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 2018  novembre 09 Venerdì calendario

Biografia di Ennio Morricone

Ennio Morricone, nato a Roma il 10 novembre 1928 (90 anni). Compositore. Musicista. Direttore d’orchestra. Arrangiatore. Oltre 500 colonne sonore composte. Tra i principali riconoscimenti: un Leone d’oro alla carriera (1995), un premio Oscar onorario (2007) e un premio Oscar alla miglior colonna sonora originale (2016, per The Hateful Eight di Quentin Tarantino). Oltre 70 milioni di copie vendute. «Mi piacerebbe che il pubblico ascoltasse a occhi chiusi. Guardare non serve a niente. Lo dico, ma nessuno mi dà retta» • Primo di cinque figli, nacque e crebbe a Roma, nel quartiere di Trastevere. Fu il padre, trombettista, a iniziarlo alla musica in tenera età. «“A sette anni, ero in villeggiatura e mio padre mi insegnò la chiave di violino. Già scrissi a quell’età delle cosine, che poi ho distrutto quando avevo dieci anni”. […] “Come ascoltatore, in quel periodo c’erano pezzi d’opera che mi piacevano e ascoltavo con attenzione, addirittura inchinandomi per ascoltare meglio con l’orecchio sull’altoparlante della radio. In particolare mi colpì ‘l’improvviso’ dall’Andrea Chénier di Umberto Giordano: un bel pezzo di musica, un bel testo. Ne rimasi affascinato”. […] “Il nostro medico di famiglia era il pediatra dei figli di Mussolini, e per un periodo pensai di fare il medico. Mi intrigava il fatto che questo signore avesse in cura i figli di Mussolini, ma arrivato all’età giusta per fortuna mio padre mi mandò a studiare musica”. […] Studi al Conservatorio di Santa Cecilia, dove Morricone si diploma in composizione, in musica corale e in tromba: “Ai tempi la tromba non mi stimolava particolarmente. Ora come compositore mi piace. Era uno strumento che suonava bene mio padre, e io l’ho studiata perché me l’ha detto lui”» (Christian Zingales). «Nella mia famiglia, il fascismo non l’abbiamo vissuto come un dramma. Però, quando il Duce annunciò la dichiarazione di guerra, mia madre, che lo ascoltava alla radio, scoppiò in lacrime, e io con lei. […] Non eravamo poveri, ma con la guerra arrivò la fame: i surrogati, il pane appiccicoso, la mollica che sembrava colla. Mio zio aveva una falegnameria, e io impolveratissimo andavo con il triciclo a prendere sacchi di trucioli per portarli dal fornaio: ogni dieci sacchi, un chilo di pane. Le notizie arrivavano come attutite. Al mattino studiavo al conservatorio, la sera suonavo la tromba per gli ufficiali tedeschi, riuniti al Florida di via Crispi, a ballare i valzer di Strauss con le ragazze romane. Un giorno in piazza Colonna incontrai un prete partigiano, don Paolo Pecoraro, che mi disse: tra poco ne sentirete delle belle. Seguì un botto. Era la bomba di via Rasella. Poi arrivarono gli americani, e suonavo per loro negli alberghi di via Cavour. Non ci davano soldi, ma cibo – pane bianco, cioccolata, anche pietanze cucinate – e sigarette. Io non fumavo: rivendevo le sigarette e portavo i soldi a casa. La notizia della morte del Duce mi lasciò indifferente. Però quando vidi le sue foto, appeso al distributore di piazzale Loreto, mi commossi. Piansi anche per il re, quando perse il referendum e fu costretto all’esilio. Certo, sapevo che Vittorio Emanuele III se l’era squagliata, ma per me la monarchia era l’Italia del Risorgimento, che finiva per sempre» (ad Aldo Cazzullo). Nel frattempo, «"la morte si portò via mio fratello Aldo. Aveva tre anni". […] "Fu una morte assurda, […] provocata dall’insipienza di un medico. […] Morì per un’enterocolite acuta, scambiata per un banale mal di pancia". Come reagirono i suoi? "Può immaginarlo. Fu terribile. Leggere la tristezza sui loro volti mi provocava un senso di sconforto infinito. Mio padre finì con l’accentuare il suo lato più severo. In contrasto netto con l’atteggiamento della mamma, la cui bontà assoluta era spesso fuori luogo. C’era un’esagerazione in entrambi i sensi che mi disorientava. Cercai sempre più rifugio nella musica"» (Antonio Gnoli). «Per prendere il diploma di tromba era fondamentale far prima il corso di armonia. Io lo feci con Roberto Caggiano, stimato direttore d’orchestra che mi insegnò i primi rudimenti dell’armonia