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 2018  novembre 09 Venerdì calendario

Il cantiere del Pasticciaccio

«Archiviòmane» per sua stessa ammissione, Carlo Emilio Gadda considerava i suoi materiali di lavoro parte vitale dell’attività letteraria. Eppure nessuno scrittore ha subìto la sorte beffarda di una tale dispersione di carte. Dai diversi archivi (Roma, Milano, Firenze, Villafranca, Pavia) è emersa, negli ultimi quarant’anni, una impressionante quantità di carte inedite, tra cui colpiva finora l’assenza di testimonianze riguardanti il Pasticciaccio , il «giallo» uscito nel 1957 da Garzanti dopo innumerevoli stesure, lunghe fatiche, angosce, litigi, ripensamenti. Finché dall’Archivio di Villafranca di Verona, che conserva i materiali lasciati dallo scrittore alla governante Giuseppina Liberati, sono venuti alla luce elementi decisivi per capire la genesi del romanzo e per coglierne alcuni passaggi-chiave. La nuova edizione Adelphi, in uscita, è accompagnata da una avvincente Nota al Testo di Giorgio Pinotti, che ricostruisce il tormentato itinerario editoriale del libro e dà conto delle nuove acquisizioni filologiche, pur rimanendo tuttora irreperibile il famigerato manoscritto, un castello di carte che gli amici Pietro Citati e Giorgio Zampa hanno sempre giurato di aver visto in bilico sul caminetto dell’appartamento romano di via Blumenstihl. 
Le duecento carte autografe ritrovate da Pinotti a Villafranca rappresentano il cantiere su cui sorgerà il romanzo: brani approntati per «Letteratura», la rivista fiorentina che tra il gennaio e il dicembre 1946 anticipò in cinque puntate i primi capitoli; schede lessicali, elenchi di personaggi e «scene», note «costruttive» e «critiche», appunti preparatori, mappe, le fotografie scattate nel corso di sopralluoghi realizzati nell’agro romano.
È ormai noto da dove è venuto a Gadda, appassionato lettore di cronache nere, lo spunto del doppio reato attorno a cui, nel 1927, si trova a indagare il commissario don Ciccio Ingravallo: e cioè il furto di denaro e gioielli ai danni della contessa Menegatti e il successivo sgozzamento della sua vicina di casa Liliana Balducci. È stato l’amico Zampa, critico e giornalista, a segnalargli un atroce fattaccio. La mattina del 19 ottobre 1945 la giovane, bella ed elegante Angela Barruca, moglie dell’ingegner Pietro Belli, viene trovata cadavere nel suo appartamento di piazza Vittorio «con la gola squarciata» da un coltello da macellaio, la vestaglia e la sottoveste «rialzate fin sulla vita». Le assassine, arrestate poche ore dopo, sono le sorelle di Colleferro Franca e Lidia Cataldi, «varie volte beneficate» dalla vittima. 
La segnalazione viene accolta da Gadda come «il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore». Un «racconto poliziesco» è occasione da afferrare al volo per ovviare, se va bene, alle difficoltà economiche e all’umiliante «declassamento» in cui versa. In novembre Gadda è già all’opera: un altro amico, Alessandro Bonsanti, gli ha promesso che ospiterà dodici suoi racconti gialli su «Letteratura», per poi raccoglierli in volume. Con rispettivi, provvidenziali, acconti e saldi. Nell’aprile 1946, il giallo ha già preso consistenza di romanzo (160 pagine dalle 40 previste), e il buon Bonsanti diventa, agli occhi dello scrittore, il «negriero» che lega «al banco della galera» la povera vittima recalcitrante e sfruttata («Non si possono scrivere i Promessi Sposi ogni 15 giorni…»). Già dai capitoli di «Letteratura» il lettore poteva almeno intuire l’identità dell’omicida: l’indiavolata Virginia, nipote della Balducci, «fascinatrice» dalla «pubertà facinorosa», i cui occhi pareva «specchiassero na lama de cortello». Inglobando parzialmente nel «grosso pasticcio» un romanzo abbandonato degli anni Trenta, Fulmine sul 220, e il laboratorio aperto del pamphlet antimussoliniano e freudiano Eros e Priapo, Gadda seguiterà a lavorare nel 1947 con «qualche perplessità, con intermittenze», e poi in «ulteriori soprassalti applicativi» nel 1948 e 1949. 
