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 2018  settembre 14 Venerdì calendario

Biografia di Oliver Stone

Oliver Stone (William Oliver S.), nato a New York il 15 settembre 1946 (72 anni). Regista. Sceneggiatore. Produttore. Attore. Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti: tre premi Oscar, di cui uno alla miglior sceneggiatura non originale (nel 1979 per Fuga di mezzanotte) e due al miglior regista (nel 1987 per Platoon e nel 1990 per Nato il quattro luglio); un Orso d’argento per il miglior regista (nel 1987 per Platoon); un Leone d’argento Gran premio della giuria (nel 1994 per Assassini nati – Natural Born Killers). «Io considero i miei film in primo luogo come drammi su individui alle prese con conflitti interiori, e considero me stesso un drammaturgo prima ancora che un cineasta politico. Sono interessato a punti di vista alternativi». «Anziché raccontare il sogno americano, mi sono dedicato all’incubo americano» (a Marco Consoli) • Figlio unico di un agente di borsa statunitense ebreo non praticante (Louis Stone, nato Silverstein) e di una casalinga francese cattolica. «Mio padre era un uomo onesto, lavorava moltissimo e non ha mai fatto il broker per soldi né ha mai giocato con denaro altrui. Come tanti allora, odiava Roosevelt, perché aveva imposto un mucchio di regole alla borsa e un mare di tasse. […] Era un repubblicano conservatore e mi aveva cresciuto nell’Upper East Side con il terrore della globalizzazione del potere militare russo e l’odio per il comunismo» (a Cristiana Allievi). «Ho imparato la storia ortodossa, quella secondo cui siamo eccezionali e facciamo cose buone nel mondo. Secondo questa regola la vittoria nella Seconda guerra mondiale con la bomba atomica era una necessità, così come il Vietnam». «Da ragazzino ero un conformista. […] I miei hanno divorziato quand’ero adolescente. A quattordici anni sono finito in collegio, e da allora non ho più avuto il calore di una famiglia. Sono passato dalla scuola al Vietnam». «Mio padre Louis, […] non voleva assolutamente che partissi. Come ogni padre, era contro la guerra. E soprattutto riteneva non fosse necessario che ci andassi io, cosa su cui non sono mai stato d’accordo». «“Sono partito volontario per il Vietnam. Ho sparato e sono stato ferito due volte. Ma qualcosa in me si ribellava all’idea dell’uomo contro uomo, alla brutalità del conflitto”. […] Dalla guerra Oliver Stone si è portato appresso una medaglia di bronzo al valore e profonde cicatrici psicologiche. Malgrado questo, è rimasto fedele all’indottrinamento: “Non sono mai stato un fascista, ma un repubblicano convinto dei valori conservatori, sicuro che il comunismo fosse il nemico”» (Arianna Finos). Al ritorno in patria, riprese gli studi universitari interrotti a Yale prima dell’arruolamento, iscrivendosi però ai corsi di cinematografia della New York University – tenuti, tra gli altri, da Martin Scorsese –, giungendo alla laurea nel 1971. «Ciò che ha avuto forse la maggiore influenza sul mio lavoro di regista è stata la guerra in Vietnam: prima di andarci ero una persona molto cerebrale, la scrittura mi interessava più di ogni altra cosa, ma in Vietnam tutto è cambiato. Tanto per cominciare non potevo scrivere, per ragioni molto pratiche come l’umidità. Eppure ero circondato dal contesto più drammatico che si possa immaginare, e volevo conservarne la memoria, così ho comprato una macchina fotografica e ho cominciato a scattare foto. Poco a poco ho scoperto la sensualità delle immagini, che ho trovato molto più intensa della sensualità di qualunque cosa scritta, e sono diventato più viscerale che cerebrale. Anche la mia capacità di guardare le cose si è fatta più acuta. La guerra ti insegna a guardare sempre con attenzione i pochi metri quadrati che hai davanti, perché quando si cammina nella giungla alla ricerca del nemico bisogna stare molto attenti, bisogna enfatizzare quel piccolo spazio di visibilità davanti al proprio naso, che in un certo senso è ciò che si fa in un film. Non mi sono reso conto di tutto questo mentre ero là, naturalmente; soltanto quando sono ritornato a New York e ho cominciato a realizzare film è diventato evidente. In effetti è stato Scorsese che me lo ha fatto notare: avevo girato tre cortometraggi davvero orrendi, in