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 2018  ottobre 10 Mercoledì calendario

POI DICI CHE IL GOVERNO PARLA DI COMPLOTTO - NON SOLO L'UFFICIO PARLAMENTARE DI BILANCIO BOCCIÒ IL DEF DI RENZI-PADOAN NEL 2016 (E I DUE SE NE SBATTERONO, MANTENENDO LE PREVISIONI DI CRESCITA), MA MATTEUCCIO L'ANNO DOPO IN PRIMA PAGINA SUL ''SOLE'' PROPONEVA ''UN DEFICIT AL 2,9% PER 5 ANNI'' PER TAGLIARE LE TASSE -

Da www.lettera43.it La validazione dei conti pubblici da parte dell'Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) è uno dei meccanismi di 'contrappeso', sotto forma di trasparenza tecnica, introdotto nell'iter della formazione delle politiche economiche italiane, anche sulla spinta delle normative europee. Lo scopo è quello di far eseguire dall'Upb una valutazione indipendente per limitare la tentazione, che sempre esiste, di un eccessivo ottimismo nelle previsioni macroeconomiche che i governi indicano nel Def e nella relativa Nota di aggiornamento. C'è un precedente di mancata validazione e conseguente correzione che risale al governo Renzi e ha visto protagonista nel 2016 l'allora ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. Il processo è regolamentato da un protocollo concordato con il Mef e ha anche un impatto sulle procedure parlamentari.



L'iter è il seguente. Prima della messa a punto del Def il governo comunica il quadro tendenziale, cioè l'andamento dei conti pubblici e delle stime macroeconomiche, prima dell'adozione della manovra. Poi, dopo il varo del documento, vengono consegnate all'Upb anche le previsioni programmatiche che tengono conto dell'impatto delle misure che saranno adottate nella finanziaria.

Un'eventuale bocciatura tout court comporta per il governo la necessità di una modifica per il quadro tendenziale. In caso di bocciatura delle sole stime programmatiche, invece, come accaduto per l'esecutivo M5s-Lega, un terzo dei parlamentari delle commissioni Bilancio di Camera e Senato può riconvocare in audizione il ministro dell'Economia, che può modificare le stime o motivare la decisione di non fare variazioni.

L'Upb esiste dal 2014 e nel passato non ha validato il quadro macro predisposto dal governo Renzi nel 2016, lamentando previsioni di crescita troppo ottimistiche e quindi l'indicazione di un deficit inferiore a quello prevedibile. Padoan tornò in parlamento e, pur mantenendo la previsione di crescita, alla fine aumentò le stime del deficit ottenendo la validazione. Tria è in partenza per la sessione autunnale del Fondo monetario internazionale che si tiene a Bali, ma la sua agenda adesso si complica.



2. QUANDO RENZI VOLEVA UN DEFICIT AL 2,9% (PER TAGLIARE LE TASSE) Emilia Patta per www.ilsole24ore.com

Back to Maastricht. Era il 9 luglio del 2017 quando Matteo Renzi, non più premier dopo la sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016 ma di nuovo segretario del Pd dopo aver vinto per la seconda volta le primarie di partito, lanciava - attraverso un’anticipazione al Sole 24 Ore di un brano del suo libro Avanti - la proposta choc: un patto con Bruxelles di 5 anni per stare appena sotto il fatidico 3% fissato a Masstricht in modo da avere almeno 30 miliardi l’anno da destinare alla crescita.

Se si pensa che di lì a poco il premier Paolo Gentiloni e il suo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan presentarono una legge di bilancio che dopo lunga trattativa con Bruxelles fissava il rapporto deficit/Pil all’1,6%, si può capire la portata della provocazione di Renzi, che proponeva di fatto il 2,9% per cinque anni consecutivi. Tra Palazzo Chigi e via XX Settembre ci fu più di una bocca storta, e più di una telefonata per rassicurare quelli che Renzi chiamava «gli euroburocrati» sulle intenzioni del governo.

Quando nella notte scorsa i due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno ottenuto la capitolazione del ministro dell’Economia Giovanni Tria “chiudendo” la Nota di aggiornamento al Def al 2,4%, in molti tra gli oppositori interni di Renzi sono riandati al quel Back to Maatricht. Come a dire: chi di populismo ferisce, di populismo perisce. Eppure la questione, come quasi sempre accade, è più complessa. Che la “via stretta” di Padoan non abbia premiato elettoralmente, d’altra parte, è di tutta evidenza vista la storica sconfitta del Pd alle urne del 4 marzo scorso. E più di un “liberal” dem si sta convertendo in queste settimane all’idea che l’Europa si debba rifondare su tutte altre basi promuovendo una grande fase di investimenti in favore della crescita.

Tra il 2,4% del governo giallo-verde e il 2,9% proposto a suo tempo da Renzi ci sono comunque almento due differenze di rilievo. La prima è presto detta: il governo M5s-Lega decide, almeno per ora, di sforare il deficit concordato informalmente con Bruxelles (1,6%) del tutto unilateralmente, rischiando quindi la reazione dei mercati prima ancora della procedura di infrazione. Mentre la proposta di Renzi, per quanto hard, era presentata come proposta di accordo con Bruxelles per cambiare insieme le regole. «Noi pensiamo che l’Italia debba stabilire un percorso a lungo termine.

Un accordo forte con le istituzioni europee, rinegoziato ogni cinque anni e non ogni cinque mesi. Un accordo in cui l'Italia si impegna a ridurre il rapporto debito/Pil tramite sia una crescita più forte, sia un’operazione sul patrimonio che la Cassa depositi e prestiti e il ministero dell’Economia e delle Finanze hanno già studiato, sebbene debba essere perfezionata; essa potrà essere proposta all'Unione europea solo con un accordo di legislatura e in cambio del via libera al ritorno per almeno cinque anni ai criteri di Maastricht con il deficit al 2,9%».

E ancora: «Ciò permetterà al nostro Paese di avere a disposizione una cifra di almeno 30 miliardi di euro per i prossimi cinque anni per ridurre la pressione fiscale e rimodellare le strategie di crescita».

Un accordo, dunque, e non una decisione unilaterale. Ma è la seconda differenza quella che ci preme sottolineare: più deficit per fare che cosa? L’allora segretario del Pd, accennando all’operazione Cassa depositi e prestiti, pensava anche a una riduzione strutturale del deficit attraverso la valorizzazione e la vendita del nostro patrimonio immobiliare. E soprattutto immaginava di destinare il “tesoro” in deficit per ridurre la pressione fiscale e in favore di politiche volte alla crescita.

Ora bisognerà naturalmente attendere il varo della legge di bilancio per dare un giudizio compiuto, ma è chiaro che la sfida è destinata ad essere perdente se il maggior deficit serve a finanziare spese assistenzialistiche e correnti come il reddito e la pensione di cittadinanza, per non parlare del superamento della legge Fornero e quindi dell’abbassamento di fatto dell’età pensionabile a scapito delle giovani generazioni.