complementare. Caggiano aveva due soli allievi: l’altro era Marafelli, che studiava clarinetto. Io lo sorpresi per la rapidità con cui apprendevo, tanto che lui, dopo un po’, faceva vedere i miei compiti nelle altre classi come esempio. Avevo 16 o 17 anni, e alla fine del corso presi un dieci con lode. Fu allora che Roberto Caggiano mi disse che dovevo studiare composizione”» (a Gianni Minà). «La svolta al conservatorio passa attraverso la figura di Goffredo Petrassi, di cui Morricone è allievo: “È stata una guida teorica e pratica decisiva. Tutto quello che scrivevo lo guardava con attenzione, nel caso lo correggeva, e – devo dire la verità – succedeva di rado. Ma ogni indicazione era importante, e ricordo quello del conservatorio come un periodo di apprendimento sereno, vissuto in modo lieve, in maniera semplice: non ho sofferto alcuna difficoltà”. […] “Lo studio con Petrassi passava in esame tutta la storia della composizione musicale”, puntualizza, “quindi mi sono trovato a rifare praticamente tutto, dalla polifonia a Bach, da Mozart a Beethoven, si imparava nel dettaglio la scrittura di questi compositori del passato, arrivando fino a Stravinsky, e con lui ci si fermava. […] Per quanto riguarda le avanguardie, poi, finiti gli studi ho iniziato a prendere coscienza di tutto il resto. Avendo assunto una tecnica molto chiara ho cominciato a seguire tutto quello che succedeva al di fuori del conservatorio: la dodecafonia, la musica aleatoria, la musica gestuale, Stockhausen, Cage, Berg, Schönberg, Webern, Boulez, Nono, Maderna… e in quel momento decisi di mettermi a confronto con i grandi del passato. Scrissi i primi pezzi, uno dal titolo Distanze, per violino, violoncello, pianoforte: cercavo una dialettica con quello che succedeva nella musica contemporanea. È stato un percorso di formazione: ho scritto subito tanti altri brani, ma non d’avanguardia come quei primi lavori”. […] “Mentre studiavo al conservatorio facevo già gli arrangiamenti per la radio, poi per il teatro e la televisione. Feci molta pratica, comprese orchestrazioni per il cinema per i maestri pigri o che avevano troppo lavoro. Quando mi chiamarono a fare la prima colonna sonora ero già pronto. Tutto è servito, anche i lavori più umili, ma non è il termine giusto: meglio dire i lavori più semplici, come arrangiare le canzoni. Tutto è servito alla tecnica e all’esperienza che avevo acquisito, agli amori per i classici del passato. E questo creò una mescolanza psichica e tecnica in me: potevo scrivere in tutti i linguaggi”» (Zingales). «La Rai a un certo punto lo assunse, ma non fece nemmeno in tempo ad accorgersene: l’impiego durò un giorno soltanto (Morricone scoprì che, da dipendente, le sue musiche non avrebbero potuto essere trasmesse). […] “Ho smesso di scrivere per la radio e la tv quando sono stato sicuro che comunque avrei lavorato”. Ricorda di quando entrò alla Rca, la gran fabbrica di musica popolare nazionale: “Ero contento, prendevo 20 mila lire a canzone più le royalties sulle vendite. Andai anche a Sanremo per accompagnare Paul Anka che cantava Ogni volta. Quel disco vendette un milione e mezzo di copie, ma mi fece decidere di lasciare quel lavoro. Il fatto è che il direttore generale era Ennio Melis, e lui mi chiedeva di ascoltare i dischi che arrivavano dall’America e di puntare su arrangiamenti come quelli, con le ritmiche molto spinte. Io, invece, amavo fare arrangiamenti italiani. Me ne sono andato e ho cominciato il lavoro nel cinema”. Il debutto era già venuto da qualche anno: “La prima esperienza fu con Il federale di Luciano Salce”» (Marco Molendini). «Il produttore era Dino De Laurentiis, disse: "Ma chi è ’sto Moricone?", pronunciando il nome con una erre, "Prendiamo uno famoso. Chiama Trovajoli". Salce si impuntò, con un argomento che sapeva di scommessa: "Non è famoso, ma lo diventerà"». «“Quell’esperienza andò bene, e per qualche anno collaborammo assieme. Poi vennero gli altri registi". Tra i quali, immagino, Sergio Leone ha un posto di primo piano. "È stato certamente importante. Ma di solito si dimenticano gli altri: Pontecorvo, Bertolucci, Petri, Montaldo, Bolognini, Tornatore; per non parlare dei registi stranieri: da Brian De Palma a