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 2018  ottobre 11 Giovedì calendario

Josepha è tornata a camminare

Calunniata: ’La naufraga con lo smalto’. Dileggiata: ’Un’attrice, perché lo smalto è intatto dopo 48 ore in acqua’. Schernita: ’Scappa dalla guerra ma si è pitturata le unghie’. Oltraggiata: ’Le mani non hanno l’aspetto spugnoso tipico di chi resta in acqua per ore’. Offesa: ’Non c’è stato alcun naufragio’. Infine dimenticata. Fino a ieri, quando Josepha ha deciso di parlare.
Il campionario delle armi tossiche razziste ha dato il peggio, esondando sopra il corpo immobile di una donna quasi morta i peggiori rigurgiti suprematisti. Era il 16 luglio quando venne tratta in salvo quasi per caso. Intanto Josepha, curata dalla Croce rossa spagnola in una struttura protetta, ha continuato a lottare contro i fantasmi di quella sera. Gli spettri che tra le onde le preannunciavano la fine, com’era avvenuto qualche ora prima con l’ultimo spasimo di un’altra profuga e del suo piccolino, ustionati e avvelenati dalla soda caustica esalata dal carburante del gommone a contatto con l’acqua salata.
Ieri, per la prima volta, abbiamo ascoltato la voce di Josepha. Un breve messaggio vocale. Una cantilena dolce e malinconica. «Sto meglio. Ringrazio tutti. Oggi comincio a muovere i primi passi». Poi ci è arrivata una sua foto, appena sorridente, finalmente in piedi. Josepha si sta rialzando. E con lei anche quanti hanno creduto e credono che la vita non si baratta con un sondaggio elettorale o un tweet raccatta- consensi. Da cento giorni Josepha non riusciva più a muovere le gambe. L’ipotermia, certo. Ma più di tutto lo choc. «Ho pensato che ero già morta», ha detto il giorno dopo il soccorso. Parole proferite a fatica. Sillaba dopo sillaba. È stata Josepha a dire che adesso quel racconto andava fatto conoscere al mondo. Sono le confidenze di una sopravvissuta. E ha scelto Avvenire.
Difficile non versare neanche una lacrima con quel foglio tra le mani. «Ho cominciato a pregare, ho invocato la Vergine del Mare. Le ho detto: ’Mamma, tu sei mia madre, sei la Stella del Mare, e qui siamo solo io e te. Fa un miracolo, e vieni qui a trovarmi’».
Più di un giorno e una notte alla deriva. Josepha era scampata agli aguzzini libici, ai trafficanti del Sahara, prima ancora era sfuggita ai suoi parenti. Lei, sposata, non riusciva ad avere figli. Un’infamia. Pagata con umiliazioni, botte, insulti. Josepha pregava, mentre cercava un’altra possibilità. Pregava quando di nascosto ha seminato i secondini del suo stesso sangue, che la nascondevano alla vergogna del villaggio. Chissà quante volte si sarà pentita, mentre il freddo le ingessava le ossa, con solo la testa fuori dall’acqua scura. Quante volte ad ogni schiaffo del mare avrà detto mea culpa per aver osato desiderare una vita migliore. Perché se sei povero in un Paese povero, non è vero che sognare non costa nulla. Chissà se avrà maledetto la tentazione di vivere da donna libera, non più sottomessa, in un continente cristiano, in un posto nel quale forse, un giorno, qualcuno l’avrebbe amata davvero.
Senza più una famiglia, senza gli affetti che l’avevano illusa, a Josepha nel calare di un cielo che non faceva più distinguere gli abissi del cuore da quelli liquidi e salmastri, ha guardato in alto. «A Gesù ho detto: ’Padre, tu sei mio padre. Io so che tu sei qui e che per te niente è impossibile. Non lasciarmi qui. Io non ho paura’».
In quale anfratto dell’anima avrà trovato quella forza. Perché a pregare, pregano tutti. Ma poi chi riesce a dire, all’ultimo centimetro dalla morte: ’Io non ho paura’. E non ne ha avuta davvero se poi: «Ho cominciato a cantare». Josepha non è più quella di prima. Nei suoi occhi è rimasta impressa la visione della morte. Nel suo modo nuovo di guardare c’è però il bagliore della rinascita. In pochi giorni i capelli scuri sono diventati candidi. E non serve altro che questo per spiegarsi cosa ha passato. Il 16 luglio la Guardia costiera libica intercettò un gruppo di migranti. Diverse miglia più in là Open Arms incrociò un relitto e tre corpi. Solo un cuore batteva ancora. Qualcuno sostenne che si trattasse della stessa carovana a cui si era accodata Josepha. Per afferrarla alla vita, Marc Gasol, campione iberico esportato nella Nba Usa, quasi si ruppe una mano rischiando la carriera. Altro 2 metri e 16 Gasol era lì per una sola ragione: «Da padre, pensando ai miei due figli, ho deciso che dovevo fare qualcosa». Al salvataggio partecipò anche il deputato Erasmo Palazzotto, ora tra i promotori della Missione Mediterranea. Pochi giorni dopo, analizzando i tempi e la distanza che intercorrevano tra il salvataggio della camerunese e il ritrovamento dell’altro gommone (più di 50 miglia) è stato esclusa l’ipotesi dell’unico barcone, aprendo un nuovo interrogativo sulla sorte di altri compagni di traversata, su cui indaga nel massimo segreto la magistratura spagnola.
In queste settimane Josepha ha continuato a pregare. Non cerca un palcoscenico né una rivalsa. Parla di Papa Francesco, dei migranti, ringrazia chi se ne sta prendendo cura. I ragazzi di Open Arms, i volontari che l’hanno salvata, non vogliono si affatichi in interviste e apparizioni pubbliche. Ma stavolta Josepha ha voluto fare a modo suo. Cento e più giorni dopo voleva che si sapesse del miracolo di quella notte. Il mattino dopo il salvataggio, mentre le volontarie le laccavano le unghie, come si fa tra amiche prima di un giro in centro, Josepha si ricordò di un dettaglio: «Ieri era la Beata Vergine Maria del Monte Carmelo». Oscar Camps, il fondatore di Open Arms, non comprese subito cosa intendesse. «Poi – dice – ho capito: mi sono ricordato che è la Protettrice della gente di mare».
I miracoli, alle volte, capitano dopo un canto, in solitudine, di notte. «Quando ho finito la canzone, sono caduta nel sonno, fino al momento in cui mi sono ritrovata qui, su questa barca».