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 2018  settembre 15 Sabato calendario

Un ricordo del grande avvocato Francesco Carnelutti

Per quasi mezzo secolo dominò la scena nei tribunali, nelle aule universitarie e nelle biblioteche giuridiche. Fu protagonista dei processi più celebri, e li perse quasi tutti perché quando i clienti si rivolgevano a lui il caso era davvero disperato. Spaziò in tutte le branche del diritto, e alla fine, scettico come tutti i saggi sulla giustizia di questo mondo, si affidò a quella dell’altro. A lungo, dopo la sua morte, la sua immagine influenzò il mondo forense. E ancora oggi, se un avvocato se la tira troppo, si dice ironicamente di lui: «Neanche fosse Carnelutti!».
LA CARRIERA
Francesco Carnelutti era nato a Udine il 15 Maggio 1879. Studiò a Padova, dove insegnò diritto commerciale, industriale e procedura civile. Alla fine della sua carriera accademica approdò a Roma: era già un illustre penalista, tanto abile quanto esigente. I suoi avversari, criticandone le alte parcelle, dicevano «carne per sé e lutti per gli altri». Ma erano denari meritati. Nessuno lo superò in ciascuna delle tante discipline di cui era maestro. E nessuno ebbe una mente così eclettica nel signoreggiare l’intero universo del diritto. La sua produzione scientifica fu immensa, e la sua influenza, almeno tra le due guerre, pari alla sua fama. Fu – assieme a Redenti e Calamandrei – il padre del codice di procedura civile, che ancora oggi regola le nostre liti. E fece riflettere giuristi, sacerdoti e filosofi sulla natura del delitto e la funzione della pena. Nella tarda maturità, accortosi di aver trascurato il fattore esistenziale, approfondì gli studi sul cristianesimo e, da ateo convinto, divenne un credente devoto. Allora si dedicò alla riflessione speculativa, sollevando perplessità, e talvolta ironie, tra docenti e avvocati. 

LE CITAZIONI
In effetti amava concludere le sue arringhe con dotte citazioni testamentarie, innervosendo le toghe laiche e confondendo quelle cattoliche, generalmente ignoranti in materia. Ma nessuno ardiva interromperlo, tanta era la sua competenza e la sua autorità. Al suo ultimo processo, contro Giovanni Fenaroli, accusato di aver fatto uccidere la moglie, parlò per un giorno intero, e gli fu concesso di farlo stando seduto. Era un’impresa impossibile, e infatti il geometra fu condannato all’ergastolo. Ma quell’arringa rimane ancora oggi un esempio di quanto sia eccitante, e nobile, battersi bene per le guerre perdute. Quando morì, quasi novantenne, i tempi erano già cambiati. Le aule giudiziarie non erano più palestre di esercizio retorico e di lezioni accademiche. Ma l’opera di Francesco Carnelutti resta ancora oggi, e forse più di ieri, affascinante ed attuale.

IL PROCESSO
Fu il primo a definire il processo non solo come strumento di verifica per irrogare o meno una pena, ma come pena in sé stessa, perché l’imputato, comunque vada a finire, deve sopportare una tale serie di lungaggini, angosce, pregiudizi e spese, da uscirne annichilito anche in caso di proscioglimento. Per questo definì ogni sentenza di assoluzione «la confessione di un errore giudiziario». Non perché, come oggi predicano alcuni magistrati, il colpevole l’abbia fatta franca, ma perché, in carenza di prove, il processo non sarebbe nemmeno dovuto iniziare, risparmiando al malcapitato il relativo calvario.
Fu spietato contro la dissennata proliferazione normativa. «In Italia – scrisse – sono in vigore circa duecentomila leggi, per fortuna temperate da una generale inosservanza». 
Il tempo e l’età gli avrebbero risparmiato il disgusto di veder questo numero aumentato a dismisura, con l’aggravante di una formulazione lessicale sgrammaticata e approssimativa, che ne avrebbe reso la comprensione, l’interpretazione e l’applicazione un indovinello dentro un mistero avvolto in un enigma.

LA FEDE
Come molti convertiti tradusse la fede in affermazioni esasperate, sollevando le ironie, non sempre ingiustificate, dei colleghi che ne conoscevano i difetti e ne invidiavano le qualità. Oggi, come allora, si resta perplessi davanti alle sue orazioni, monumenti di cultura, di stile, e di dialettica, e tuttavia appesantite da un ripetitivo finale di pedagogia evangelica e di precettistica apocalittica. Le sue citazioni sul «non giudicare per non esser giudicati», e le sue conseguenti invocazioni di clemenza e di amore sono più adatte a un pulpito penitenziale che all’austera aula di una corte d’assise, magari in presenza di spietati criminali. Preferì sorvolare sul fatto che la stessa Chiesa, nella sua saggezza millenaria, insegna che il perdono dev’essere preceduto dalla confessione, dalla riparazione, dall’espiazione e dal fermo proposito di astenersi dalla ricaduta. Una remissione gratuita e incondizionata non fa parte della dottrina del cristianesimo, e ancor meno della funzione dello Stato. 

FARISEISMO
Ma questo orientamento del vecchio Maestro non procedeva da un fanatismo religioso, e tantomeno da una ingenua interpretazione indulgenziale del messaggio di Gesù. Derivava piuttosto dalla constatazione che il diritto, al quale aveva consacrato la vita, era una imperfetta e volatile creatura della nostra precaria comprensione della realtà oggettiva in generale e della mente umana in particolare. In uno dei suoi scritti senili, La morte del diritto, ne denunciò il fariseismo e l’ossequio feticistico da parte dello Stato. Confessò amaramente che «compiendosi la Storia, gli uomini camminano in senso inverso: gli uni verso la cattiveria, gli altri verso la bontà, gli uni verso la schiavitù, gli altri verso la libertà». Non possiamo condividere un’interpretazione così negativa e parziale dell’evoluzione dello Spirito umano, che sia pur con tragici intervalli di miserie, massacri, e iniquità sembra comunque procedere, lento e barcollante, verso un impercettibile ma reale miglioramento delle nostre condizioni di vita.
 
ILLUSIONI
Se la carcerazione arbitraria, la tortura e la pena di morte sono quasi sparite, o in via di sensibile diminuzione, ciò è dovuto allo spirito di ragionevole tolleranza suscitato e mantenuto dalla sensibilità e dalla pazienza di tante menti illuminate. Tuttavia, al netto di questo misticismo catacombale, è vero che non dobbiamo farci troppe illusioni sulla giustizia umana: non sulla sua capacità intimidatrice e preventiva, e tantomeno su quella rieducativa. In questo, siamo d’accordo con il Maestro: «Che il diritto non è fatto se non per i mediocri: i buoni non ne hanno bisogno, i cattivi non ne hanno paura».