Terrence Malick. Mi scoccia un po’ che si dica che tutto comincia e finisce con Sergio Leone"» (Gnoli). «Erano stati insieme in terza elementare, e si ritrovano in tempo per una collaborazione che marchierà a fuoco le rispettive carriere. Quando tra 1964 e 1966 il regista parte con la famosa Trilogia del dollaro – Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo –, […] Morricone è sul luogo del delitto. L’impressione davanti alle sue colonne sonore è di veder materializzarsi una musica capace di aggiungere l’immagine definitiva a un cinema già immaginifico, una partitura dallo spiccato carattere visuale, grande uso di rumori e sapiente collocazione degli spazi, fischi a evocare desolazione, chitarre abrasive che faranno impazzire la scena rock. “Le immagini dicevano molto, però non bastavano. Io cercavo di tradurre nelle cose che scrivevo le esperienze che avevo avuto fino ad allora, che in genere provenivano dalla musica contemporanea. Quando ho usato strumenti che non erano strumenti musicali tradizionali, nei film di Leone o in altri, volevo trasferire nella musica per il cinema la musica fatta di rumori, quella che chiamavano musica concreta”» (Zingales). «“Ci sono i registi che ti lasciano libero, quelli con cui finisci per scontrarti e quelli con cui riesci ad arrivare a un compromesso”. Con Leone, per esempio, “c’erano affiatamento e confidenza. Si sa: eravamo in classe insieme in terza elementare. Ma dovevi sempre convincerlo della tua idea. Aveva l’ossessione della perfezione […] propria dei grandi autori di cinema. In C’era una volta il West, per esempio, perseguitò i rumoristi per la scena dello scontro tra treni, fino a che non riuscì a ottenere l’effetto che voleva. Ogni volta che avevamo una discussione, però, avevo un’alleata preziosa: la moglie Carla. Spiegavo le mie ragioni a lei, che, in un modo o nell’altro, lo convinceva”. […] Pasolini “era molto gentile ma sempre serio. Abbiamo lavorato a lungo ma ci siamo sempre dati del lei, non saprei dire se alla fine diventammo amici. Era un artista che teneva in grandissima considerazione il lavoro artistico. Poi aveva le sue idee, che non sempre coincidevano con le mie. Ti chiedeva di riarrangiare brani della tradizione classica, oppure alternava pezzi tuoi a Mozart. Quell’approccio non l’ho mai condiviso, e protestavo. All’inizio mi lasciava libero, alla fine della sua carriera mi sono ‘arreso’ alle sue richieste. E quindi optammo per la dicitura ‘musiche a cura dell’autore con la collaborazione di Ennio Morricone’”. Ce n’è anche per Bernardo Bertolucci (“Per quanto mi riguarda, tra i migliori registi italiani di sempre. Ho avuto la fortuna di musicare Novecento, che ritengo essere il suo capolavoro”) ed Elio Petri, con le musiche di Indagine che stregarono Stanley Kubrick: “Mi chiamò per Arancia meccanica. Eravamo d’accordo anche sul compenso: 15 milioni di lire, poca roba per una produzione di quel livello. Voleva qualcosa di simile a Indagine. Detesto direttive di questo tipo, ma in quel caso avrei ceduto perché era Kubrick. Il progetto sfumò con una telefonata di Leone: gli spiegò che ero ancora impegnato con Giù la testa. E il film lo fece Walter Carlos”» (Francesco Prisco). «Un’altra fase decisiva […] è rappresentata, all’inizio degli anni ’70, dalle colonne sonore per Dario Argento e il filone del “Morricone giallo”. In titoli come L’uccello dalle piume di cristallo e 4 mosche di velluto grigio convivono sinistre sonorità dissonanti e spiazzanti temi infantili, ed è uno dei momenti musicali che tuttora Morricone ha più a cuore: “Nei primi film di Dario mi misi a fare il compositore di avanguardia assoluta – e quindi la musica gestuale, la ’musica a gruppi’ – per sottolineare le cose drammatiche che si vedevano. Poi, per rendere il film ascoltabile alla gente normale e descrivere le manie dei protagonisti, che spesso avevano origine nell’infanzia, usavo temi semplici: una ninna nanna, pezzi volutamente ingenui… volevo equilibrare il rischio che le musiche difficilissime portavano nelle parti più dure del film con temi più elementari. E, sì, probabilmente questi aggiungevano ulteriore inquietudine, perché facevano capire le ragioni delle terribili personalità