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 2018  settembre 19 Mercoledì calendario

Il coreografo Omar Rajeh: «Sui social la tragedia viaggia assieme alla stupidità»

La voce del muezzin si spande melodiosa nel buio. È la prima preghiera del mattino o l’ultima della notte? Pochi istanti di pace, accarezzati dal suono di un liuto, poi l’inferno; un drone, strumento di comunicazione e distruzione, volteggia implacabile sulla scena inondando i corpi dei danzatori con la sua luce sinistra. Lo spettacolo #Minaret ispirato alla distruzione di Aleppo e della Moschea degli Omayyadi (patrimonio dell’Unesco), che il coreografo libanese Omar Rajeh della compagnia Maqamat sta provando alla Tanzhaus di Düsseldorf (il 28 e 29 settembre al Teatro Argentina per Romaeuropa), è un violento, disperato atto di resistenza di fronte alla catastrofe e all’assuefazione alla violenza generata dai social media.

Rajeh, 43 anni, cresciuto in una famiglia di drusi, ha fondato la sua compagnia all’inizio del millennio e ha debuttato nel 2002 con Beyrouth Jaune,spettacolo autofinanziato accolto con entusiasmo dai teatri europei. Punti di riferimento: Vsevolod Meyerhold e il suo metodo elaborato nella Russia del socialismo reale, Peter Brook, Grotowski, Fabián Barba, Alain Platel, Pina Bausch e la musica classica araba di Oum Kalthoum, Farid al-Atrash, Mohammed Abdel Wahab e Asmahan.
Qual è l’idea che l’ha spinta a mettere in scena #Minaret?
«Tutto nasce da una questione fondamentale: qual è il ruolo dell’artista nella società? come reagire alla distruzione di una città? al continuo bombardamento dei media? all’invasione della privacy da parte dei social network? Due anni e mezzo fa ero su Facebook e rimasi gelato dalle riprese di un drone in Siria che, partendo da un palazzo distrutto, si allargavano su tutta la città di Homs completamente rasa al suolo. Che fare di fronte a uno scempio del genere? Te la cavi con un like? Fai finta di ignorare le decine di commenti idioti? Ti concentri sul post successivo di un cane che gioca con un gatto? Su Facebook tragedia e stupidità viaggiano allo stesso livello».
Come ha fatto a elevare a livello artistico una realtà così cruda?
«Facendo attenzione a non appesantire la performance con istanze politiche, ideologiche o emozionali, evitando vittimizzazioni o esagerazioni. Sono convinto che l’arte deve vivere di vita propria; qui non abbiamo a che fare con una storia fantastica, la realtà è già di per sé atroce ai limiti dell’incredibile. È molto difficile trovare un equilibrio tra arte e cronaca, soprattutto quando si tratta di fatti così sensibili, come la distruzione di Aleppo — ma potrebbe riguardare qualsiasi altra città, che sia Homs, Raqqa o Palmyra. Ho letteralmente disarticolato le varie parti del corpo, come se ognuna di esse avesse un’identità propria e una propria consapevolezza e non rispondesse a un organo centrale; ho affrontato la performance da un punto di vista meramente fisico, tralasciando le spiegazioni — e dunque evitando una drammaturgia logica — per suggerire sensazioni, un dialogo all’interno del corpo stesso. #Minaret è un happening più che una rappresentazione, un tentativo di trasportare la realtà su un altro livello».
Come istruire i ballerini a un tipo di danza così poco convenzionale?
«Difficilissimo, in effetti. È indispensabile che tutti escano dalla loro comfort zone, che spezzino il logocentrismo del corpo, e questo richiede una serie di difficili esercizi, una consapevolezza superiore e un grande lavoro sui sensi. È un lavoro ingrato, che non consente nessun compiacimento o abbandono alla performance».
La presenza del drone, che colpisce e rimanda immagini sul grande schermo, spinge al parossismo la sensazione d’impotenza delle vittime.
«È il confronto spietato dell’uomo con la macchina, con l’intelligenza artificiale che trascende qualsiasi connotazione umana e dunque impedisce al corpo di organizzare una reazione. A quel punto l’unico barlume di umanità è nella musica dei liuti che si fra strada tra l’elettronica feroce. Ma sappiamo che spesso il fanatismo è figlio di uno smodato culto della tradizione, e dunque anche la musica tradizionale ha un significato ambivalente in # Minaret. Gli oppressori sono vittime quanto gli oppressi, prigionieri di un circolo vizioso che li trascina sempre più in basso in una spirale di violenza. Dobbiamo proteggerci anche dal bombardamento mediatico per non perdere l’obiettività e non diventare assuefatti, e di conseguenza indifferenti, alla violenza. Per questo ho scelto il minareto, un simbolo religioso ma nel caso della Grande Moschea di Aleppo anche il monumento della città con una valenza storica, culturale e sociale, come la torre Eiffel, il Big Ben o la Torre di Pisa».
Il rischio è che per i giovani, i millennials, i conflitti eterni assumano i contorni di un videogame in real time.
«Per me, che guardo le cose da una prospettiva mediorientale, questa sensazione è ancora più forte. Nel 2006, quando il Libano fu bombardato dagli israeliani, un sacco di giovani si rifugiarono nei nightclub e nei bar tra le montagne per non rivivere un incubo che già avevano conosciuto; anche chi vive il conflitto in prima persona può diventare indifferente».
Che ne sarà delle migliaia di bambini delle guerre fra dieci, venti, trent’anni?
«Ne abbiamo già fatto esperienza. Chi si è arruolato nell’Isis? Chi non aveva niente da perdere, i bambini delle banlieue o quelli cresciuti sotto le bombe americane a Baghdad. Non lo dico per giustificare azioni esecrabili ma per ribadire che la violenza genera violenza, che la rabbia accumulata esplode in maniera imprevedibile».
Vivendo a Beirut, avrà contatti quotidiani con i rifugiati...
«Siamo a un tiro di schioppo dalla Siria, i rifugiati arrivano a ondate. Alcuni riescono a integrarsi, altri restano confinati nei campi profughi in condizioni disastrose. È solo l’inizio di un’emergenza che avrà conseguenze incalcolabili. Essere cresciuto e lavorare in Libano per me è un dono, un arricchimento; è anche merito della mia famiglia se, negli anni della guerra civile, non ho preso la direzione sbagliata come tanti coetanei che hanno creduto di trovare una soluzione in un percorso di violenza».