo i ricercatori hanno monitorato alcuni soggetti addormentati, cercando di prevedere dal loro elettroencefalogramma se stessero sognando o meno: la previsione è risultata corretta nell’87 per cento dei casi. Lo studio ha confermato anche, come suggerito nel frattempo da altri, che in realtà non si sogna soltanto durante il sonno rem. Tutto questo rafforza l’idea che nei sogni la mente – intesa come complesso delle attività psichiche – sia attiva.
Ma quale mente: quella cosciente, o quella inconscia? “Il sogno resta una comunicazione dell’inconscio” dice Anna Maria Nicolò, neuropsichiatra, presidente della Società psicoanalitica italiana, “ma la psicoanalisi oggi considera il sogno una forma di pensiero notturno. Il problema non è cercare al suo interno simboli e verità nascoste, ma capire ciò che il sogno dice della mente. Di giorno riceviamo una serie di stimoli che  possono suscitare in noi impressioni di cui non ci accorgiamo: il sogno le rielabora e le propone in forma di immagini, fornendoci indizi su noi stessi e le nostre emozioni. Bisogna aggiungere, però, che gli scienziati non sono tutti d’accordo: quale sia l’utilità del sogno resta un tema molto discusso”.
Lo psichiatra Robert Stickgold, uno dei massimi esperti in materia, direttore del Centro studi sul sonno di Harvard, ritiene che le storie vissute in sogno siano una sorta di quadro sperimentale entro cui ci alleniamo a risolvere problemi, sia emotivi che pratici. Una specie di palestra di vita. E in effetti diversi esperimenti, condotti per esempio sui pianisti, mostrano che di notte il cervello si esercita, migliora. Ma c’è anche chi, come lo psicologo William Domhoff (Università della California, Santa Cruz), sostiene che non ci siano ancora prove sufficienti ad affermare che i sogni abbiano una qualche funzione. Anzi, dice Domhoff, le ricerche non hanno trovato differenze significative tra chi ricorda e chi non ricorda i sogni; se sognare fosse importante, le avremmo trovate.
Infine qualcuno segnala che, tutto sommato, la scienza si occupa poco dei sogni. Come osserva Stefan Klein, saggista tedesco, autore di uno dei testi più esaurienti usciti di recente sull’argomento (I sogni, Bollati Boringhieri, pp. 304, euro 22), “oggi il numero degli esperti che studiano gli ammassi di galassie alla periferia dell’universo visibile è maggiore di quello di coloro che studiano l’esperienza notturna di miliardi di esseri umani”.
Del resto il sogno è ostico per la scienza perché è un fenomeno intrinsecamente soggettivo e rimanda ad aspetti della coscienza difficili da misurare. Nella letteratura clinica si trova, per esempio, anche quella che lo psicoanalista francese René Kaës ha definito “trasmissione transgenerazionale": alcuni individui, soprattutto bambini, riferiscono sogni che sembrano incentrati su episodi reali (spesso traumatici) vissuti dai genitori, o dai nonni, senza che nessuno glieli abbia mai raccontati. “Sono fenomeni piuttosto consueti per lo psicoanalista” dice Nicolò. “Rimandano all’idea, già espressa a suo tempo da Freud, che esista una trasmissione di contenuti psichici tra generazioni. In questo senso il sogno sembrerebbe avere accesso a stati di consapevolezza che non trovano espressione nelle parole”.