Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  ottobre 29 Lunedì calendario

Biografia di Pietro Sermonti

Pietro Sermonti, nato a Roma il 25 ottobre 1971 (47 anni). Attore. «Fino ai vent’anni ho giocato a pallone, poi ho continuano a farlo con altri mezzi» • Secondo dei tre figli di Vittorio Sermonti (1929-2016), scrittore e grande esegeta di Dante, e Samaritana Rattazzi, figlia di Susanna Agnelli e del conte Urbano Rattazzi. «Il mio babbo ha conosciuto mia mamma perché era andato a casa di mia madre a far ripetizioni ai suoi fratelli piccoli, che non spiccavano per essere dei grandi studiosi. Mia mamma ha visto quest’uomo di una certa età entrare molto elegante – lui sostiene – in questa casa, e dice di essersene perdutamente innamorata, lei ventenne di lui quarantenne» (a Stefania Ulivi). Due sorelle: una maggiore, Maria, morta ad appena quattro anni e mezzo per una malattia congenita, e una minore, Anna, laureatasi prima in Storia dell’arte e Archeologia e poi in Fisioterapia. «La mia famiglia era segnata dalla morte di mia sorella. Io ero piccolo, e non ho ricordi precisi. Ma quel senso di solitudine mi è rimasto dentro, come le scatole nere degli aerei che le sonde vanno a ripescare in fondo al mare. Ci fai i conti, ma non li chiudi mai» (a Federica Furino) • Assai modesto il suo profitto scolastico, al prestigioso Lycée Chateaubriand di Roma. «Ho fatto ripetizioni per un certo numero di anni con scarsissimi, scarsissimi risultati, tranne quello di divertirmi moltissimo, perché facevo ripetizioni con un paio di ragazzi che facilmente scartavano dallo studio, e soprattutto giocavamo moltissimo a battaglia navale, a Trivial… Infatti mi hanno bocciato quattro volte. Non è uno scherzo: io facevo la scuola francese, e gli italiani che facevano la scuola francese erano anche costretti a fare gli esami della scuola italiana, cioè quelli di quinta elementare e poi di terza media, per cui io in un anno, quando avevo tredici anni, sono stato bocciato nel giro di una settimana due volte, prima alla scuola francese e poi all’esame di terza media. Questo ha gettato nello sconforto soprattutto mia madre. Mio padre invece mi disse, con grande saggezza: “Guarda, adesso ti sembra una tragedia: tu hai tredici anni e devi fare un anno in più, è una grande distanza… Vedrai che fra vent’anni neanche te ne ricorderai più”. Me lo ricordo perché poi invece mi hanno bocciato pure l’anno dopo. […] Il penultimo anno mi hanno ribocciato, però sono fuggito, sono andato a giocare a pallone a Torino, non ho fatto l’ultimo anno e ho fatto la maturità a Nizza. […] Poi peraltro io mi sono quasi laureato in Scienze politiche con indirizzo storico-politico, ma ho mollato per vanità». La grande passione, fin da piccolo, era il calcio. «Ho dovuto imparare a gestire presto la solitudine, per via di mia sorella che impegnava i miei a tempo pieno. Il mio migliore amico era il pallone» (a Solange Savagnone). «Da bambino ero timidissimo, ma in campo col numero 10 ero un leader. A 13 anni, mentre i miei amici andavano in vacanza, io stavo con il Tor di Quinto in ritiro. Mia nonna Susanna Agnelli pensava fossi pazzo…».  «Ed ero niente male. Numero 10, discepolo di Platini, uno dei più grandi artisti del ’900, niente da invidiare a Nureyev o Zidane e De Niro. […] Mio padre era il mio più grande tifoso, sognava di vedermi giocare. A 19 anni ho smesso con la scusa di un incidente. Ero pigro, viziato, vanesio. Non avevo la tigna e neppure il corpo giusto. La fantasia c’era, ma non bastava più. Un amico mi disse che fisicamente ero meglio come lanciatore di coriandoli che come giocatore nelle giovanili della Juventus. Però ero bravo» (a Margherita Tamburrino). «Soffrivo di pubalgia, come il mio idolo Michel Platini. Naturalmente l’ho vissuta come un segno. Erano gli anni ’80, e sono stato una delle prime vittime del 4-4-2» (ad Aldo Fittante). «Sono stato un figlio mediocre, arrabbiato, viziato e non affettuoso. Non avevo risolto i miei conflitti» (a Tiziana