dei protagonisti”» (Zingales). «Morricone sembra altrettanto a suo agio nei film di genere (e mi riferisco a tutti i generi) come nei film cosiddetti minori, più personali e intimisti. In Mission (1986) ha creato una magnifica colonna sonora che ruota intorno al tema del potere della musica, musica che è vista da un lato come salvezza e dall’altra come simbolo dell’oppressione coloniale: il film si chiude sull’immagine di un violino rotto che galleggia sulle acque del fiume» (Christopher Frayling). Proprio alla colonna sonora di Mission di Roland Joffé è legata una delle poche delusioni della carriera di Morricone: il mancato conferimento dell’Oscar alla miglior colonna sonora originale, nel 1987. «A quelle musiche tenevo particolarmente. Invece se lo prese Herbie Hancock per Round Midnight. Per carità: non discuto l’artista, ma non erano neanche tutte composizioni originali. Ricordo le proteste alla cerimonia di consegna. Poi l’Oscar è arrivato con The Hateful Eight, che all’inizio neanche volevo fare. Tarantino venne a trovarmi a casa, mi raccontò questa idea singolare del western girato sulla neve. Solo Corbucci poteva avere un’idea del genere, e così mi sono lasciato convincere». «In fondo lo aveva detto già nel 2007, ricevendo dalle mani di Clint Eastwood l’Oscar alla carriera, salutato anche allora da un’interminabile standing ovation: il premio non costituiva un traguardo, ma un punto di partenza per il lavoro futuro. Non era una frase fatta: nove anni dopo […] è arrivato, nella piena maturità della sua parabola, il riconoscimento dell’Academy per la migliore colonna sonora, per il film The Hateful Eight di Quentin Tarantino» (Andrea Penna). «Con il cinema ho praticamente chiuso. Con una importantissima eccezione: Giuseppe Tornatore. Sto scrivendo le musiche dei suoi prossimi due film. Quando me lo chiede Peppuccio è diverso. Ci conosciamo: io so quello che vuole, lui sa come mi piace lavorare. Ci sono i presupposti perché esca un buon risultato. […] A lui non so dire di no, e le composizioni per i suoi film sono tra le mie migliori cose. Non sempre il pubblico lo ha capito. O forse dovremmo dire: non ancora». Nel 2016, per celebrare i suoi sessant’anni di carriera, ha pubblicato un album antologico, Morricone 60, e ha dato inizio a una tournée internazionale tuttora in corso, «The 60 Years of Music Tour», con cui ha da tempo superato il traguardo dei 500 mila biglietti venduti. «La logica era: alcune cose le devo fare perché me le chiede il pubblico. E qui ci metti le colonne sonore di Leone, il lavoro per Tarantino, l’Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Altre cose le devo fare perché piacciono a me. E qui ci metti i lavori per Tornatore, per esempio, o qualche pezzo più complesso. Una buona scaletta è sempre sintesi tra gusti del pubblico e proposta dell’autore». «Per anni ho diretto solo in studio alla presenza del fonico, ora mi piace vedere la reazione del pubblico dal vivo. E, oltretutto, mi pagano anche» • «La mia idea è stata sempre quella di fare musica assoluta. Avevo studiato con Petrassi per quello, ma certo non si guadagnava nulla. Allora, ho alternato le due cose. Ho fatto almeno 100 composizioni di musica assoluta, ma quando scrivevo per dei quartetti o per dei sestetti avevo bisogno di prendere una pausa dal lavoro di scrittura per il cinema. Oggi per fortuna le due linee musicali si sono molto avvicinate. E sono convinto che sia stato questo il mio contributo al cinema» • «Non c’è musica che Morricone non abbia praticato con successo, dai Cori di Didone di Luigi Nono ai madrigalisti del Cinquecento; ha composto Anamorfosi latine e La ballata di Sacco e Vanzetti, ha musicato salmi, versetti, sure del Corano, e non tutti ricordano che sono suoi gli arrangiamenti di Ciribiribin, Guarda come dondolo, In ginocchio da te, Sapore di sale, Se telefonando, e tantissimi altri motivi leggeri degli anni Sessanta» (Merlo) • Sposato dal 1956 con Maria Travia, cui ha dedicato commosso entrambi gli Oscar. «È un vero peccato non aver dedicato a mia moglie, a Maria, una parte più ampia del tempo che invece ho trascorso con le orchestre e con i registi. Anche se lei non me l’ha rimproverato mai, e continua a non