cui parlavo di cose prive di interesse, e Martin mi ha incoraggiato a usare la mia esperienza, a parlare di quella. Così ho realizzato un corto di dodici minuti intitolato Last Year in Vietnam, che parlava del contrasto fra la mia esperienza di guerra e la vita a New York. Mi ricordo che, dopo averlo proiettato, gli altri studenti – molto competitivi e con la tendenza a criticarsi con asprezza uno con l’altro – sono rimasti incredibilmente silenziosi. Scorsese mi ha detto che avevo finalmente compreso che cosa significa fare cinema. Allora ho capito che dovevo alimentare le mie opere con la mia stessa vita, perché è questo che sta alla base dei migliori film» (a Laurent Tirard). «Il produttore Fernando Ghia […] nei primi anni ’70 si vide capitare nell’ufficio della Vides a Los Angeles un capellone male in arnese e visibilmente impasticcato. Alle spalle il giovanotto aveva un’esperienza dura: 350 giorni in Vietnam come volontario; e, tornando in patria, scosso e disorientato, aveva scritto senza esito romanzi e sceneggiature. Sul versante positivo, aveva frequentato alla scuola di cinema di New York le entusiasmanti lezioni del professor Martin Scorsese; su quello negativo, era finito in galera perché scoperto con la marijuana nella valigia alla frontiera del Messico. "Al momento non ho nessun lavoro da offrirti – si scusò Ghia con il giovane –, ma per te posso fare una cosa. Proiettarti un film prodotto in Italia dalla nostra società, vicino a ciò che tu vorresti fare"; e gli organizzò una visione di Salvatore Giuliano. Oliver Stone – questo era il nome di quel reduce – ne rimase folgorato, vide e rivide il film di Francesco Rosi e ne trasse l’ispirazione che in seguito l’avrebbe portato a fare in un certo modo JFK. Poco dopo ottenne i primi successi come sceneggiatore, e in tale veste con Fuga di mezzanotte (1978), storia di un americano incarcerato per droga a Istanbul, vinse addirittura l’Oscar» (Tullio Kezich). «L’esordio alla regia è del 1974, con Seizure, un horror low budget: un inizio di genere, che già rivela quell’attenzione per i codici dello spettacolo che sarà la costante e forse anche il limite del regista. Horror sarà anche il secondo film, La mano (1981), assurda e patologica storia di un fumettista (interpretato da Michael Caine) che perde la mano in un incidente, per poi scoprire che il suo “pezzo” mancante riesce a vivere autonomamente. Il film è tratto da un romanzo di Marc Brandel, e anche qui emerge un’altra tendenza tipica di Oliver Stone: quel suo rifarsi continuamente ad altre storie, reali o immaginarie, cronache, biografie o invenzioni narrative. […] In ogni caso, è proprio con le “storie” che Stone, da sceneggiatore, ottiene i primi successi. Nel ’78 firma lo script di Fuga di mezzanotte (che racconta, guarda caso, la vera avventura di Billy Hayes). Nel 1983 riadatta il mitico Scarface di Howard Hawks e offre a Brian De Palma un’immensa parabola di ascesa e caduta, altro specchio deformante del sogno americano. Poco dopo, l’incontro con Michael Cimino, in cerca di una rinascita dopo la meravigliosa catastrofe de I cancelli del cielo. I due riprendono un romanzo di Robert Daley e danno vita a L’anno del dragone. La scrittura densa e potente di Stone trova una magica consonanza con il cinema oltre ogni limite di Cimino. […] Per Oliver Stone, comunque, la strada è segnata» (Aldo Spiniello). «Il punto di svolta è stata la strategia di Reagan in Centro America. Mi ha fatto arrabbiare. È per causa sua che ho cambiato in modo radicale il mio punto di vista. Ho avuto voglia di raccontare la verità. L’altra verità. Così è nato Salvador», «primo film che assomma in sé i veri caratteri della poetica stoniana: opera tesa e violenta, di grande impegno civile, denuncia con passione le ingerenze del governo americano nel sistema politico sudamericano e la connivenza di Washington con i regimi militari dell’America Centrale. Salvador è la prima di una lunga serie di pellicole dedicate ad eventi storici che, in un modo o nell’altro, hanno influenzato la vita di un’intera generazione, la generazione dei Sixties, della "sporca guerra" del Vietnam, della contestazione giovanile, delle grandi tragedie americane (l’assassinio dei due fratelli Kennedy, di Martin Luther King), la generazione