19 settembre 2018
In morte di Paul Virilio
Maurizio Ferraris per la RepubblicaQuando nel 1977 uscì Velocità e politica di Paul Virilio — il grande filosofo parigino morto a 86 anni il 10 settembre, ma la cui scomparsa è stata annunciata pubblicamente solo ieri – correvano (è il caso di dirlo) gli anni di piombo, ma nulla faceva immaginare che la guerra avrebbe potuto ancora entrare nella nostra vita. La guerra era finita nel 1945, in Italia, e nel 1975, in Vietnam. Di lì in avanti, pensavamo, la lotta ci sarebbe stata, ma avrebbe riguardato le classi o più probabilmente le fazioni, ma eravamo usciti dall’orizzonte militare.
Ovviamente non era così. La guerra si era ritirata dai confini, ed entrava nella vita di tutti i giorni (non era proprio quello che avrebbe dovuto farci pensare il terrorismo?) e si trasformava nella dittatura della velocità, che imponeva un ritmo militare alla vita quotidiana. Era la realizzazione del detto di San Paolo secondo cui il mondo, così come lo conosciamo, sta per scomparire, perché il presente è già proiettato verso il futuro, d’accordo con la filosofia della storia che da Paolo conduce alla modernità e alla sua ossessione per il futuro. Sicché – chiosava Virilio – essere moderni, cioè, a ben vedere, vecchissimi, con tanto passato dietro di sé, significa essere veloci; e concludeva con una sentenza che mi ha fatto riflettere per anni: «La velocità è la vecchiaia del mondo».
Questo assunto era anche la realizzazione di quello che Marx aveva concepito come il carattere faustiano del capitalismo, il fatto cioè che tutto può diventare più veloce se – d’accordo con il ragionamento di Mefistofele, che in questo incarna lo spirito della tecnica – posso sostituire le mie gambe con una carrozza tirata da sei cavalli. Ma, soprattutto, era ciò che (con speranza, invece che con timore) aveva annunciato Ernst Jünger quando, negli anni Trenta, aveva annunciato che la società si sarebbe militarizzata, sottoponendosi a una mobilitazione totale in cui ogni soldato si sarebbe comportato come un operaio, come si era già visto in quel grande scontro di materiali che era stata la prima guerra mondiale, e ogni operaio avrebbe agito come un soldato, senza cedere a debolezze e a pause civili, occupando con il lavoro (o più precisamente con la disponibilità alla mobilitazione) ogni spazio della sua vita.
Quella mobilitazione, allora, non si era realizzata, tanto è vero che ancora nel febbraio del 1943, dopo Stalingrado, Goebbels doveva lamentarsi con i tedeschi del fatto che non fossero ancora disponibili alla guerra totale. Ma, per una strana necessità storica che ha a che fare con l’essenza della tecnica, si stava realizzando proprio nel momento in cui Virilio teorizzava il nesso tra velocità e politica. Erano gli anni in cui l’informatica faceva il suo ingresso nel mondo sociale. Nel 1978 iniziava, in Bretagna, per poi estendersi a tutta la Francia, il minitel, un antenato dei computer connessi che sarebbero diventati comuni di lì a pochi anni. Da quel momento dei messaggi, che potevano avere la forma imperativa degli ordini, visto che erano scritti, potevano raggiungere i civili esattamente come in precedenza raggiungevano i militari. E questa situazione sarebbe diventata sempre più comune con il perfezionarsi del web, lo sviluppo dei social network, il perfezionamento degli smartphone. A questo punto l’ossessione dromologica (la parola dromologia è una di quelle che ha reso celebre il pensiero di Virilio), la necessità di correre, che appariva una innocente mania del filoso francese, si trasformava davvero in una mobilitazione totale.
Qualche anno dopo un altro visionario francese, Jean Baudrillard, annunciava (parlando ormai della guerra del Golfo, un’altra guerra che, nelle previsioni ottimistiche del 1977, non avrebbe dovuto esserci) che i media avevano annullato, o almeno anestetizzato, la realtà, trasformando i bombardamenti in una semplice finzione.
Ma tra i due il vero apocalittico era Virilio, e il tempo gli ha dato purtroppo ragione. Non solo i bombardamenti e le guerre non sono diventati virtuali rimanendo realissimi, ma la stessa vita civile ha incorporato gli aspetti che credevamo caratteristici della vita militare, incominciando, appunto, dalla velocità.
