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 2018  novembre 09 Venerdì calendario

Sindrome cinese: la Malesia nuova pattumiera della plastica

Da qualche parte dovevano pur finire, quelle montagne di plastica e carta da riciclare che la Cina non vuole più. Alcune restano lì dove sono prodotte, in Occidente, senza che neppure gli inceneritori alla massima potenza riescano a smaltirle. Ma la gran parte, respinta alle frontiere cinesi, ha trovato sbocchi in Malesia, Vietnam, Thailandia: negli ultimi mesi questi Paesi hanno rimpiazzato la Cina come i principali centri di lavorazione degli scarti da riciclo. A volte con le stesse aziende mandarine, che per continuare a lavorare si sono trasferite oltre confine. Spesso con standard ambientali e di sicurezza ancora più bassi. Un flusso di bottiglie e cartoni cresciuto con tale rapidità che ora pure i governi del Sudest asiatico frenano: così non si può andare avanti.
Insomma la crisi globale del riciclo, il riassestamento di un’industria da 270 milioni di tonnellate e 200 miliardi di dollari all’anno, è tutt’altro che conclusa. Troppo dirompente lo stop decretato della Cina, lei che importava il 60% della plastica e della carta dai Paesi sviluppati per darla alle proprie industrie, sobbarcandosi il lavoro sporco del trattamento per rigenerarla.
Il nuovo Dragone che vola verso la prosperità non vuole più essere la pattumiera del pianeta, con quello che ne consegue in termini di rischi ambientali e corruzione. Dal primo di gennaio la spazzatura straniera non può più entrare e senza neppure troppo preavviso il mondo si è ritrovato con un sacco di tonnellate senza destinazione, per giunta dal valore in picchiata. Chi ha molti inceneritori, come la Germania, li ha fatti andare a tutta. Chi aveva sempre contato sull’export, come Stati Uniti, Giappone o Regno Unito, lo ha in parte ridotto, vedendo le cataste accumularsi, e in parte dirottato altrove. I dati sui primi sei mesi del 2018 elaborati dal Financial Times mostrano che mentre le importazioni di plastica della Cina sono scese da 1,25 milioni a 70mila tonnellate, la Malesia è cresciuta da 128 a 461mila, di quattro volte, il Vietnam ha raddoppiato a 254mila, la Thailandia è decollata da 17 a 253mila. Stessa sostituzione per la carta, dove però è l’India ad aver assorbito la maggior parte del vuoto cinese.
Il porto thailandese di Laem Chabang, a Sud di Bangkok, è il simbolo di questa nuova geografia del riciclo. In pochi mesi tra i moli sono spuntate decine di aziende che commerciano rifiuti, molte delle quali cinesi, e attorno addirittura 1.300 che li lavorano. È la parte più delicata del processo, quella che l’Occidente aveva con grande gioia delocalizzato in Cina. La plastica deve essere lavata e pulita in un bagno di prodotti chimici, poi scaldata e trasformata in palline, nuova materia prima che le fabbriche possono usare per produrre spazzolini o scarpe. Nella giungla di Laem Chabang, tra piscine e forni, il 95% delle imprese è irregolare, una situazione che insieme alle proteste dei cittadini per l’inquinamento di aria e suolo ha convinto le autorità a imitare Pechino. Entro due anni le importazioni saranno bandite. In Malesia entro tre.
Per allora i flussi di carta e plastica dovranno trovare nuove destinazioni, ammesso che ne restino altre disposte ad accoglierli. L’inatteso blocco cinese infatti, sostengono molti esperti, ha rivelato una crisi esistenziale del riciclo, industria che finora ha funzionato nella misura in cui dei Paesi in via di sviluppo hanno acquistato e trasformato i rifiuti prodotti e cestinati dalle famiglie occidentali. Perché funzioni domani, i Paesi sviluppati dovranno iniziare a trattarseli sempre di più in casa, magari vendendo poi la nuova materia prima alla Cina. Oppure, ancora meglio, a diminuire radicalmente gli scarti, puntando sul riuso e le politiche “rifiuti zero”. Far scendere la montagna, anziché spedirla altrove.