Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  settembre 21 Venerdì calendario

Intervista con Totti

Giovedì prossimo Francesco Totti compie 42 anni e oggi sono 481 giorni che, un po’ obtorto collo, ha detto addio al calcio. Ma – non solo nell’Urbe – la “Tottilatria” è lungi dall’essere una religione in declino. Ché proprio di religione si tratta. Con i suoi miracoli, i suoi misteri, le sue invasate moltitudini, i suoi sballi devozionali. Tipo quello del carcerato che stava per uscire di galera, ma pur di incontrare, di toccare “San Checco” in visita a Rebibbia, ha voluto rimanere al gabbio una settimana di più:  «E quanno me ricapita de famme ‘na foto cor capitano? Mai, campassi cent’anni… Allora ho chiesto de parlà cor direttore pe’ famme restà». È lo stesso Totti a riferire l’episodio in apertura di Un capitano, l’autobiografia scritta con Paolo Condò in uscita da Rizzoli. Raccontata in prima persona, c’è dentro tutta la sua traiettoria umana e pallonara: dall’infanzia stradaiola alla cerimonia d’addio, 28 maggio 2017, davanti ai 60 mila in lacrime dell’Olimpico.

Lo scudetto, il Mondiale, ma pure i flop, gli allenatori con cui è stato idillio e quelli con cui è finita a pesci in faccia, il sodalizio con Cassano, i grandi rifiuti (al Milan, al Real), la felicità e l’inferno dello spogliatoio, e poi la famiglia, Ilary, i “pupi”, le zanzare-killer del gossip... E naturalmente Roma, madre-padrona e sposa alla quale Totti ha votato una ferrea monogamia d’altri tempi.  Ancora adesso non può farsi pizzicare in giro per la città senza bloccare il traffico, senza creare tumulti. Per questo lo abbiamo incontrato nel recinto protetto degli studios di Cinecittà.Tra il cartongesso dei templi, degli archi trionfali, dei triclini e dei peristili che fanno da scenario ai nuovi peplum. Totti arriva in Smart. T-shirt nera, jeans sforacchiati, un fisicaccio che lèvati. E adesso Francesco?
«Adesso che».

Che fai quando ti alzi? T’annoi?
«Ancora no. Le giornate sono quasi come quelle da calciatore. Mi sveglio, porto i figli a scuola, poi vado a Trigoria, sto col mister, la squadra, seguo tutti gli allenamenti. Dopo pranzo torno e mi dedico ai ragazzi».

Ti fai il bucato da solo come ti si vede nel nuovo spot del detersivo?
«Ma de che».

Quest’estate i rotocalchi t’hanno tampinato come se fossi ancora in attività.
«Mi vengono appresso pure adesso che ho lasciato. È il loro lavoro. Ma pensa te in che mondo viviamo».

Perché non hai chiuso giocando in Asia, in America...?
«Perché avrei rovinato 25 anni di carriera. Ho sempre detto che avrei indossato un’unica maglia. Sono uno di parola».

Per averti, il Milan era pronto a scucire 300 milioni. E avevi solo 12 anni.
«In quel caso il “No” fu della mia famiglia. Soprattutto di mia madre. È vecchia maniera: apprensiva, possessiva. Papà lavorava fino a tardi. Era sempre lei a starmi dietro. Non voleva che mi allontanassi. Mi voleva tutto per sé».

Anche da qui il soprannome di “Pupone”. Che hai sempre detestato.
«Beh sì. Se lo inventò un giornalista del Messaggero, Mimmo Ferretti, in senso affettuoso. Però è diventato sinonimo di eterno ragazzino, di immaturo».

Ora il pallone in strada è praticamente proibito. Tu invece hai imparato tanto calciando contro i muri o giocando a “Paperelle”. Che roba era?
«Un gioco inventato da noi. All’entrata della scuola Manzoni c’erano gradini lunghi quasi 50 metri. Uno doveva scenderli percorrendoli tutti in orizzontale mentre altri due cercavano di beccarlo col pallone tirando da una decina di metri. Bell’esercizio di mira».

Stavi sempre per strada. Quando invece ti lasciavano a casa da solo ti fingevi morto sul letto per paura dei ladri, dell’Uomo Nero.
«Pensavo che a un ragazzino morto un ladro non gl’avrebbe fatto niente».

Qualcuna di quelle paure t’è rimasta?
«No. Però quando Ilary, che è fissata con quei film, mi costringe a vedere un horror, io chiudo l’occhi».