lamentarsene oggi. Ogni tanto passo davanti a un piccolo mobile sistemato nel salone grande. C’è una sua foto, vedo la bellezza della sua gioventù: forse non me ne sono accorto, mi dico, eppure le ho voluto un bene infinito. In quella fotografia è furbetta, bella, mi ricorda tutte le volte che l’ho vista quando aveva diciotto o vent’anni. Mi è sempre piaciuta moltissimo» (a Giuseppe Tornatore). Quattro figli, tre maschi e una femmina, uno dei quali compositore e direttore d’orchestra (Andrea) e un altro regista e sceneggiatore (Giovanni) • «Se non fosse stato per la musica, forse avrei intrapreso l’avventura degli scacchi. Fin da piccolo mi appassionai a questo gioco, mostrando quasi subito delle qualità. La famiglia non aveva grandi disponibilità economiche. Solo immaginare che avrei intrapreso una carriera da scacchista era impensabile. A quel tempo già studiavo musica, e mio padre, che spesso mi vedeva chino sulla scacchiera, sbottava, ingiungendomi di farla finita. E io, obbediente, la finii. […] Ricominciai a giocare tardi, verso la seconda metà degli anni Cinquanta, ma non avevo più l’agilità, né l’assimilazione dello studio. […] In un torneo di esibizione a Torino, […] incrociai un paio di partite con Boris Spassky, […] e una finì patta. Con mio grande orgoglio, devo aggiungere. A cena, quella sera, gli chiesi se aveva giocato come fosse in un torneo vero: "Come se avessi davanti Fischer?", mi chiese ridendo. Capii che non si era molto impegnato. Ho anche giocato con Kasparov e Karpov, ma, visti gli esiti, sospetto che non furono generosi come Spassky». «Quando penso agli scacchi lo faccio indipendentemente dalla scacchiera. Le mosse, fino a un certo punto, si succedono nella mia testa. Con la musica, uguale. Compongo senza bisogno della trascrizione al pianoforte. Tutto si svolge nella mia testa» • «Non sono mai stato comunista, né socialista. Sono cattolico, nella Prima Repubblica votavo democristiano. Del resto, Gesù per me è stato il primo comunista. Mi sento dalla parte dei poveri, anche se ho una bella casa; ma i soldi non li ho rubati. Ho ammirato De Gasperi. Ho condiviso il progetto di Moro di aggregare al centro le forze popolari. Avevo un’alta concezione di Craxi. E ho sempre stimato Andreotti: sono stato felice che sia stato assolto, e che abbia sempre rispettato i magistrati, a differenza di altri» • Romanista • Nel 2016 gli è stata finalmente dedicata una stella sulla Hollywood Walk of Fame (la numero 2574) • Il suo nome è stato assegnato a un asteroide (152188 Morricone) • «Un genio assoluto e un uomo così semplice che quando ci parli sembra di chiacchierare con l’uomo che la mattina ti vende il pane fresco: la sua cara inflessione romanesca, la moglie Maria alla mano come lui, e in mezzo ai due tanta intelligenza, tanto amore, tanta autenticità. […] Tutto il contrario del trombonismo da cui siamo circondati» (Giorgio Dell’Arti) • «Il mio sogno è sempre stato reinterpretare l’Inno di Mameli. L’ho realizzato per Cefalonia, il film per la tv: una versione più lenta, solenne. Ma, quando diressi al Quirinale il cerimoniale mi bloccò» • «I Metallica da anni aprono i loro concerti con le note di The Ecstasy of Gold da Il buono, il brutto, il cattivo, e la cosa mi ha sempre divertito molto, perché io con la loro musica non ho nulla a che fare!» • «"Ritengo che il successo sia un evento provvisorio. Ed è dura, molto dura, confermarlo nel tempo. Ogni volta che penso di aver fatto il massimo, so che si può ancora fare meglio. […] Credo che la musica sia una vigile e costante applicazione del talento. È un mestiere totale. Almeno per me". […] È importante il silenzio nella musica? "È la sua parte più segreta e intima. […] Riccardo Muti ha eseguito a Chicago una musica che scrissi nel ricordo della tragedia delle Twin Towers e che ho chiamato, non a caso, Voci dal silenzio. C’è un istante, dopo un grave trauma, in cui tutto si ferma. Tutto tace. È in quel momento che il suono manifesta la sua forza"» (Gnoli). «Io credo che la Musica sia già tutta scritta, quella eseguita e quella ancora da eseguire. Si tratta solo di comporre e ricomporre: ma la musica è già lì. È la Musica che sceglie le sue creature, i suoi compositori».