Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  settembre 19 Mercoledì calendario

Telescopi, uno specchio ci porterà lontano

Tutto inizia con un disco luminoso, impossibile da guardare a occhio nudo. Con i suoi 1.400 gradi, non arriva alla temperatura del Sole. Ma manca poco, e le stelle vi cadranno dentro davvero: la loro luce, anche la più debole, finirà in questi specchi ricurvi, che diventeranno parte del più grande telescopio ottico del mondo. Nella fucina della fabbrica Schott di Magonza, in Germania, si lavora a ritmo serrato. È qui, durante le colate della speciale vetroceramica usata per realizzare gli specchi, che si producono una luce e un calore che già somigliano alle stelle. Non c’è tempo da perdere: Elt, telescopio da 39 metri di diametro, ha un appuntamento con il cielo fissato per il 2024. Quando aprirà gli occhi, nel deserto di Atacama in Cile, sarà in grado di riconoscere un cucchiaino a New York. Potrà osservare le prime galassie diventate visibili dopo il Big Bang, circa 14 miliardi di anni fa. Misurerà l’accelerazione dell’espansione dell’universo. Riuscirà, è la speranza, a fotografare il disco di un pianeta extrasolare. Per eliminare l’aberrazione dell’atmosfera ha specchi levigati con la precisione di 15 nanometri e 5mila motori che modellano la forma della parabola migliaia di volte al secondo per cancellare ogni imperfezione. Raggi laser sparati verso il cielo disegnano stelle “modello” a 80 chilometri di altitudine: aiuteranno il software del telescopio a capire quali parametri usare per cancellare l’aberrazione.
Non si corre meno su Cerro Las Campanas, a 2.300 metri di altezza, sempre nel deserto di Atacama. Anche il Giant Magellan Telescope ha promesso di spalancare il suo occhio di 25 metri nel 2024. L’esplosivo ha iniziato a brillare ad agosto per sbancare 4mila metri cubi di terra e realizzare le fondamenta. Se Elt è un progetto europeo e sudamericano ( porta la firma dell’Eso, lo European Southern Observatory, di cui fanno parte 15 paesi fra cui l’Italia), Magellano è un’impresa a stelle e strisce. Come la fisica delle particelle, anche l’astronomia è sensibile alla competizione fra le due sponde dell’Atlantico. Il traguardo è la costruzione dell’occhio capace di guardare più lontano nell’universo. «Ognuno studia le mosse dell’altro, è vero», sorride Nicolò D’Amico, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. «Cerchiamo sempre di fare un passo più avanti». La domanda più pressante, fra le tante che riguardano l’universo, è se esista vita nello spazio. Negli ultimi dieci anni abbiamo scoperto 4mila esopianeti che orbitano attorno ad altre stelle. «Credo che in altri dieci anni potremo sapere se nella loro atmosfera ci sono tracce biologiche. La risposta è alla portata dei nuovi strumenti» dice D’Amico.
Difficile stabilire se sarà il più ambizioso, ma di sicuro il più costoso fra i nuovi progetti è il telescopio James Webb. Non poserà sulla base solida di una montagna, ma viaggerà a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra, dove nessuno potrà ripararlo. Arrivato nello spazio, spalancherà il suo specchio da 6,5 metri come fa un fiore con i petali. Per completare le operazioni di “avvio” ci vorranno sei mesi.
Il James Webb ha, poi, un’eredità pesante con cui confrontarsi: quella di Hubble, lo strumento che, con le sue immagini spettacolari, più di ogni altro ha riempito l’universo di colore e fuochi d’artificio. Per fronteggiare il prezzo” astronomico” (oltre 10 miliardi di dollari) questa volta Usa ed Europa hanno unito le forze. Non è bastato: la partenza del telescopio, che era prevista in questi giorni, è ripetutamente slittata fino al 2021. Insegue a distanza, frenato da una disputa con le divinità di Mauna Kea, il Thirty Meter Telescope, il quarto fra i nuovi telescopi monstre. Il vulcano delle Hawaii è sacro per le popolazioni locali e solo quest’anno, scavalcando le proteste, le autorità dell’isola hanno dato il via libera alla costruzione della “casa delle stelle” a 4mila metri.
Ma a che serve costruire strumenti massicci come palazzi, in cui la magia delle stelle si riduce a una cascata di dati, con gli astronomi che fissano schermi di computer anziché oculari? Elt ad esempio sarà grande come due Colossei. «Uno specchio largo raccoglie più luce», spiega Paolo Giommi, astrofisico dell’Asi, uno degli scienziati italiani più citati nella letteratura scientifica. «Più luce vuol dire più dettagli. Se vogliamo sapere quali elementi contiene una stella o l’atmosfera di un pianeta, abbiamo bisogno di spingere al massimo le prestazioni». I dati, prodotti da strumenti piazzati ad altitudini sempre più inospitali, vengono trasmessi nelle sale di controllo dei telescopi e lì analizzati. «Sempre più spesso li scarichiamo comodamente nei nostri uffici» precisa Giommi. Quel che accade è che uno o più astronomi chiedano all’organizzazione che gestisce il telescopio di “prendere in prestito” lo strumento per alcuni minuti o alcune ore, con lo scopo di studiare un oggetto celeste. Se la richiesta è accettata, lo specchio viene orientato verso la stella, galassia o altro, da studiare. I dati raccolti dal telescopio vengono poi trasmessi agli scienziati, che li usano per scrivere un articolo scientifico.
«Oggi l’astronomia è una scienza di frontiera, nessuno si dedica più all’osservazione diretta del cielo» conferma D’Amico. «Però il fascino di un telescopio amatoriale, con gli anelli di Saturno traballanti, è ineguagliabile». Giommi ricorda i piccoli aerei che sorvolavano l’Aconcagua e atterravano fra i cocuzzoli di Atacama, dove altitudine, solitudine e aridità regalano buio totale e cielo terso. «Guardavi le Nubi di Magellano e capivi subito perché il navigatore le scambiò per nuvole. Invece si tratta di galassie vicine». Nicolò D’Amico ricorda le ricadute pratiche: «Dalla necessità dimettere in rete tutte le antenne dei radiotelescopi, è nato tra l’altro il wi-fi».