la Repubblica, 17 settembre 2018
A dieci anni dalla strage di Castel Volturno
Un uomo che esce dal suo negozio, sul vuoto della Domiziana. L’insegna promette “Perfette tolettature cani”, siamo già nel Dogman di Garrone. Ma lui è solo un «onesto commerciante bianco» che avverte Salami Taiwiou, mentre l’operaio liberiano sta verniciando la stele in memoria dei fratelli africani uccisi. «Passate lo smalto che volete. Fate le cerimonie, domani.
Però ricordatevi che la lapide poggia su un suolo che è privato, di italiani». Esattamente dieci anni dopo, la camorra non uccide, le parole sì.
A Castel Volturno, anche la memoria non trova pace. Al chilometro 43, accanto al venditore di animali, ecco la saracinesca su cui si scatenò l’inferno. Si chiamava “Ob Ob Exotic Fashion”, la bottega di Baba Alhaji Ibrahim Muslim. Era il locale di un giovane sarto ghanese, resta simbolo della più devastante strage di matrice razzista messa a segno dalla mafia dei casalesi: quella di Peppe ‘o Cecato, capo dell’ala stragista dei bidognettiani, oggi l’ergastolano al 41 bis Giuseppe Setola. Era il 18 settembre del 2008, sei morti, un ferito, tutti incolpevoli.
Massacrati dai proiettili, restano a terra Awanga Karim Yakubu, Wiafe Kwadwo Owusu, Taller Affum Yebolah, Julius Antwj Kwame, Samule Sonny Justice e lo stesso Alhaji. Hanno tra i 20 e i 30 anni. Un’esecuzione che provoca la prima rivolta dei neri, scene da guerriglia civile. Il settimo, Joseph Ayimbora, ne esce vivo solo perché si finge cadavere. Ma prima di morire, nel 2012, va ad accusare gli assassini in aula. E ora sua moglie, che chiameremo Mary, dalla località protetta dove sta tirando su i suoi tre figli, dice a Repubblica: «Non tornerò a Castel Volturno, lo shock fu enorme.
Massacrati come animali. Perché?
Quei compagni ghanesi sono stati dimenticati. Sono morti piccoli, per l’Italia». Eppure Joseph e Mary hanno chiamato il loro terzo figlio, un anno dopo la strage, con il nome del poliziotto che aveva coordinato le indagini. «Sì, mio marito ha creduto nella giustizia, ha visto le condanne, ma non è stato risarcito».
Domani, al decennale, partecipano i connazionali, il vescovo Salvatore Visco, le forze dell’ordine, le associazioni, le onlus. Due scuole faranno un “gioco senza frontiere” per scoprire le facce e le vite di quei morti senza memoria. Difficile però che partecipino gli altri, i cittadini semplici. «L’integrazione qui? Sembra impossibile – allarga le braccia il sindaco, Dimitri Russo – Qui abbiamo un Piano ad hoc finanziato con 20 milioni ma chissà quando lo vedremo. Eppure quella strage fu uno spartiacque, da allora lo Stato reagì, ma a parte gli arresti e i clan decapitati, socialmente non è cambiato niente. Un mio fallimento? Ma un sindaco non ha risorse per ribaltare 30 anni».
Questa è una terra che ormai ha perso l’innocenza. L’antica via Appia incisa da abusi e abbandono. Il fiume Volturno generoso e inquinato. Il litorale non balneabile. Le spiagge trascurate. Le case con vista mare – fino agli anni Ottanta splendide e lussureggianti – abbandonate o occupate abusivamente, o svendute, o fittate per pochi spiccioli. Cento euro una villetta: buona per venti o trenta migranti.
Anche al centro Fernandes sanno che devono farcela da soli. «Si usa la parola immigrazione come spot. Ieri come oggi. Nessuno ha mai affrontato il dramma in maniera organica. Qui ci sono africani che da 10-15 anni vivono in un limbo. E alle nostre porte bussano tante donne incinte», ricorda Antonio Casale. Basta spulciare tra i numeri dell’ambulatorio di Emergency, attivo da 5 anni.
«Abbiamo 8.500 pazienti tutti stranieri,molte giovani madri costrette allo sfruttamento sessuale. E quelli poi con disagio psichico, non esistono per nessuno», denuncia Sergio Serraino. All’ex Canapificio, invece, sono preoccupati per l’eventuale approvazione del decreto Salvini. «Lo schema di decreto legge proposto dal Ministro dell’Interno vorrebbe intervenire sul rilascio dei permessi per motivi umanitari – ragiona l’operatrice Mimma D’Amico – Alla luce della nostra esperienza, questo è di enorme pericolosità: scatenerà conflitti sociali e altre irregolarità».
Serraino è categorico: «Qui non ci sono solo le mafie nigeriane.
Venite sulla Domiziana alle 4 del mattino, la massa è fatta di ragazzi che si spaccano la schiena fino a sera. Sono lavoratori e soli: come quelli finiti nel bagno di sangue».
Domiziana, civico 1083.
Flashback, le sette di sera di quel 2008. Chi cuce, chi misura i pantaloni, chi ha una birra. Il commando piomba davanti alla bottega, “travestito” con pettorine della polizia. Movente? Non c’è.
Vogliono dare un segnale agli africani che spacciano: imporre la tangente sulla droga. Ma poiché i “cattivi” in giro non si trovano, decidono di massacrare i “buoni": tanto, «sempre niri sono», svelerà un pentito. Quattro pistole, tre mitragliatrici: guida Setola ‘o Cecato, ci sono anche Giovanni Letizia, Davide Granato, Alessandro Cirillo e Oreste Spagnuolo (tutti condannati con «l’aggravante dell’odio razzista»).
Sparano oltre 130 colpi. A strage compiuta Setola si assicura. «So’ muort’?». Sì. Lui: «Sti niri ‘e merda». I nomi incisi sulla stele che Taiwiou sta verniciando. Con lui c’è un pastore, Prosper Doe. Di italiano ne sa poco, ma efficace.
«Dopo i morti innocenti, ancora razzismo. Dobbiamo lavorare su questo casino».