Diventato famoso, sei dovuto scappare dal quartiere che t’aveva cresciuto perché all’entrata di casa ti rubavano gli zerbini su cui s’era posato il “sacro piede”.  Tre tappetini in una settimana.
«C’era sempre gente accampata sotto casa o sul pianerottolo. Era diventato impossibile. Non solo per me, ma per tutto il palazzo».

Calcio a parte, il tuo vero sogno da ragazzino era fare il benzinaio.
«Andavo matto per l’odore della benzina. E poi al distributore vedevo quei tizi coi portafogli gonfi de sordi... Mi dicevo: lavorano in mezzo all’odore di benzina e diventano pure ricchi! È il mestiere perfetto. Col crescere ho cambiato idea. Ma la fissa per l’odore di benzina m’è rimasta».

In Curva Sud hai smesso di andarci a quattordici anni.
«Dopo un Roma-Napoli ci furono scontri. Scappai. Quando sono tornato per recuperare il motorino era disintegrato».

I capi della Sud li guardavi “tra ammirazione e paura”.
«Da tifoso non avevo grandi rapporti con loro. Li ho conosciuti da giocatore: qualcuno ha parecchi casini alle spalle. Altri no, o di meno. C’è di tutto».

Alla prima partita da titolare il battesimo del fuoco fu un’entrataccia del molosso-Vierchowod. Roma-Samp.
«Di Coppa Italia, sì. Mi arrivò duro da dietro dopo otto secondi. Voleva mettermi paura. E un po’ me n’ha messa. Mi sono detto: se comincia così, al novantesimo nun c’arivo. Ma Vierchowod era mastino solo sul campo. Fuori era uno perbene».

Tu invece il fallaccio assassino l’hai fatto a Balotelli. Finale di Coppa Italia.
«Sì, ma quello arrivò dopo un crescendo. Erano anni che lui provocava, insultava me, i romani. Un continuo. Alla fine la cosa è esplosa».

Potevi stroncargli la carriera.
«Fu un fallo orrendo. Proprio per fargli male. Ma dopo, stranamente, i giocatori dell’Inter non mi assalirono. Mentre uscivo dal campo per l’espulsione, Maicon mi diede addirittura il cinque. La sensazione era che anche tra i suoi compagni interisti Balotelli creasse qualche irritazione».

Dici: “Mario è forte, ma non gli hanno mai insegnato l’educazione sportiva”.
«È il suo carattere e sarà difficile cambiarlo, anche se adesso è un po’ migliorato. Mancini ha fatto bene a riprenderlo in Nazionale. Il talento c’è. Poi però tutto dipende dalla testa».

Anche Antonio Cassano è un bel caratterino. Ma tra voi è stata amicizia vera.Quando arrivò alla Roma venne ad abitare con te e famiglia.
«C’è rimasto quasi quattro mesi. Faceva dei regali incredibili a mia madre... Anelli, bracciali da 5-6 mila euro. Manco fosse la moglie. Se mi vedeva a cena con amici al ristorante pagava non solo per me, ma per tutti, anche se non li conosceva. Non lo faceva per comprare il mio affetto, ma perché è fatto così. È un puro. Voleva fa’ er magnifico. Adesso spende di meno perché sennò la moglie je mena. Ma quand’era single era incredibile».

Pure la vostra rottura fu incredibile.
«Gli era sparito l’assegno dello stipendio e s’era messo in testa che a rubarglielo era stata la nostra domestica, una che stava con noi da anni. Per lei avremmo messo la mano sul fuoco. In più era un assegno intestato ad Antonio e non poteva essere incassato da altri. Provammo a convincerlo, ma niente. Se ne andò. Qualche giorno dopo l’assegno fu ritrovato sotto il sedile della sua macchina».

Ma ormai tra voi le cose s’erano guastate. Siete ancora amici?
«Anche se lui sta a Genova, negli ultimi tempi abbiamo ripreso a vederci. È il calciatore più forte con cui ho giocato». Una leggenda narra che alla Roma sbarravi la strada all’acquisto di campioni che potessero farti ombra.
«Discorsi da bar. Se i campioni non arrivavano era per limiti di budget, mica per scelta mia. Io ho sempre voluto vincere, e non veder vincere».

Un’altra leggenda racconta che la notte del 3 a 0 al Barcellona in tribuna non hai esultato perché rosicavi di non essere più in campo.
«Qualsiasi cosa faccio c’è sempre qualcuno che critica. Ma io so che cosa provo e non ho niente da dimostrare. È vero, al primo gol non ho esultato, ma perché non avevamo ancora portato a casa la partita. Al secondo mi sono alzato in piedi e al terzo ho preso in braccio mio figlio Cristian. Quelli che criticano non m’hanno visto? Vedono solo quello che je pare».