della giovinezza di Stone. Il ritorno a quest’epoca è costante, quasi ossessivo; nella mente del regista la collisione tra vita privata ed eventi pubblici si trasforma in narrazione ed in denuncia» (Valentina D’Amico). «Sempre sull’onda dell’autobiografia, Stone andò avanti a lungo a proporre un film sul Vietnam. Perché anche nei momenti più confusi della sua esistenza era sempre rimasto convinto che si dovesse proporre al pubblico americano un’immagine cinematografica della "sporca guerra" la più lontana possibile dal famigerato Berretti verdi di John Wayne. E quando nel gennaio 1986 Oliver arrivò nelle Filippine per realizzare Platoon era già un regista con un paio di titoli all’attivo. […] Per l’autore, la storia della Bravo Company (25esimo Fanteria) nel Nam del 1967 doveva rispecchiare un’educazione sentimentale: […] Sheen è il soldatino pivello al quale aprono gli occhi sulla realtà del conflitto due sergenti rivali: il cattivo Berenger e il buono Dafoe. […] Girato in 54 giorni, il film uscì in soli sei cinema nel dicembre 1986, ma il giorno dopo c’ erano già le file, i critici lo esaltavano, e per questi nuovi "disastri della guerra" Stone fu definito "un Goya della pellicola". Arrivato come outsider nella gara degli Oscar, Platoon strappò a sorpresa otto nomination e quattro statuette (film, regia, sonoro e montaggio). Ma ebbe soprattutto il merito di riaprire la discussione sul senso della guerra del Vietnam, un argomento accantonato da troppo tempo» (Kezich). «Seguono Wall Street (1987) sul mondo della finanza con il memorabile Gekko di Michael Douglas (premio Oscar), Talk Radio sul mondo dei media, The Doors sul mito maledetto di Jim Morrison. In mezzo ritorna al Vietnam con Nato il quattro luglio, ispirato alla vita dell’eroe senza gambe Ron Kovic, portato sullo schermo da Tom Cruise. Ancora una volta Hollywood gli sorride nel 1989 con due Oscar e otto nomination. La filmografia di Oliver Stone è spesso bulimica, quando non interrotta da fragorosi incidenti di percorso. Così vanno ricordati i tre film sui presidenti americani (JFK, Nixon e W.), l’ultimo capitolo della sua trilogia sul Vietnam Tra cielo e terra del 1993, Assassini nati del 1994 (da una sceneggiatura poi misconosciuta di Quentin Tarantino), il visionario U Turn del 1997, Ogni maledetta domenica del 1999, World Trade Center del 2006, il seguito di Wall Street del 2010 e Le belve di due anni dopo. Fa storia a parte il colossale fiasco di Alexander del 2004, in cui il regista proiettò il suo gigantismo nel personaggio di Alessandro Magno, spendendo oltre 150 milioni di dollari per un’impresa rifiutata dalla critica e solo parzialmente salvata dagli incassi» (Giorgio Gosetti). Ultimo lungometraggio Snowden (2016), incentrato sulla vicenda umana e sulle rivelazioni dell’informatico e attivista Edward Snowden, aspramente contestato in patria e tiepidamente accolto dal pubblico • «A cominciare da JFK il suo nome è stato associato alle teorie del complotto: nel film l’assassinio di Kennedy risultava opera di una cospirazione nella quale erano coinvolti il Pentagono, l’Fbi, gli anticastristi e persino Lyndon Johnson» (Antonio Monda) • Dai primi anni Duemila Stone si è dedicato anche alla realizzazione di documentari di argomento storico e politico, per lo più basati su interviste e incontri avuti dal regista con alcuni tra i dittatori e gli autocrati più controversi e invisi all’opinione pubblica statunitense, dei quali finisce spesso per rendere un ritratto agiografico. Vi si annoverano Persona non grata (2003), sul conflitto israelo-palestinese (comprendente interviste ad alcuni miliziani di Hamas), Comandante (2003) e Looking for Fidel (2004), su Fidel Castro, A sud del confine (2009), su Hugo Chávez, la serie documentaristica televisiva in dodici puntate Oliver Stone – Usa, la storia mai raccontata (2012), rilettura profondamente revisionistica della storia statunitense e internazionale dalla Seconda guerra mondiale ai giorni nostri, e da ultimo The Putin Interviews (2017), sul presidente russo. «Fidel Castro? “Un uomo cordiale, esuberante, interessato alla cultura e alla vita”. Bè, certo, Castro piace a un sacco di gente. Hugo Chávez? “Quest’uomo è un fenomeno. Un fenomeno più grande degli attacchi che gli dedicano i media