Leone). «Non ero una persona particolarmente attendibile: ero discontinuo nei rapporti, bevacchiavo, ero viziosetto, giocavo ai cavalli e a tutto quello cui si può giocare… Nel frattempo sono rinsavito». «Non ho mai esagerato, in realtà, anche se ho un temperamento passionale e ho rischiato di rimanere schiavo delle mie cattive abitudini. Con l’esperienza e con il passare degli anni, ho imparato a controllarmi e a viverle con moderazione. Quanto all’alcol, non bevo più: lo facevo spinto dalla tristezza» (a Nicole Cavazzuti). Dopo aver rinunciato al sogno di diventare un grande campione del calcio, si dedicò agli studi di regia e recitazione, prima in Italia e poi negli Stati Uniti, debuttando a teatro nel 1996, diretto da Luca Ronconi in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana tratto da Gadda, e al cinema nel 1998, nel drammatico Piccole anime di Giacomo Ciarrapico. «Fino al 2 settembre 2001 ho frequentato i corsi della New York Film Academy, poi Osama Bin Laden mi ha rovinato». «Sono passato dal teatro alla televisione dopo un momento preciso: studiavo recitazione teatrale a New York, sono tornato in Italia per uno spettacolo, e, quando sarei dovuto tornare, c’è stato l’attentato alle Torri Gemelle. Da allora non me la sono più sentita, di tornare. E nel frattempo […] ho avuto l’audizione per Un medico in famiglia» (a Riccardo Burgazzi). Fu proprio la popolare serie di Rai Uno a decretare la notorietà e il successo di Sermonti presso il grande pubblico. «Ricordate? Sermonti interpretava il dottorino Guido Zanin, il medico che tutti vorrebbero incontrare una volta nella vita: dolce, simpatico, comprensivo. Lasciare […] è stata una sua scelta, mai rinnegata. […] “Abbandonare Zanin non era facile. Per molti la mia è stata una scelta di grande coraggio. Per me, la logica conseguenza di quello che veramente avrei voluto fare di questo lavoro e della mia vita. Per compiere un passo indietro nella mia carriera, buttandomi dal treno in corsa, mi è stato di grande aiuto lo yoga. […] Ho scoperto che la popolarità non fa per me. Mi spiazzava addirittura essere al centro dell’attenzione. Certo, tra una serie e l’altra mi offrivano di tutto. Poi, per un periodo, più niente”» (Luca Giordano). «A un certo punto ho chiesto di far morire il mio personaggio della serie Un medico in famiglia proprio per non rischiare che poi, ogniqualvolta mi volessi proporre per un altro tipo di carattere, mi dicessero: “No, grazie: tu sei il medico e devi restare il medico”». Partecipò quindi ad alcune produzioni cinematografiche, tra cui due opere prime (SoloMetro di Marco Cucurnia nel 2006, Sweet Sweet Marja di Angelo Frezza nel 2007) e la commedia Amore, bugie & calcetto di Luca Lucini (2008), e televisive, segnalandosi in particolare nelle tre stagioni dell’anomala e apprezzata serie televisiva (e «metatelevisiva») Fox Boris (2007-2010), nonché nella sua versione cinematografica Boris – Il film (2011), nei panni del «divo» Stanis La Rochelle, attore mediocre quanto vanesio. «Boris ha cambiato la storia della tv. E anche un po’ la mia: mi ha salvato dal ruolo del fidanzatino romantico in cui Un medico in famiglia mi aveva incastrato. C’è un “prima” e un “dopo” Boris nella mia vita. E forse anche in quella degli altri». «Stanis La Rochelle nasce […] dall’osservazione di alcune persone che ho conosciuto. Certo, è un personaggio che non evolve, che non ha profondità… e purtroppo dopo di lui ho avuto solo richieste per recitare in commedie. Quindi ho sentito montare spontanea la necessità di esprimere altro, per esempio dandomi di nuovo al teatro, e in particolare a Cechov». Oltre a recitare in teatro (tra l’altro, nei panni dell’amante della protagonista di Dona Flor e i suoi due mariti nel 2010 e negli scarsi panni di uno spogliarellista improvvisato in The Full Monty – Il musical nel 2013), Sermonti ha continuato ad apparire anche in televisione, soprattutto in alcune serie di Rai Uno, prima affiancando Francesco Pannofino nelle vesti