Ispirandosi, tra l’altro, alla dromologia, alla scienza della velocità, di Virilio, c’è chi ha elaborato una teoria dell’accelerazionismo, che consisterebbe nell’idea che la migliore lotta contro il capitale consisterebbe nell’accelerarlo, nel produrre e nel consumare di più, per farne esplodere le contraddizioni. Non sono sicuro che sia una buona idea, e sospetto piuttosto che si tratti di una forma di futile radicalismo.Quello che invece costituisce il nocciolo ancora valido della riflessione di Virilio (o piuttosto appunto la sua ossessione, il nocciolo su cui ha ruotato il pensiero di questo urbanista filosofo) è il fatto che la velocità, che il Novecento ha salutato come libertà e leggerezza ("rapidità” è una delle parole-chiave per il nuovo millennio nelle lezioni americane di Calvino) nasconde un peso e un prezzo enorme.
Leonardo Martinelli per La Stampa
Era un bambino, quando si ritrovò sotto le bombe a Nantes, durante la Seconda guerra mondiale: Paul Virilio conservò sempre di quell’esperienza traumatica un interesse per la guerra, motore della storia, e una latente preoccupazione per la fragilità del tessuto urbano. Nei giorni scorsi Virilio se ne è andato. E in punta dei piedi (la sua scomparsa è stata annunciata solo ieri, dopo un funerale in forma strettamente privata), perché, nonostante sia stato sempre ossessionato dalla velocità, era uomo riflessivo e pacato. E pensatore libero e visionario, che non si voleva rivoluzionario.
Era nato nel 1932, da un padre italiano e comunista e da una madre bretone e cattolica. Nella sua vita fu urbanista, architetto, filosofo, personaggio pubblico (a difesa dei senzatetto in Francia, soprattutto negli Anni Ottanta): un personaggio «trasversale», da un certo punto di vista molto francese, fin da quelle sue origini con due genitori in contraddizione. Sulla stessa scia, dopo la Seconda guerra mondiale, seguiva corsi per diventare artigiano vetraio, ma al tempo stesso assisteva alla Sorbona a quelli di filosofia di Vladimir Jankélévitch e di Raymond Aron.
Convertito al cattolicesimo nel 1950, otto anni dopo iniziò uno studio fenomenologico dei territori militari, in particolare sui bunker che gli occupanti nazisti avevano lasciato sull’Atlantico. Nel 1963 fondò con Claude Parent il gruppo «Architecture Principe», inneggiando a un’«architettura obliqua», che fu una reazione al «poema dell’angolo retto» di Le Corbusier e il superamento di uno spazio puramente euclideo, per renderlo quasi psicologico, più libero e umano. Insieme Parent e Virilio concepirono la chiesa di Sainte-Bernadette a Nevers (di un brutalismo che ricorda proprio i bunker della costa atlantica). E insieme furono a lungo, dopo il mitico ’68, docenti all’École spéciale d’architecture a Parigi, dove hanno formato alcune archistar di oggi, come Jean Nouvel.
Dagli Anni Settanta Virilio iniziò la sua riflessione sulla velocità, che considerava un fattore essenziale di organizzazione sociale e di controllo politico. Se Zygmunt Bauman parlava di «società liquida» in relazione alla postmodernità, Virilio, invece, ricorreva alla «scienza della velocità», la dromologia come lui la definiva. Per il pensatore francese il progresso diventava una corsa senza fine verso l’accumulo e la crescita, che ha finito per soggiogare relazioni sociali e comportamenti individuali alla dittatura del tempo.
Non solo: ci ha reso incapaci di guardare indietro, mutilandoci della nostra memoria. Virilio ha poi collegato a partire dagli Anni Ottanta la questione della velocità alle nuove tecnologie: l’uomo è visto come ostaggio della logica spietata del progresso tecnico-scientifico, che è uno strumento per la conquista dell’egemonia fra gli Stati. In quanto tale può degenerare nella violenza militare oppure si limita a una guerra senza armi apparenti, dove ognuno si ritrova «condanato a seguire il movimento del progresso», che non ha altre finalità se non «essere rapido e rendere obsoleto tutto quello che c’era prima».
Nell’epoca attuale di Internet, dei social network e della velocità inesorabile delle comunicazioni, le parole di Virilio (di quarant’anni fa) fanno venire i brividi. In un’intervista al quotidiano Libération del 2010, sottolineava che «ormai viviamo una mondializzazione degli affetti». «Siamo passati da una standardizzazione delle opinioni, resa possibile dalla libertà di stampa, alla sincronizzazione delle emozioni. Le nostre società vivevano su una comunità d’interessi e ormai vivono su un comunismo degli affetti».