Qui siamo tra scenografie tipo Gladiatore, tuo film culto. Lo sai a memoria...
«“Mi chiamo Massimo Decimo Meridio, comandante dell’esercito del Nord...“. Il Gladiatore uscì all’epoca dello scudetto. Mi sono fatto pure il tatuaggio...».

Dici: “I calciatori sono i moderni gladiatori”. Ma loro si giocavano la pelle.
«Noi solo le gambe. Però sempre lotta è».

Allenatori. Qual è quello con cui si è creato il rapporto umano più forte?
«Zeman. Sembra un tipo ombroso, ma appena lo conosci te ce diverti da mori’. Certo, per capirlo quando parla ci vuole un po’... Quando fa un discorso, ogni tanto la testa te s’abbassa, te c’addormenti».

Con Capello, il mister dello scudetto, ci sono stati alti e bassi.  Di lui dici: “È un tuttologo”.
«Quando parli con Capello hai sempre torto. Sa tanto, ma l’ultima parola deve sempre essere la sua. Se passa un piccione e lui dice che è un gabbiano, ti dimostrerà che è un gabbiano.È cocciuto, perfezionista. Un maniaco».  

Era fissato che in ritiro vi portaste in camera le ragazze di nascosto.
«Le cercava negli armadi, nella doccia,  pure sotto al letto».

Con lui ti sei riconciliato. Con Spalletti no. La sua fobia erano le carte.
«Beh, alla Roma siamo sempre stati molto “cartari”».

Tu continui a giocare? A che?
«Poker... Un po’ di tutto».

Anche al casinò?
«Qualche baccarat a Montecarlo...».

Torniamo allo scudetto. Durante i festeggiamenti sei stato costretto a rifugiarti in un convento sull’Aventino.
«Ero a cena con parenti e amici in un ristorante quando cominciamo a sentire un boato di folla. S’era sparsa la voce che ero lì. A un certo punto m’affaccio: di sotto cinquemila persone bloccavano le strade. Volevano entrare. Il proprietario mi dice: non c’è una seconda uscita. L’unica è scavalcare l’inferriata e scappare da su, dalla parte del convento. Con tre o quattro amici c’arrampichiamo sulla scarpata nel buio, tra le piante. Appena saltata la recinzione mi dico: se qui c’è qualche cane da guardia ce se sbrana. Invece arriva un tizio con una torcia. È un frate. Mi illumina la faccia: “Ma tu sei Totti!”. Prima di farci uscire m’ha chiesto l’autografo».

Confessi: “Non ho vinto molto”. Però sei diventato un mito lo stesso.
«Sì, nel libro dico così. Però a ripensarci non ho manco vinto tanto poco. Un Mondiale, uno scudetto, due Coppe Italia, due Supercoppe, una Scarpa d’oro...».

Con il Real avresti vinto di più. Ti sei mai pentito di quel No?
«No, ma decidere fu durissimo. Rimasi anche per Ilary. Stavamo insieme da poco e a me non piacciono i rapporti a distanza. Prima o poi finiscono sempre».

Hai definito la vostra “una storia d’amore tra liceali”.
«Era sotto Natale, si giocava a carte con un po’ di gente...  A un certo punto l’ho vista in tv e mi sono detto: questa la voglio sposare. Al che un amico mi fa: “Guarda che di là c’è la sorella”. È tutta colpa de ‘sta rompicojoni (sogghigna rivolto a Silvia, la cognata che gli fa da agente). È lei che ha fatto da tramite, ha combinato tutto...».

Dici: sono permaloso, “rosicone”. Fuori dal campo una cosa per cui rosicavi era l’imitazione del Pupone che faceva Massimo Giuliani in televisione.
«Ci conoscevamo, eravamo stati a cena insieme... Siccome le imitazioni sono il suo lavoro, se me lo avesse chiesto avrei risposto ok. Invece non mi disse niente. Era venuto a cena da me solo per spiare i miei atteggiamenti e adesso in tv mi faceva passare per un deficiente».

Invece da giocatore quando hai rosicato di più?
«Quando prendemmo un gol all’ultimo dallo Slavia Praga e non andammo in semifinale Uefa. Poi qualche derby e la finale dell’Europeo persa con la Francia».