dell’assistente Archie Goodwin in Nero Wolfe (2013), poi interpretando il ruolo di padre, marito e fratello ideale (nell’ambito, però, di una sceneggiatura non banale, tratta dalla serie statunitense Parenthood) in Tutto può succedere, serie iniziata nel 2015 e giunta finora alla terza stagione; fortunate anche alcune sue recenti esperienze cinematografiche, soprattutto i tre capitoli di Smetto quando voglio di Sydney Sibilia (2014 e 2017), in cui interpreta un antropologo culturale indotto al crimine dalla disoccupazione, e la commedia Terapia di coppia per amanti di Alessio Maria Federici (2017). «Smetto quando voglio è il primo tentativo di commedia italiana d’azione, ma mi piace anche raccontare sentimenti cupi e fragilità, come fa appunto Tutto può succedere: quando si va verso una certa età si ha voglia di toccare corde più nascoste, specie se come me si ha un’indole malinconica» (a Paola Casella). Per il 25 ottobre 2018 è prevista l’uscita della commedia Uno di famiglia di Federici, in cui Sermonti interpreta un insegnante che si ritrova in mezzo a una famiglia malavitosa. «Luca è un uomo qualunque, onesto e candido, che vive una vita tiepida. Finisce risucchiato dalle sabbie mobili di questa famiglia morbosa. Nell’incontro con la famiglia della ’ndrangheta dei Serranò, prima è incredulo e poi si preoccupa, ma subisce anche il fascino del torbido. La generosità di questi criminali è violenta: è difficile sottrarsi» • Tuttora profondo e vivo il dolore per la morte di suo padre, occorsa a 87 anni il 23 novembre 2016. «“Non sono l’unico ad aver perso il padre, ma il solo ad aver perso Vittorio Sermonti”. Che cosa è stato per lei? “Mi ha dato le chiavi per uscire dalla solitudine in cui vivevo da bambino: il senso del gioco, la sostanza magica che mi ha salvato. Credo sia per questo che prima ho giocato a calcio, poi sono finito a fare l’attore, che è un grande gioco fatto di trucco, di viaggi, di pause, di tribù dove si prendono cura di te”. […] Che altro le ha lasciato suo padre? “La sostanza di cui sono fatto. Le parole che uso. L’amore per i libri e per le storie da raccontare. E ore e ore di registrazioni della sua voce sparsa in una miriade di nastri”. […] Da sua madre, invece, che cosa ha ereditato? “Un senso del dovere prussiano, militaresco, che rivendico come insospettabile ingrediente della mia anima. Sono l’unico bambino al mondo a non aver saltato un giorno di scuola se non per malattia”» (Furino). «Il fatto di essere un “meticcio”, di appartenere a una famiglia di “signori del vapore” e di essere figlio di un grande intellettuale, credo sia la mia fortuna. Tolti tutti gli attriti tipici dell’adolescenza, con le sue asprezze e spigolosità, ovvero una volta fatta pace col mio sangue, ho davvero cominciato ad apprezzare il patrimonio culturale che avevo a disposizione. […] Ho passato estati in cui per la prima metà mi vedevo costretto nei salotti della regina d’Olanda (alla quale tra l’altro facevo saltare la dentiera canticchiandole Bandiera rossa) e nella seconda metà a giocare a pallone in strada a Santa Marinella. […] Dal punto di vista della meritocrazia, invece, non mi sono mai dovuto trovare a dire “No, guardate: sono qui perché sono capace e non perché sono raccomandato”. Anzi: ho sempre dovuto dimostrare davvero il mio valore, proprio perché se mi buttavo su un ramo qualcuno diceva “Ah, ma perché tua madre…”, se mi buttavo su un altro “Ah, ma perché tuo padre…”: stando a questa logica avrei dovuto fare il pusher!». «Certo, rispetto ai miei cugini, sento di essere un po’ un bastardello» • Nonostante numerose relazioni (tra le più note, quella con l’attrice Margot Sikabonyi, al suo fianco in Un medico in famiglia, e con la conduttrice Alessia Marcuzzi), è ancora celibe e senza figli. «Capita che mi innamori dell’amore, ma poi temo le responsabilità del quotidiano». «I bambini per me sono tra le creature più affascinanti di questo mondo. Sento il desiderio di paternità, anche se ormai sono un signore di una certa età. È difficile slegarlo da affetti e amori. Fino a qualche anno fa credevo che non sarei mai diventato padre perché mio figlio mi avrebbe detto: “Ti prego, papà, basta giocare! Posso studiare un pochino?”