Sono anni in cui le sue condizioni economiche si aggravano «a poco a poco fino alla disperazione» (dal ‘50 verrà assunto in Rai) e che lo spingono a sottoscrivere contratti che non riuscirà a onorare: oltre al volume richiesto da Bonsanti, l’«anticipista» prometterà via via una silloge di racconti a Bompiani, la Cognizione a Sansoni; ad Alberto Mondadori Eros e Priapo, poi il Racconto italiano di ignoto del novecento e il giallo; lo stesso Racconto a Vallecchi e il poliziesco quasi in contemporanea a Vallecchi e anche a Leo Longanesi. Logorando un po’ tutti per i depistaggi, le infinite indecisioni e dilazioni del «debitore inadempiente» (autodefinizione). Tra i «creditori» assatanati, il solo Vallecchi otterrà qualcosa: non ciò che è stato pattuito nel 1947 ma, nel 1953 (!), Le novelle del Ducato in fiamme. Gli altri rimarranno a mani vuote, mentre Gadda informa l’amico Contini sugli sviluppi del libro, accennando alla «coda serpentesca del coccodrillone» che va crescendo a dismisura. 
A proposito del dibattuto finale del Pasticciaccio e della sua incompiutezza, simmetrica a quella della Cognizione, il lavoro di Pinotti smentisce il luogo comune dell’autore che mira all’inconcluso, quasi fosse una sua poetica in continuità con la tradizione del frammentismo. Dalle carte di Villafranca emerge una cartella con un finale del 1948-49 in cui «miracolosamente tutti i fili dell’inchiesta convergono verso il dénouement». Lo svelamento viene ipotizzato in una triplice serie di «scene finali» (ovviamente ancora da scrivere) convergenti su un Leitmotiv pascoliano: il verso del cuculo che rompe il silenzio della campagna. È uno splendido finale (vergato in una paginetta), in lampante «continuità di tono e d’atmosfera» con quello della Cognizione, quasi l’autore volesse unire i suoi due romanzi in una sola grande opera sotto il segno del lirismo. Del «pezzo finale del cuculo» resteranno poche tracce nell’edizione Garzanti 1957: ma non va escluso che Gadda prevedesse di riutilizzarlo nel preventivato seguito del romanzo. 
Da quando, nel maggio 1953, Livio Garzanti entra in scena quale nuovo «sovventore-mecenate» offrendo lire 800 mila a titolo di anticipo, la storia del Pasticciaccio diventa anche la vicenda del tempestoso rapporto tra l’autore e il suo editore, piena di rovesci, vezzeggiamenti, accuse, duelli, furie e colpi di scena. Capitoli consegnati a ritmi allarmanti per Garzanti, il quale considera un affronto l’attenzione che Gadda mostra per altri editori, specie per Einaudi; un via vai di autografi trascritti da una segretaria e rivisti lentissimamente dall’autore con i suoi consulenti linguistici (la revisione del romanesco fa storia a sé); il «fucile spianato» e gli sferzanti rilievi critici dell’editore che accusa Gadda di rendere sempre «meno chiaro e meno felice» il libro a ogni revisione; la mediazione del poeta Attilio Bertolucci, consulente principe garzantiano; la «riconciliazione conviviale» del febbraio 1956 e le nuove tempeste, i ripensamenti sui conti della trama che non tornano; il travaglio sulle bozze; la soluzione «drastica, spericolata e, soprattutto, liberatoria » con il rinvio al secondo volume, ovviamente promesso a Garzanti, per chiarire il nodo narrativo su cui Gadda si è scervellato fino all’estenuazione: il nesso tra la rapina subìta dalla Menegatti e l’assassinio di Liliana. Il 24 luglio 1957 il romanzo è in libreria. Sarà un successo. In settembre la seconda edizione e nel gennaio 1958 le tirature superano le 15 mila copie. Il secondo volume? Rinviato all’infinito, nonostante le ire di Garzanti. «Del Pasticciaccio — scriverà Gadda al cugino nel 1960 – non voglio più sentir parlare».