Però quello fu anche l’Europeo del tuo rigore “a cucchiaio” nella semifinale contro l’Olanda. Nel libro dici: quando tiri un rigore decisivo è meglio se non pensi ai milioni di persone che ti stanno guardando. È meglio se lo calci come per vincere una scommessa al bar.
«In quel caso avevo davvero scommesso con Maldini, Nesta, Di Biagio che se fosse finita ai rigori io avrei fatto il cucchiaio. Mi sfottevano: parli così in allenamento, in partita è diverso. Ma il  giorno dopo, quando andando verso il dischetto dissi che avrei mantenuto la parola, mi scongiuravano di ripensarci: Sei scemo? Guarda che se lo sbagli c’ammazzano!».  

È vero che da piccolo incollavi le figurine dei giocatori laziali al contrario?
«A testa in giù. Uniche di tutto l’album».

Al momento dell’addio però gli Irriducibili della Curva Nord ti hanno reso onore con lo striscione: I nemici di una vita salutano Francesco Totti.
«Ci può essere sempre il cretino che insulta o fa la battutaccia, ma quando li incontro per strada la maggior parte dei laziali sono sportivi, mi fanno i complimenti. E anche quelli delle altre tifoserie se mi vedono in tribuna a Bergamo, Milano, Torino... E pensare che quando giocavo me facevano a pezzi. Forse anche allora gli piacevo, ma nun lo potevano di’».

Nel libro rendi omaggio a San Siro.
«Olimpico a parte, è il mio stadio preferito. M’hanno fischiato, ma in genere l’atmosfera era di rispetto. È bello giocare contro le milanesi, ti dà voglia di batterti. Quando negli anni dei Maldini o dei Kakà partivamo per Milano, ci facevamo il segno della croce: quanti ce ne fanno stavolta? Tre? Quattro? Cinque? Oggi gli equilibri sono un po’ cambiati».

Quanto hai pianto il giorno dell’addio?
«In pubblico tanto. In privato pure de più».

Anche i gladiatori piangono.
«E certo. Perché no».

Quando hai capito che era arrivato il momento di staccare?
«Non è stato un mio pensiero, ma una cosa voluta dalla Società. È l’unica ombra che s’è creata tra me e la Roma. Perché un conto è decidere con la propria testa e un altro farsi mettere i paletti da altri. Certo, mi rendo conto che finché stai lì non vorresti mai smettere. Ma non pretendevo di continuare a giocare 60-70 partite all’anno, volevo solo restare a disposizione. Comunque meglio smettere che restare senza mai alzarsi dalla panchina».

Tra i grandi fautori del tuo abbandono, Luciano Spalletti.
«È quello che ha spinto di più. Con la Società erano una cosa sola».

Dicono che adesso alla Roma il tuo lavoro è quello del mediatore tra il mister Di Francesco e lo spogliatoio.
«Sì. I giocatori sono bestie, sono bastardi, ma mi portano rispetto. Io ero come loro, li conosco bene, conosco il loro linguaggio segreto fatto di occhiate, mezze parole. E cerco di rendermi utile».

In 25 anni come lo hai visto cambiare lo spogliatoio?
«Adesso si parla quasi solo inglese. Se non lo sai non capisci un cazzo. E si fa meno gruppo. In ritiro, rientrato dal campo, ognuno si isola in camera sua col telefonino...  A navigare, a mandare messaggi».

Generazione bimbominchia. Però ha prodotto i Messi, i Ronaldo.
«‘Sta cosa che hanno messo in discussione Ronaldo perché non ha segnato subito è incredibile... Solo in Italia. No, dico, è R-o-n-a-l-d-o. Uno così non si discute. Se lo fai stai messo proprio male».

Ma, insomma, che vuoi fare da grande?
«Ancora non lo so. Per adesso mi godo questo momento vicino alla squadra e alla Società. Respiro l’aria del campo».

Hai iniziato il corso da allenatore però hai smesso quasi subito.
«Non mi sentivo pronto. Non ho ancora abbastanza pelo sullo stomaco. Sono ancora troppo buono».

Allenare a Roma, poi, è una specie di sacrificio umano.
«Beh, tra giornalisti, radio, tifosi, c’è  più pressione che altrove. Dopo pochissimo che alleni ti vengono le rughe, i capelli ti diventano bianchi oppure te cascano».

Il mondo dello spettacolo non ti tenta?
«No, per quello basta Ilary».

Una sola maglia. Sei l’ultimo romantico?
«Boh. Ma nel caso ne sarei fiero».

A parte tutto sembri felice. Che voto dai alla tua carriera?
«Nove e mezzo. Se avessi vinto la Champions, dieci».

Grazie Francesco.
«Eddeché».