. Oggi, se dovesse succedere, penso che sarei un padre dignitoso» (a Rosa Maiuccaro) • Fervente juventino: «L’amore della mia vita è la Juventus». «Molti pensano che io sia della Juve per appartenenza familiare. È vero, ma lo devo a mio padre Vittorio Sermonti, che con gli Agnelli non c’ entra niente» (a Timothy Ormezzano) • «All’alba dei miei vent’anni scrissi un libro che s’intitolava Il calciatore gentiluomo, che fortunatamente ho dato alle fiamme, ispirato un po’ a Buñuel, un po’ a Flaiano, un po’ ad Alvaro Vitali» • «La mia vita gira intorno al teatro, al cinema e alla Juventus. […] E poi, passerei le giornate a leggere e a praticare surf, uno sport che aiuta a conoscersi meglio e a superare le proprie paure» • «Qual è un insegnamento che le ha trasmesso suo padre, il grande scrittore Vittorio Sermonti? […] “‘Ricordati, figlio mio: il mondo è diviso in due categorie: c’è chi sta male e vuole stare meglio, e chi sta male e vuole che tu stia come lui’. Per questo mi tengo lontano dai social network: troppa negatività”» (Annalia Venezia). «Ringrazio Dio di non essere cresciuto adolescente con i social, se no sarei morto. L’idea che a 15 anni parti per le vacanze e sei sempre connesso, vado qui vado lì… questa cosa febbrile di condividere mi fa orrore. È la sindrome del criceto nella ruota: hanno contrabbandato la nostra libertà per modernità». «Sono un tipo riservato. Trovo molto faticoso parlare di me. Sono preciso al limite della pignoleria, pieno di difetti, ma anche molto giocherellone e sensibile, non solo nei confronti dell’altro sesso» • «Sermonti ha un talento speciale: l’umanità. Da Boris alle commedie, […] regala ai personaggi il suo sguardo comprensivo e ironico. […] "Farei volentieri il ruolo di un cattivo, anzi cattivissimo, per poter uccidere qualcuno. […] Il cinema […] ti permette di liberare l’energia negativa, di tirare fuori l’ombra che tutti abbiamo dentro e che non possiamo esprimere, se no andremmo dritti in galera"» (Silvia Fumarola) • «Ti senti più legato al palcoscenico o allo schermo? “Al palcoscenico, senz’ombra di dubbio. Quando da giovane ho lavorato in teatro come aiuto regista, guardavo agli attori come a dei supereroi. In teatro si è molto più onesti che nella vita (è una cosa che ho sperimentato provando un pezzo de Il gabbiano di Cechov): si è molto più a fuoco, ed è una sensazione intossicante. È la consapevolezza di dire qualcosa che è sempre valido, che va oltre te stesso. Tra l’altro, mi piace considerarmi anche un “autore dormiente”: da un lato mi piacerebbe uscire, prima o poi, con un’‘opera prima’, dall’altro adotto come scusa il fatto che lavoro come attore proprio per mettere le mani avanti e dire che non ho tempo di scrivere. Forse alla fine resterò l’unico italiano a non aver scritto la sua opera prima… Ma del resto c’è tempo: in Italia si è giovani promettenti fino ai 72 anni!”» (Burgazzi). «Nell’animo […] sarò un calciatore per tutta la vita, e se dovessi rinascere mi piacerebbe diventare un campione». «“La mia vita non è molto lontana dai miei sogni. Uno di questi è raccontare delle belle storie girate e recitate bene. Un altro sarebbe dedicarmi a uno sport meglio che posso, e non escludo che possa essere il ping pong! Chi è giocatore dentro lo rimane per sempre, fino alla morte. Giocare salverà il mondo, ed è curioso che per gli inglesi i verbi recitare, giocare e suonare si traducano con la stessa parola: ‘play’”. […] Cosa spera che accada di bello e impossibile nella sua vita? “Che prima o poi la Juventus vinca la Champions League. Se dovessi scegliere tra un David di Donatello come migliore attore e la Coppa dei Campioni, non avrei dubbi: sarebbe un’emozione imparagonabile. Ma è un falso problema, perché non accadrà nessuna delle due cose”» (Savagnone).