americani”. Sì, anche Chávez continua a piacere, va detto, nonostante alcuni crimini contro l’umanità. Iosif Stalin? “È vittima di una lettura convenzionale della storia, non è un eroe ma quasi, ha combattuto più di tutti la macchina nazista”. Qui le cose si complicano, per qualche decina di milioni di morti nei gulag, ma non stiamo lì a cavillare. Mao Zedong? “In Cina non c’è stata abbastanza critica alla sua figura, ma fuori è stato vilipeso”. Ecco, ci sarebbero altre obiezioni, ma non è il momento, la questione è un’altra. Adolf Hitler? “Un facile capro espiatorio, il prodotto di una serie di azioni, appoggiato da grandi società americane”. Perfetto» (Mattia Feltri). «Abbiamo bisogno di persone che mettano in discussione l’establishment. Io ho sempre cercato di fare la mia parte. […] Non ci si dovrebbe mai fidare del governo. […] Io amo il mio Paese, e proprio per questo mi sento in dovere di criticarlo» • Dichiaratamente di sinistra. Ex elettore di Obama rimasto profondamente deluso dalla sua presidenza, ha criticato duramente sia Trump sia la Clinton, esprimendo invece simpatia per Bernie Sanders. «In America abbiamo bisogno di un terzo partito, come è accaduto in Europa con i 5 stelle o con Podemos. Oggi il Partito democratico sostiene la guerra quanto quello repubblicano» • Cresciuto come episcopaliano, Stone si è in seguito avvicinato a Scientology, per approdare poi al buddismo. «La meditazione mi ha molto influenzato nel modo di vedere le cose, mi ha reso più consapevole: peccato non l’abbia praticata quando ero giovane…» • Tre matrimoni, tre figli: due maschi, Sean (attore, sceneggiatore e regista, convertitosi all’islam nel 2012) e Michael, dalla seconda moglie e una femmina, Tara, dalla terza e attuale consorte, la sudcoreana Sun-jung Jung • «Gioviale, massiccio, collerico, diretto, passionale e polemista, Stone fa paura spesso anche ai suoi colleghi: Kubrick ritardò di un anno l’uscita di Full Metal Jacket per non entrare in concorrenza con Platoon, Tarantino fece slittare la prima di Pulp Fiction per non doversi confrontare con Assassini nati» (Gosetti) • «La grande contraddizione del cinema di Stone: da un lato l’ambizione titanica e polemica del narratore, dall’altro il sostanziale rispetto di un codice spettacolare profondamente mainstream. […] In realtà, il cuore profondo della poetica del regista newyorchese resta questo desiderio di un racconto che ambisca a rifare e quindi a svelare la Storia, a ricostruire attraverso il lato “nascosto” del passato (prossimo e remoto) e dei personaggi (veri) la complessità contraddittoria del contemporaneo. […] A parte rapide e folgoranti intuizioni, come JFK, […] l’occhio non è mai capace trasformare la Storia in mito, cioè in un’espressione e un racconto universali, ma si ripiega sulle “piccole” storie individuali e non permette al cinema di liberarsi dal peso di un’impostazione ideologica e precostituita e di un procedimento a tesi che si rivela sfibrante. Eppure, a ben guardare, va riconosciuto a Stone un coraggio di non poco conto. […] Lo testimonia il fatto che, in quasi tutti i suoi film, il regista riesca a ritagliarsi lo spazio almeno di un’apparizione fugace. È come se Stone rivendicasse con orgoglio la sua capacità di non nascondersi e di stare sempre sul campo di battaglia, dentro il film, con una passione viscerale» (Spiniello) • «Per me il cinema è un meccanismo per ricercare la verità e superare la soglia del politicamente corretto. E riesce ad essere più efficace di qualsiasi discorso». «Quando sono arrabbiatissimo giro un documentario: uso la via diretta per dirlo. Se racconto una storia, invece, è segno che sono più tranquillo». «Fare film mi ha calmato, rassicurato, ha fatto uscire tutta la rabbia che avevo dentro. […] Piano piano, sono maturato e ho trasformato la mia rabbia in qualcosa di positivo e di bello. E, se da giovane avevo davanti agli occhi soltanto la guerra, i crimini, la corruzione, la menzogna, ora ho antenne più sottili: adesso sono i rapporti con gli altri al centro della mia attenzione. […] Vorrei girare qualcosa alla Visconti, qualcosa di simile a Bellissima, per intenderci. Ho sempre trovato straordinaria la passione di quella madre, e la relazione tra padre, madre e figlio mi ha affascinato. E poi adoro la Magnani».